Pittura Museo Città, una mostra dal 1975 al 2015

artisti ieri e oggidi Mario Cancelli. Maurizio Bottarelli, Sergio Cara, Bruno de Angelis, Daniele degli Angeli, Marcello Landi, Vittorio Mascalchi, Gabriele Partisani, Giovanni Pintori, Roberto Rizzoli, Vincenzo Satta, Severino Storti Gajani, Giorgio Zucchini.

Un'opera di Sergio Cara
Un'opera di Sergio Cara

Cominciamo con i loro nomi. Un po’ come nel libro dell’Esodo o nei Guermantes di Proust. Più che per obbedienza alle sacre regole del giornalismo, per evitare quell’effetto di sospensione che spesso ci trasmettono i non meno sacri testi critici. Prima il “Chi”.

mostra5Li potete incontrare, questi artisti che qualificarono la vita culturale di Bologna in quegli anni, come ben testimoniato dal catalogo “PITTURA MUSEO CITTÀ una mostra dal 1975 al 2015”, curato da Sandro Malossini e Paolo Conti, nei bellissimi spazi espositivi della Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Viadana.

Rosso - Giorgio Zucchini
Rosso - Giorgio Zucchini

La mostra riunisce, infatti - “ricorda” pare limitativo - le vicende di alcuni giovani pittori i quali, appena diplomati nella maggior parte di loro all’Accademia delle belle Arti, altri già docenti, operarono nella città suscitando interesse proprio per il gusto appassionato della pratica del fare artistico che in quei giorni veniva messa in discussione da più aggressive e totalizzanti istanze.

Londra - Maurizio Bottarelli
Londra - Maurizio Bottarelli

Probabilmente ignorati dagli improvvisati Comitati di salute pubblica, mentre fuori dei muri del Palazzo Bentivoglio - ricorda uno di loro, Bruno de Angelis - s’alzava la cortina dei lacrimogeni e delle molotov, reduci già a vent’anni per questa loro difesa dell’arte, consapevoli di essere oramai i soli rappresentanti di sé medesimi dinanzi al tribunale dell’io (più che della storia), essi congiunsero in continui confronti con i maestri - tra i quali è giusto ricordare anche i critici Giovanni Maria Accame e Pier Giovanni Castagnoli - la febbrile attività creativa ed intense riflessioni sulla propria prassi. Si trovavano tra l’incudine di un mondo dell’arte in rapido cambiamento, che consumava ciò che era appena stato confermato e il martello dei sommari negazionismi.

Un'opera di Bruno De Angelis
Un'opera di Bruno De Angelis

Quegli anni culminarono in una mostra alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna e nell’apertura degli studi personali, secondo un’idea di aprire l’arte alla città, che avrà successo ai nostri giorni. Da qui il titolo dell’iniziativa e del catalogo: “PITTURA MUSEO CITTÀ una situazione a Bologna”.

Senza titolo - conchiglia - Roberto Rizzoli
Senza titolo - conchiglia - Roberto Rizzoli

Non “il Palazzo” (del potere), come si dirà poi, ma un palazzo fu all’origine di questi sentieri, che oggi appaiono a volte interrotti, ma ricchi di intuizioni ancora feconde; quel Palazzo Bentivoglio che meriterebbe la penna di Bassani, eretto nel Cinquecento da un ramo collaterale della famiglia che aveva dominato Bologna, come tributo all’antico splendore del primigenio palazzo Bentivoglio, distrutto a furor di popolo.

Piccola sindone Gabriele Partisani
Piccola sindone Gabriele Partisani

La bellezza della loro storia è non solo nell’attenzione e nelle cure dei critici che operavano all’epoca - il gradevole e duttile catalogo riporta testi di Accame, Castagnoli, Trento, Cerritelli, Guberti,- quanto nella prudenza e nella quasi paterna pazienza degli stessi, che dimostravano di aver afferrato pienamente la situazione di questi artisti, loro amici e compagni, per nulla “situazionisti”. Non avevano fra le mani le pretese di un gruppo, capace di manifesti e di dottrinarie premesse e promesse, ma personalità che le foto d’epoca ci restituiscono sorridenti, fiduciose pur fra tante incertezze, di poter conseguire una meta che l’occasione di Viadana sottrae alla polvere del tempo.

Acrilico su tela - Daniele Degli Angeli
Acrilico su tela - Daniele Degli Angeli

Senza strafottenza, senza obiezione, con rispetto. Cosa c’è di più politico del proprio desiderio che non vive se non in rapporto con l’altro, del proprio impegno a trarre qualcosa da insegnamenti, stili, messaggi, tendenze? Non vediamo nulla di provinciale o di esasperatamente acceso infatti nei loro esiti: tecniche e linguaggi maturi, abilità e giovanile volontà di tentare e provocare le acquisite eredità linguistiche, quasi inesistenti i narcisismi di chi possiede oramai strumenti e li vuole ostentare.

Si resta ammirati davanti alle fredde ma liriche geometrie di Sergio Cara, di perfetta e misurata eleganza, ai cartoni tra il pop e il minimalismo di Partisani, già opere “povere” quanto a materiali eppur ricche di vivacità e prontezza. Colpisce la determinazione con la quale Bruno de Angelis conduce il suo impeto informale nelle parietali dimensioni di una superficie che, senza nulla invidiare a quelle dei canvas dell’Action painting, orchestra musicalmente neri e grigi, secondo partiture che costeggiano il minimalismo, restando ancorate a spazi, percezioni: luoghi non emotivi, ma trasposizioni della memoria e della psiche. Ai seriali ritmi astratti di Storti Gajani, pastellati, esito di grigi nebbiosi e azzurrini, che fanno pensare ancora agli ultimi naturalismi di cui parlava Arcangeli. Si va dalle textures sapienti di Landi a quelle espressionistiche e seducenti, capaci di confessione di Pintori, tentate da inserzioni alla Rauschenberg.

mostra2Tutto dice della qualità e della durezza della partita: non solo tra vecchio e nuovo, ma soprattutto tra una forma spiritualistica, non inclusiva dell’io e il tentativo di difesa dell’io stesso.

Un 'altra oepra di Zucchini
Un 'altra opera di Zucchini

Alcuni, infatti, cercano ancora la favola, il mito, il racconto, come Daniele degli Angeli, ma si tratta sempre di fedeltà senza malizia al proprio immaginario, altri, come Giorgio Zucchini, guardano con ironia, leggerezza e piacevolezza a magisteri celebri; altri infine presentano l’invasione tecnologica e cercano un equilibrio tra realtà, assicurata dai media, e poetiche psicologiche, come Roberto Rizzoli.

Tra i più maturi, quanto a età, Mascalchi oppone alberi di minacciosa espressività e rapidità esecutiva alla nuova natura di oggettive e lentissime istantanee di ambienti rurali.

mostra1Nel rigoroso, perfino univoco percorso di Vincenzo Satta, cogliamo appieno, invece, il tentativo di ascesi dell’artista: le sue “macchie” per nulla gestuali sono perfettamente controllate, i suoi calligrammi veleggiano verso una luce non naturalistica, di un’astratta e mentale purezza.

In tali gnostici chiarori si manifesta appieno l’altro polo della dialettica di questi pittori a cui si accennava prima, quello che spiritualisticamente aspira a superamento (o meglio rimozione) dell’io.

MOSTRA%20PITTURA%20MUSEO%20CITTA[1]L’esperimento del Museo Civico di Viadana ha quindi non solo un senso ma anche un risultato proficuo. Anche se le poetiche non sono più quelle, se le strade individuali sono - e in mostra già vediamo traccia e sintomi di queste necessarie aperture - , se qualcuno non è più (Mascalchi, Partisani e il critico d’arte Accame) e di altri, come per Bottarelli, si è nel tempo confermata vitalità e riconoscimento. La cura dimostrata dagli organizzatori ci porta oltre l’esito un semplice recupero, semmai verso la ritrovata consapevolezza che la “ricerca del tempo perduto” è tale solo se è ricerca della “pulsione” instauratasi allora e in fondo da nessuno di loro mai perduta. Non era proprio lei, la “pulsione” dell’io, ciò che si trovarono davanti critici e maestri così attenti a ogni piega e a ogni minima variazione, ciò di fronte a cui essi stessi non sapevano - e fortunatamente - come porsi? La loro prudenza e attenzione continua certamente in questa cura odierna e vale un viaggio sulle rive del Po.

 

Pittura Museo Città - una mostra dal 1975 al 2015
MU.VI Musei Viadana - Galleria Civica d’Arte Contemporanea
14 febbraio 2016 - 11 aprile 2016


Gaitonde a Venezia, le sindoni zen che annullano i confini dell’arte

IMG_6637La retrospettiva del pittore indiano Vasudeo Santu Gaitonde (1924-2001), la più ampia tenutasi in Europa, organizzata dalla Peggy Guggenheim Collection di Venezia, ha permesso una presa d’atto oramai completa della sua attività. Una vicenda più che significativa, sia per la qualità delle opere, sia per i rapporti che essa istituisce con l’arte europea dalla quale dipende fin dagli inizi e per il percorso finale, vera e propria anabasi o ritorno alle sorgenti della cultura orientale. Anabasi che nel suo compiersi recupera sì modelli perduti in un’epoca nella quale l’arte indiana tentava in ogni modo di inseguire e collimare con l’offerta occidentale, ma che non per questo sacrifica quanto acquisito.

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Il nostro critico Mario Cancelli alla mostra su Gaitonde

Un’operazione quindi che, assieme agli eccelsi esiti pittorici, fra i più alti di questa stagione in cui in Occidente si maturano soluzioni sofferte ma ineludibili (spesso vissute con entusiasmo e radicalità, si pensi al gruppo Gutaj in Giappone, legato all’espressionismo astratto americano) provoca entrambe le fonti proprio nell’evitare equivoci sincretismi. Quasi una sfida, a viso aperto, quella operata da Gaitonde, a entrambe le tradizioni, vissute e amate con sincero trasporto, e in grado di istituire un continuo, fertile, quasi implacabile atto di giudizio. Forse come nessun altro esempio fino ad ora conosciuto. Da qui il valore della vicenda di Gaitonde e l’indiscusso merito del Guggenheim e dei curatori, tra cui Sandhini Poddar.

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Klee, Giardino magico
Gaitonde
Un'opera giovanile di Gaitonde

Gli inizi “europei” di Gaitonde, artista schivo e lontano delle accademie, sono legati all’esperienza di Paul Klee. Non poteva essere altrimenti: Klee era uomo altrettanto schivo e dubbioso delle istituzioni accademiche, forse proprio per avervi insegnato. Il Klee che Gaitonde fa suo è il Klee astratto ma anche intimo, che offre un repertorio cospicuo di segni, simboli, soluzioni pittoriche, agiti grazie ad una texture fluttuante che unifica tutti gli eventi: si vedano le sue figure ridotte a schemi infantili e che il pittore indiano assimila con disinvoltura. Un Klee dal linguaggio delicato, che trasporta in un mondo di favola, testi “totali” anche quando in formato miniatura. Un’altra prestigiosa opera di Klee, conservata al Guggenheim, testimonia di un’eredità acquisita : quel “Giardino magico” che unifica favola, ironia, in una dimensione in cui tutto può essere detto, interferendo con firme simboliche, che rompono l’incanto e allo stesso tempo lo ricostituiscono. A parte l’ironia che contrassegna questo periodo dell’artista svizzero, la sua riduzione ad automa dell’umano, Gaitonde fa suo questo sviluppo modernista della pittura, dai molteplici possibili sviluppi.

IMG_6642Il silenzioso Gaitonde. L’arte europea però era iniziata con il gran chiasso delle Demoiselles d’Avignon: la forma classica in pezzi, l’eros che urla provocatoriamente attraverso una negritudo provocante, un cubismo in grado di far detonare l’inconscio e di neutralizzare gli eccessi. Gaitonde, che conosceva tutto ciò, decise poi un ritorno in patria, un nuovo viaggio verso le latitudini di una cultura che poteva offrirgli una soluzione a quell’automatismo che Klee vedeva impadronirsi della civiltà, verso qualcosa che fornisse riparo e dominio sulle schegge.

gaitI suoi simboli divengono quindi simboli con la maiuscola; il silenzio, approdo mistico. La mostra documenta in abbondanza questo tentativo. Si sente dire che i mistici siano tra loro tutti uguali: un luogo comune. Parallelismi con l’arte di Rothko? In realtà il pittore statunitense, in nome di una ecumenicità astratta, fonde i simboli prima ancora della realtà fenomenica, rimane erede del Rinascimento, lontano da questi aut-aut. Certo l’Occidente stesso a più riprese inseguirà la sapienza orientale, ma secondo dinamiche tutte sue. Tobey? Le sue superfici di puntini luminosi potrebbero rappresentare la massima prossimità, ma anche il preludio delle mappe gestuali di Pollock. E Mondrian non vive una sua geometria vivente in una polis che conosce solo atto e profitto?

IMG_6586Gaitonde quindi si trova a includere con un realismo sintetico paesaggi e interni quasi cinematografici, resi da un gesto rapido, moderno - sembrerebbe quasi un action per questo - ma da cui il mistico si trattiene e ci trattiene e che pervade di una malinconia quasi leonardesca. Tra noi e la realtà si eleva una barriera, la linea orizzontale che evoca la Perfezione, l’Ideale nascosto come termine di ogni moto.

Franz Kline Painintg n. 7
Franz Kline, Painting n. 7
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Un'opera di Gaitonde esposta a Venezia

Forse la distanza con l’Occidente è più testata che resa bandiera. Al “tutto è superficie” di Andy Warhol, Gaitonde oppone un “tutto è profondità, silenzio”. La linea di confine resta sottile ma obbligata: lo dimostrano le opere calligrafiche e il recupero della grammatica zen. L’esigenza era la medesima degli espressionisti astratti, ma anche se Kline utilizzò i segni calligrafici come supporto, il suo gesto si appropria del segno e i neri calano come architravi di un pensiero che è tutto dell’io. Al contrario Gaitonde sembra presupporre un codice preventivo, una sintassi nella quale, per ottenere la contemplazione, l’io va a scomparire nell’atto stesso della nominazione.

Non che l’Occidente non sia stato tentato da una simile soluzione, come la “catena dei significanti” di Lacan parrebbe dimostrare.

IMG_6653Oriente e Occidente s’incontrano però proprio nella necessità di una critica a questo annullamento: sarà il pensiero freudiano a legiferare dei due “eventi” del pensiero, quei principi di realtà e di piacere uniti nel pensiero del bambino e che l’Oriente tende a scindere. In questo senso andava lo stesso Klee, le sue sagome narrano la scissione, la regressione: favole per adulti di adulti in piena patologia, ma anche favole che riconducono residui della memoria alla storia dell’individuo.

Una scissione che le opere tantriche di Gaitonde vivono con fatica: i suoi teleri oro cupo e rosso indiano, avviano a un distacco e a un’immediatezza che annullano i confini dell’arte. Queste sindoni zen conducono alle energie dell’universo, sì ma per la via della sfiducia nell’atto intellettivo. Eros e pensiero separati in casa (nel corpo): non furono questi gl’inizi dell’avventura di Gaitonde. Solitaria ma capace di “prendere”.

 

V.S. GAITONDE. Pittura come processo, pittura come vita

A cura di Sandhini Poddar, curatrice aggiunta, Solomon R. Guggenheim Museum, con Amara Antilla, Assistant Curator, Solomon R. Guggenheim Museum

3 ottobre 2015 - 10 gennaio 2016

The Peggy Guggenheim Collection

www.guggenheim-venice.it

 

(Mario Cancelli)


Burri solitario / Due letture / Metafora e memoria dell’atto

BURRI sparaA distanza di tre giorni, proponiamo la seconda puntata dell'articolato contributo critico di Mario Cancelli su Alberto Burri, a conclusione della grande mostra newyorkese al Museo Guggenheim.

Burri solitario

A Maurizio Calvesi dobbiamo il gustoso esercizio di definire una mappa, che leghi gli artisti italiani del dopoguerra ai loro ipotetici partner politici. Dove lo mettiamo il nostro tra i Morandi, i Guttuso, e tutti gli altri? Da nessuna parte. Un impolitico, per usare il termine di Bataille; non perché il “nero” dell’ex camicia nera si fosse stinto col tempo (il nero avanza col tempo fino a dilagare), ma perché la camicia nera era oramai sempre più stretta e consunta.

alberto_burri_6-fdd24fa227Vista dai vincitori, vista dai perdenti, la conclusione è la medesima: trattasi non di un dramma del potere ma del suo contrario, dell’impotenza. La stessa storia dell’arte americana successiva ci parla di quest’abdicare: il gesto era ormai articolo esaurito su quel mercato. Esiste un piano Marshall per l’inconscio? Quei sacchi che gli americani inviarono in Italia dopo la fine della guerra, non divennero mai simbolo di povertà: l’eleganza con la quale Burri li trattava, parla di una ricchezza non riconducibile a cause esterne. “Sfruttare il caso con sapiente controllo”: questo assioma di Burri non è il segnale che nel linguaggio, se “qualcosa avviene”, è questo il vero capitale iniziale?

combustione plastica 70033282-CAB1-11Due letture

La critica fini con l’arrendersi a una vicenda scandalosa ma ineluttabile.

Flavio Caroli distinse gli sforzi interpretativi in due campi: la lettura “formalista” di Calvesi e quella che apriva sia pure con incertezza all’inconscio, grazie al recupero dei collages cubisti (2). Possiamo chiederci se l’ombra dell’inconscio gravi sul suo cantico di lacerti e tessuti slabbrati rimasti sul catafalco di una grazia irremovibile. Quelle cuciture in bella mostra tra i nobili stracci però non cucivano ormai nulla, erano residui di suture ormai inutili in se stesse.

boscoViene da pensare a Heine, al suo rifiuto di una poesia che metta “filosofiche pezze all’universo”: Burri compie qualcosa di simile? Sacchi e cuciture non sono nemmeno simboli, ma offerte di grate memorie, confronti impliciti e deliberata polemica con la pittura contemporanea, persa secondo Burri fra cerebrali astrattismi e grossolano realismo politico. Non ci si è accorti che il supertecnolgico Burri, l’oggettuale Burri, ripete in fondo l’operazione pascoliana, cioè la consacrazione poetica delle piccole semplici cose. Gli enormi sacchi con la loro bellezza di materia e di manufatto rappresentano una sorta di myricae made in USA.

Metafora e memoria dell’atto

slide_432494_5630802_free[1]Dai “Cretti” - bianchi come saline, neri come crateri - alle “Combustioni”, abbiamo davanti sempre un teatro, ma con qualcosa del laboratorio di analisi chimica. Un convitato di pietra, un opaco nero (a volte un rosso anche lui opaco e immemore di sé) come un oppositivo supporto minaccia di trascinare giù tutto il sipario.

È un barocco scientifico, in cui la carne si fa metafora in modo analogo a quello di un reagente iniettato nelle vene, nel quale tutte le metafore stanno sospese, tra recitato e biopsia. Ferite sì, ma per nulla metafisiche, come invece quelle di Fontana, che assurgono, come gli insuperati “Cretti”, a strozzate metafore della modernità: terre solo apparentemente desolate, dove è ancora intatto il piacere della sabbia, del gesso.

19-Ex-Seccatoi[1]Nell’ex Essiccatoio di Città di Castello, dalle pareti nere, Burri creò l’ambiente per i “Cicli”. Uno spazio mistico, come fu per la Cappella Rothko, un tempio della forma per un moderno faraone? No: in queste superfici, sempre più opache, nell’apoteosi della forma, Burri dà forse luogo a un atto che recupera qualcosa di originario.

Guggenheim-Burri-rosso-gobboAssistiamo a una Bisanzio della memoria, dove una foglia d’oro fluttua fra le tonalità dei grigi e dei neri, sostenuta e condotta da geometrie che sembrano assecondate presenze. Ridotte le materie al livello zero della natura, è come se il teatro (anche i sacchi erano stati teatro) non avesse più ragione di sussistere. Nella nuova, ultima spazialità, la questione si gioca tra materia levigata e materia che diviene eritematosa.

catrameÈ possibile dire allora che questo esito aureo, recupero di una qualche dimensione ctonia, su cui cade come foglia l’oro stesso, sia memoria di qualcosa di arcaico, di originario? Il “buco nero” non è meno nero, anzi ora è invasivo, ma chi lo vede più in questa sorta di paesaggio astratto, che ricorda l’anamnesi dell’io, di ogni io?

alberto_burri_vert_5-4aeed504b6Avviene ora ciò che aveva richiesto così lunga desiderante preparazione, cioè il riemergere, il porsi di qualcosa che è originario di ogni vita. Il recupero di una materia arcaica significa la memoria di un atto primario, l’eccitamento che dà la madre al bambino?

Se sì, avremmo una Bisanzio del principio del piacere, quotidiana e gloriosa, altrimenti un nuovo capitolo del tiro al bersaglio sulla “sagoma dell’arte”.

Note:

2) F. Caroli, Burri: la forma e l’informe, Mazzotta, 1979

 

Burri: The Trauma of Painting
09/10/2015 – 06/01/2016
Solomon R. Guggenheim Museum di New York
www.guggenheim.org

 

(Mario Cancelli - 2. fine)

 


The trauma of painting. Sulla mostra di Burri al Guggenheim di New York

o-ALBERTO-BURRI-facebookIl centenario di Alberto Burri (1915-1995) offre la possibilità di nuove riflessioni sulla sua opera: una “via”, quella percorsa dall’artista di Città di Castello, individuata nei suoi momenti salienti ma ancora da definire nel suo procedere e soprattutto nella sua conclusione.

1021_FL-alberto-burri-the-trauma-of-painting_2000x1125-1940x1091La retrospettiva (la prima in trentacinque anni) che il Guggenheim di New York gli ha dedicato (si chiude il 6 gennaio) è un invito proprio in questo senso: dai “Catrami” alle “Muffe”, ai “Gobbi”, ai “Legni”, ai “Ferri”, alle “Combustioni plastiche”, agli ultimi lavori - i grandi cicli dei “Cellotex works” - l’opera di Burri è raccolta e ordinata non solo nelle fasi, vero teatro della materia, ma anche nei rapporti che essa intrattiene con le esperienze americane, analoghe quanto a elementi e soprattutto, a istanze comuni e forse da Burri portate a ulteriore chiarezza circa le soluzioni perseguibili e perseguite.

legno“The trauma of painting”, il catalogo dell’evento curato da Emily Brown, orienta ad un concetto di “azione pittorica” comune ad americani ed europei, quel “gesto” che sarebbe divenuto sì possibilità espressiva di straordinaria libertà ma anche, non in ugual misura, tramite del recupero della storia del soggetto. Dell’arte americana, Burri conferma quindi l’inevitabilità delle opzioni tentate: conseguendo un ulteriore passo nel medesimo territorio. Se già con Jackson Pollock l’”automatismo surrealista” veniva interpretato in modo da liberare l’atto da istanze sentite tra loro oppositive, con Burri l’idea di forma poteva essere portata a una nuova integrazione proprio con esse. Fin dalle “Muffe” - opere che più si ricollegano all’esperienza dell’espressionismo astratto - ai “Sacchi” (con i quali inizia il Burri che tutti conoscono), a quegli esiti nei quali alla materia è data maggior autonomia, i “Ferri”, l’idea di forma, riconosciuta da Burri intrinseca alla possibilità della materia, si lega a un riconoscibile principio di “rappresentanza” psichica, che nelle ultime opere sarà la vera partita in gioco.

Due istanze

IMG_3628Quando Robert Rauschenberg visitò lo studio di Burri - mostrando al maestro una scatoletta con dentro una mosca - fu subito chiaro che la strada di colui che avrebbe segnato l’arte americana successiva, sarebbe stata altra da quella di Burri. Il versare il colore su tronchi e assi, la reificazione dell’oggetto fuori dal quadro, fino alla sua metamorfosi in trofeo da esibire (come per gli uccelli impagliati), sembrano tante prove di un parricidio, compiuto da altri, assimilato, dal quale separasi partecipando a un qualche master, per impaginare poi, come in un notiziario, i fotogrammi della memoria individuale e collettiva.

In Burri non scorgiamo mai disprezzo, spregio, affronto o reattivo recupero di quanto negato, semmai, all’opposto, un esibito, orgoglioso, bisogno di dimostrare.

IMG_3642Con la stessa abilità con la quale Burri colpiva un piattello, così sapeva far centro con materiali che son fuori del quadro restando nel quadro, legando tra loro frammenti eterogenei in una forma che aspira a volte addirittura al sublime. Anche quando fu totalmente “materia”, l’atto creativo s’interrompe sull’orlo di una strozzata metafora, ma più convincente di una metafora compiuta. Il segreto di Burri sarà sempre quello di fermarsi un attimo prima della conclusione (ma non contro la conclusione). Nei “Cretti” tutto ciò è quasi lapidario: la materia, lasciata alle sue leggi, è bloccata prima di trascendersi in una crepa assoluta.

Materia amata, alla quale Burri si lega è da cui è detto.

Guggenheim-Burri-grande-ferroL’imprescindibile biografia intervista di Stefano Zorzi (1) ci racconta e delle fughe da scuola per dare sfogo alla passione per il gioco del calcio e dell’amore per il greco. Un livello basso e un livello alto, mai veramente in opposizione tra loro. A questi dobbiamo l’interminato epos di materia e forma? Saranno gli esiti ultimi, le oniriche condensazioni dei “Cicli”, la reiterata e semplice libertà di aggredire la materia, di trattarla, a spingerci oltre, quasi che grazie ad essi Burri fosse pervenuto alle ragioni o ai principi primi del suo stesso epos.

(1) Stefano Zorzi, Parola di Burri, Allemandi, 1995.

 

Burri: The Trauma of Painting
09/10/2015 – 06/01/2016
Solomon R. Guggenhein museum di New York
www.guggenheim.org

 

(Mario Cancelli - 1. continua)

 


Anna Zanoli e l’arte in TV raccontata da Federico Zeri

premio_malatesta_novello_cesena_foto_05L’arte e Anna Zanoli: una vocazione e un’impresa, nel senso anche economico del termine. Laureatasi in storia dell’arte con Roberto Longhi, ha potuto ampliare il suo campo d’interessi grazie a un concorso alla Rai, vinto appena terminata l’università. Un impegno su più fronti, che le ha permesso di utilizzare le proprie competenze specifiche per avvicinarsi a linguaggi fino ad allora poco sviluppati. Per cui al suo lavoro, che ha conosciuto ben poche interruzioni, a questo personaggio un po’ sbarazzino e coraggioso, la cultura italiana deve moltissimo. Non solo per quel che riguarda l’attività specifica di critica - vedi suoi studi su artisti del Rinascimento italiano, come tra i quali quello sul Pisanello, la partecipazione alla collana I maestri del colore, gli interventi sulla rivista Paragone arte e Paragone letteratura - ma per la sua capacità di trovare, lì dove tutto doveva essere intrattenimento, fessure, occasioni per avvicinare l’arte al pubblico.

Fondazione Zeri, 12 novembre 2015
Fondazione Zeri, Bologna 12 novembre 2015

Un risultato forse unico, visto che proprio la critica d’arte più qualificata, in questi inverni più o meno rigidi della cultura, proclama la dissociazione tra arte e intrattenimento. Il programma affidatole dalla Rai “Io e...” (pensato come intervento su di una singola opera) ha consentito ad Anna di offrire agli interpreti più validi della cultura italiana la possibilità di brevi ma sentiti interventi. Nella sua rete non manca nessuno, da Bassani a Fellini, da Pasolini a Luzi, dalla Banti alla Bellonci, da Guttuso a Zeri. E proprio di Zeri, dei suoi interventi, grazie alla collaborazione con La Cineteca di Bologna, la Fondazione Zeri giovedì 12 novembre ha riproposto materiali quasi introvabili oramai.

zeriMa il merito di Anna Zanoli, oltre alla fattura dei documentari, è soprattutto aver incuriosito i supremi Atteoni e campioni del nostro variopinto Areopago, in genere distaccati, e aver permesso performance di cui le siamo appunto debitori. Mai, senza Anna, avremmo uno Zeri come quello che si scopre nel documentario sulla via Appia, mai avremmo una confessione tutta laica ma passionale come quella cui Pasolini, fuor di ogni auto censura, diede.

la proiezione alla Fondazione Zeri del documentario su Zeri e i dipinti su pietra, (Anna Zanoli, 1997)
La proiezione alla Fondazione Zeri del documentario su Zeri e i dipinti su pietra (Anna Zanoli, 1997)

Il primo filmato, introdotto da Andrea Bacchi nella Biblioteca della Fondazione Zeri, è dedicato alla pittura su pietre dure. Un tecnica conosciuta già dal mondo romano, tornata in auge con il Rinascimento italiano, grazie a Sebastiano dal Piombo, di cui Zeri ricorda lo splendido esempio della Natività della Madonna in Santa Maria del Popolo (1530); un gusto diffusosi rapidamente in Italia e in Europa. Ai nostri occhi, oggi, apparentemente nulla di straordinario nell’intervista televisiva: Zeri, in elegante giacca rossa, ci accoglie in uno studio arredato e ci educe con dire pacato, preciso e sintetico. Un principe, non solo un maestro, del gusto rinascimentale, simile a quei ritratti che egli stesso commentò, e che intrattiene i nipotini spettatori sulle patrie istorie. E anche un principe del linguaggio televisivo, per la sua capacità di modellare il linguaggio sui ritmi del nuovo mezzo.

Siamo così nella favola delle pietre, più o meno dure, più o meno rare. Resistenti eppur fragili. Capaci però di assicurare al colore una durata che gli altri supporti non consentono. Materiali ricercati, come l’ardesia o soprattutto pietra di Volterra, dalle pregiate striature informali, che ispiravano al pittore movimenti e occasioni figurative; e poi i lapislazzuli, oggetto del virtuosismo dei pittori francesi o fiamminghi; i vetri napoletani, dai connotati apotropaici o perfino magici; e infine la lavagna, che sfida i secoli, tanto che Sebastiano ne consigliò l’utilizzo a Michelangelo per tutta la Cappella. Il che non poteva non irritare, ci chiarisce Zeri, il nostro: di suo un “frescante” e in fondo già consegnatosi agli inalterabili cieli platonici, cornici di un dramma più che epocale. E dire che le pietre dure, cupe od oscure, come pochi altri medium, inclinano al mistero. Un linguaggio, quello di Zeri, bonario, attento al ricevente, completo: mancano solo le quotazioni di Christie’s.

Federico Zeri e la via Appia, di Anna Zanoli, 1974
Federico Zeri e la via Appia, di Anna Zanoli, 1974

Fin qui siamo nelle Vite del Vasari. Anna Zanoli ottiene però un risultato supremo, con il secondo filmato di questo dittico: quello sulla via Appia, nel quale l’antichista compie incredibile metamorfosi. Nel seducente bianco e nero di Maurizio Cascavilla, forse guidato a sua volta dal fascino delle stampe private e pubbliche antiche, l’irrequieto Cicerone alza il proprio sdegno, crucciato per il degrado ambientale cui le onorate e disonorate rovine sono lasciate. Da Vasari a Pirandello, potremmo dire. Un capolavoro.

Solo, senza interlocutori, fra copertoni, cartacce, rifiuti vari, Zeri proclama il lutto per la civiltà presente che permette saccheggi dei beni archeologici, acquisiti da musei privati e pubblici, in questi ultimi invisibili per l’inagibilità degli stessi. Bassorilievi o frontoni di cui rimane, quando rimane, solo la targhetta. Massicci pietroni da cui spunta miseranda vegetazione, resti di abitazioni, lapidi e iscrizioni che consegnarono al cielo di Roma la propria cifrata e onorata storia; un mausoleo più cupo che mai nel bianco e nero della pellicola fotografica, di per sé ancora intatto ma non fa primavera, specie se ad esso si oppone il disastro ambientale dell’abusivo palazzone a quattro piani. La via Appia, la via che raggiungeva Brindisi e metteva in rapporto Roma con il mondo: uno squarcio di Paradiso trasformato nell’infernale “Passeggiata archeologica” . Situazione mutata oggi grazie anche a Zeri.

La locandina dell'incontro del 12 novembre
La locandina dell'incontro del 12 novembre

Nella sua Roma, conosciuta fin nelle pietre, Federico Zeri appare quasi come uno straniero, reiterando con cupo cipiglio il proprio scandalo. Un invariabile lamento, sullo sfondo del paesaggio che “sfuma nell’azzurro dei monti laziali”: un’“unità ideale” che orride siepi lacerano impedendo la visione di tale teatro che lo stesso Goethe scelse come luogo del proprio autoritratto altrettanto ideale.

È sempre Anna Zanoli a informarci dell’apprezzamento ottenuto da questa chili aria: Zeri per dieci anni fu letteralmente bandito. Solo un tardivo recupero con Minoli.

Federico Zeri e la via Appia, di Anna Zanoli, 1974
Federico Zeri e la via Appia, di Anna Zanoli, 1974

L’età migliora, come avviene per il vino, anche i capolavori. È questo lo è. Perché Zeri, più che denunciare, svela qualcosa di sé, di un deluso sentimento che travalica l’occasione.

Se poi a questo dittico aggiungiamo il ben più noto documentario sulla città di Orte, girato da Anna con la collaborazione di Pier Paolo Pasolini, possiamo aggiungere a Vasari e Pirandello, Plutarco e le sue Vite parallele. Alessandro e Cesare; Zeri e Pasolini. Un dittico, anzi un trittico che permette al poeta-regista e all’antichista, di raggiungere i toni di un’angosciosa confessione. Sempre un palazzone che oltraggia l’ambiente, ma più che l’ambiente, la storia, l’antropologia. Andrebbero visti insieme, come i dittici di Piero della Francesca sui principi d’Urbino. In entrambi gli episodi filmici, un flusso di coscienza incontenibile realizza e tradisce sì disagio per la civiltà, ma assieme a questo un disagio privatissimo, che nessun testo di letteratura o d’arte può comunicare. Lo sguardo di Zeri, lo sguardo sia dell’occhio sia della mente, non incontrano un oggetto, una rovina, storica o moderna che sia, ma l’universo.

Fondazione Federico Zeri, Piazzetta Giorgio Morandi 2. Bologna.

giovedì 12 novembre ore 17.30

L’arte in TV raccontata da Federico Zeri 

con Andrea Bacchi e Anna Zanoli
proiezione di

Federico Zeri e la via Appia, di Anna Zanoli, 1974, 23'

Federico Zeri presenta una collezione di dipinti su pietra, di Anna Zanoli, 1997, 62' (estratto)

 

La biografia e la filmografia di Anna Zanoli sono su http://www.mymovies.it/biografia/?r=22602.

(Mario Cancelli)


A day in the jungle. Baruffi e l’impossibile surrealismo

baruffi (5)Si parlerà mai di un terzo surrealismo, dopo quello di Breton e poi di Bataille? Pensiamo proprio di no, anche se speriamo solo di sbagliarci.

Per varie ragioni, non ultimo il fatto che, contrariamente a quello che si predicava sulle barricate del Sessantotto, il potere non ha nessuna intenzione di concedersi all’immaginazione. Tutto lo spazio possibile invece all’imitazione di essa (è il kitsch). Per questo un terzo surrealismo è per lo meno arduo da immaginare, quasi come la terza età di Gioachino da Fiore. Dipende soprattutto da come verrà trattato quel che si chiama il “sintomo”, un tempo il forziere del nevrotico, che artisti e scrittori saccheggiavano con passione.

La Sainte vierge di Picabia è sintomo. L’Elephant fording a river di Bacon è sintomo. La fattoria degli animali di Orwell è sintomo, anche se un po’ compromesso con l’allegoria.

baruffi (4)Gli animali di Baruffi non conoscono possibili alterità, tanto sembrano preannunciare e testimoniare l’avvento di questa inimmaginabile terza età di cui si parlava.

Terza età come ultima metamorfosi (animalesca) dell’honnête homme?

Baruffi in verità si fa da parte, sceglie il ruolo di Cicerone del dramma in cui guida. Nella sua straniata città le mucche ruminano assimilatissime all’ambiente, i pavoni si offrono come dive cinematografiche, cavalli sui tetti-giardini dei grattacieli assaggiano erbe come fossero drink.

L’operazione allora è quella di farci accettare con assoluta normalità tale incubo, che nulla ha da spartire con le associazioni dell’inconscio e sembra invece propagandare un che di avvenuto: l’identità di uomo e animale.

baruffi (2)Dal suo osservatorio newyorkese Baruffi ci offre le istantanee di una poetica che, senza azzardare alcun ribellismo o demistificazione, è de facto e de jure, tutta politica. Non fosse per il fatto che l’artista si concede il lusso di osservare - come il tirocinante fa nelle sale dove si amministra la giustizia - quel che la polis delle polis offre all’immaginario. Immagini oniriche o prese casualmente da un cellulare?

baruffi (3)Le tartarughe, meglio delle oche celebrate da favole e fumetti, attraversano i passaggi pedonali con quacquera e orgogliosa compunzione: e non uno strombettio osa far loro fretta. Insomma: l’ideale di cui si è detto si è fatto storia.

Una società serena, senza conflitti è davanti a noi e noi la osserviamo senza scandalo, quasi ogni ribellione fosse impossibile. Questa è l’angoscia che tale pittura trasmette. L’animale come derridiano ideale, l’istinto (!) di sottomissione reso virtù civica.

baruffi (1)Baruffi ce lo dice come meglio non si può, con questi teleri che usano lo straniamento come variazione di un’assurda posa fotografica. Un mondo che pochi decenni fa sarebbe stato solo fumetto, ora è realtà. Lo cogliamo senza sforzo, si diceva: non ci resta che aggiungere a tale lettura il pensiero che un piccolo resto psichico questo zoo poco fantastico ancora riesca a proporre. Un resto di totemismo, che induce alla speranza per un dramma individuale e collettivo che osi nominarsi. Quel dramma che Bacon si era concesso di sorprendere nelle metamorfosi dei suoi personaggi, chiusi come cavie in un calvario di deformazione.

Francis Bacon - Elephant Fording a River (1952)
Francis Bacon - Elephant Fording a River (1952)

Già: una vicenda ancora simbolica, quella di Bacon. Il suo celebre Elefante, come si è detto, è figura sovradeterminata quanto al significato: Bacon lo scopre, senza pregiudizi scientifici, in quelle stesse pianure che furono percorse da antropologi senza troppa inventiva. Bacon onorava poeticamente qualcosa in cui è possibile riconoscere il simbolismo paterno.

In tanta serenità, come quella generata di Baruffi, è ancora possibile il Parricidio? O tutto si è consumato senza resto? È questa l'alba di un nuovo surrealismo, la pacificatapaix[1] favola di un fissato inconscio, come Picasso nella Paix aveva colto?

 

 

 

Andrea Baruffi, A day in the jungle.
Galleria Forni, Bologna
24 ottobre-1 dicembre 2015

(Mario Cancelli)


Dino Quartana, la vicenda moderna chiede e pretende dell’“io”

Quartana1Non conosciamo personalmente Dino Quartana, altrimenti ci piacerebbe parlare con lui. Della scultura, della sua identità e della sua attualità. Un’arte da sempre in grado di sedurre, di liberare energie nel momento in cui le richiede, di offrire il dono di un contatto reale, tanto è in lei il coinvolgimento richiesto con e alla materia. E la materia, soprattutto nel Novecento, è il centro d’ogni croce e d’ogni diletto. Per artisti e critici e non solo. Sulla materia e con la materia si gioca tutto. Si è pensato un quadro senza colore, non si avrà una scultura reale senza materia.

Quartana3Quartana è da molti anni frate domenicano, scelta compiuta dopo aver conosciuto e frequentato il movimento fondato da don Luigi Giussani: il pensiero dell’ente e il pensiero del soggetto trovano quindi quasi un obbligo di dialogo.

E Quartana sulla materia ha certamente molto da dire. Non sappiamo se in forma polemica o in elaborata mediazione teorica con la modernità.

La materia è per lui appoggio, fondamento e testimonianza d’individuata personalità: con linguaggio moderno, potremmo dire, rappresentanza dell’io. Vorremmo osare un’equazione più radicale: materia, in arte, uguale “io”? San Tommaso e Burri sarebbero concordi.

Quartana4Da queste premesse giungiamo alle recenti sculture che Dino ci offre allo Spazio Lumera. Non sorgono da un gesto unico, alla Bernini per intenderci, non eleggono una soda roccia o tranche del mondo e del corpo. Sono il frutto semmai di un organizzarsi intrinseco di strutture, ora ben solide e ben puntellate nello spazio, ora disinvolte e in atto di aprirsi. Materiali che si legano e si avvitano quali poetici scheletri e testimonial di corporee memorie; amabili vicende di arti in congiunzione o disgiunzione. È l’aspetto che ci attira di più: vi leggiamo una non sforzata capacità di confessione.

Grazie a un lavoro, a un intarsio dei pieni e dei vuoti, Quartana addiviene a uno slancio di membra, a volte troncate a volte ricondotte ad ulteriori costruzioni aeree: come se un secondo piano, una ritornante necessità s’instaurasse, quale ideale obbligato di tale spirituale “machine”.

Quartana5Per quanto il lavoro di Quartana s’orienti a contenuti religiosi, a emblemi dell’invocazione e della grazia, è come se il moto di due correnti marine infranga una addosso all’altra. Nell’esito finale delle sue sculture - accompagnate in mostra da pregevoli opere su carta - Quartana è unitario e concluso. Mai però vien meno la percezione dei due pensieri tra loro in gara per il predominio.

È questo dualismo tra pulsione e ideale la vera scommessa dell’arte contemporanea e in particolare di quella religiosa. La vicenda moderna chiede e pretende dell’io. E Quartana, che nei suoi corpi scultorei vive la sua stessa libertà e un prezzo ancora inevaso per essi, è dentro alla questione.

Histoires saintes, titola Quartana la sua recente produzione. Rendiamo onore a Quartana per aver proposto con chiarezza questo ganglio irrisolto dell’estetica non solo cattolica: o appoggiare Moore a Chartres - e su Chartres impernia la propria opera anche Huysmans che di tale nodo è il termine insuperato - o schiacciare Moore su Chartres. Restando in questo caso Chartres un puro significante.

 

HISTOIRES SAINTES
Sculture e disegni di Dino Quartana
dal 10 ottobre all’1 novembre
Spazio Lumera, via Abbondio Sangiorgio, 6 Milano

Orari apertura
ma me gio ve 16-19
sabato 10.30-12.30 16-19

tel. 02 87280593 info@lumera.it www.lumera.it

 


Atto di visione, atto di nominazione. Congdon e Testori

bill1Il primo, bellissimo e forse insuperato testo che Giovanni Testori dedicò a William Congdon, scritto in occasione della vasta mostra del 1981 al Palazzo dei Diamanti di Ferrara, dimostra una comprensione già piena dell’opera del nostro, a un punto tale che gli scritti che seguirono (sull’antologica di Como del 1983 e poi sulla mostra milanese di Palazzo Reale del 1992) raffinano quell’atto critico completo e fondativo, senza autorizzare o autorizzarsi a una discesa in campo più generale.

corriere“Lei ha visto”, scrisse William Congdon. A Testori, a nostro avviso, non sfuggì nulla: i passi successivi si dimostrano però più prudenti, colmi di ammirazione, di affetto, di desiderio di approfondire il rapporto iniziato, giudicato terminus post quem di un nuovo inizio critico. Del “bandolo oggettivo” della vicenda pittorica dell’artista americano, italiano, lombardo, viene addirittura riconosciuta la legiferante e drammatica logica: si tratta di un bandolo o di un nodo per nulla gordiano, nel senso che si possa sciogliere una volta per tutte, ma di verità persa e ritrovata e da ritrovarsi. Nessuna sintesi può sostituire questo gioiello di scopia estetica sigillata in metafore bill e giocritiche definitive: “muri” interiori che vengono finalmente aggrediti, traiettorie e scintille di luce nel baratro, petali serafici nella superficie del cratere. E, infine, le incisioni, la personalissima grafia di Congdon, che la materia incideva e s’incideva, grumo solenne e quotidiano, carico di dolore e speranza.

È evidente che tutto lo scritto ruoti attorno a un nome non pronunciato ma riconoscibilissimo, quello di Jackson Pollock. Su questo punto mancò quell’atto di imperium critico di cui Testori, in circostanze ben più gravide di contrasti, come si dice, senza peli sulla lingua, fu capace. Se non fu nominato il padre dell’Action painting, forse è perché né Testori né Congdon erano in grado di un vero, liberatorio, parricidio.

197501-risurrezione-2
Resurrezione (1975)

La prudenza e la saggezza impedirono a Testori di trasformare Congdon in chi ridava dinamica a una vicenda apparentemente chiusa in sé. E infatti egli si limita a rilevare e a consegnarci quella verità globale “che fa come da basso continuo, da ron ron continuo, a tutta la grande carriera”; per addivenire alla scoperta che la materia di Congdon, e per Testori (come un po’ per ognuno in quegli anni, tutto si giocava nella e solo nella materia), non era più quella di Pollock. Da qui l’orafo, il cesellatore, il Congdon un tempo rapinoso di luoghi e templi: e ora trionfante in un fazzoletto di terra, il Congdon “longobardico”: confine estremo su cui assestarsi e assestare una ricerca che era oramai prossima ad abbandonare quel simbolismo che, diciamolo, del muro di cui si è detto all’inizio, era oramai il più potente supporto. Materia, cioè canto.

***

Forse fu questo atto mancato di nominazione - osiamo supporre - a produrre inconsce resistenze, irritazioni. La scintilla fu non a caso l’articolo di Testori sulla grande antologica di Pollock al Centre Pompidou. Un’iniziale compiacenza di Congdon, poi la presa di distanze. Lo sconcerto alla Fondazione Congdon. Gli esiti di Pollock non erano all’altezza delle nuove regioni promesse e guadagnate all’arte? Ma erano proprio queste “nuove regioni” (riconosciute da Harold Rosenberg in l’“oggetto ansioso”) a legare ancora Congdon all’Action painting e,vorremmo aggiungere, l’Action painting a lui.

774-image-1600-1600-fitNegli anni universitari Pollock fu per noi un solo testo, la monografia a lui dedicata dal Robertson: un libro quasi scostante tanto si estende come formato, come uno di quei Numbers di cui fa la storia, dalla copertina bruno marron, ben poco seducente, con le immagini ancor ritagliate e incollate sulle pagine. Pollock per noi sarà sempre il Robertson (con il placet di Rosenberg). Esso inizia con una delle ultimissime opere di Pollock: “Blue Poles” e termina con “Blue Poles”. In mezzo tutta la produzione di Pollock e tutta la storia dell’arte, dal medioevo ai giorni nostri, comprese filosofia e sociologia. La tesi era che Pollock per primo aveva riunificato la superficie dopo l’era dell’oro bizantino.

Quando citai “Blue Poles” a Testori, egli ebbe - mi ricordo - come un trasalimento. Ma chi era in grado di dire di più? Oggi possiamo dire che quell’unificazione spaziale era il frutto di un’unificazione delle energie psichiche, di un lavoro di pensiero. Puntando sull’inconscio, Pollock lavorava per il recupero del proprio romanzo (familiare). Un lavoro di civiltà. Come intuì Rosenberg, l’astratto di Pollock era oramai grafia; così come grafia sono le incisioni di Congdon: rappresentanze dell’io. Il ron ron di cui si è detto è il ronzio del’io, come se una pulce nell’orecchio non permettesse vera pace, senza soddisfazione.

giallo con sole“Giallo con sole”, del 1989, è giallo su giallo, un monocromo spezzato solo da una tonalità più calda: la luce così gialla, quando il cielo di Buccinasco è così giallo oro, trasformata in un ronzio, implicato e implacabile. Non è il caso di ulteriori analisi. Però paradossalmente proprio l’ultimo Congdon denuncia quella caduta del paradigma mistico che Testori aveva percepito, senza poterla ultimamente nominare. Sarebbe stato necessario sottrarre la materia al concetto di natura.

Ritroviamo nelle opere di questi anni una libertà nuova anche dei grafismi (temuti da Congdon come forme del proprio narcisismo), se vogliamo, utilizzati con ben altro spessore. Comunque, non più un io negato nelle sue leggi o rimosso nei suoi atti, in nome di una totalità superiore.

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Le 3 ali della nebbia (post 1988)
È questa la strada che separa, prima Pollock, poi Congdon dalla soluzione spiritualista, quella di Rothko e di Barnett Newmann, che ambivano al recupero del mito come superamento dell’io. Dell’arte può dirsi quel che Flaubert afferma di Dio. Egli c’è, ma non si vede. Se nell’arte si vede troppo l’io, forse ciò avviene a causa di vizio formale; se prima o poi non dà segnali, allora la forma è divenuta quel che Testori chiamava “grande astrazione”. Il non rimuovere le istanze di cui si diceva fa di Congdon un pittore testoriano: e se tali istanze si trovano rappresentate in arcaici ma domestici mostri tellurici che emergono dal mare greco, in soli aranci sovrastanti fossi divenuti verticali, serotine, tenere eruzioni, di certo essi non gridano contro le ultime bellissime “Ali”, nelle quali il cielo si fa marcita potente, solco reiterato, e ritmato, verde di primavera. Congdon distrusse uno di questi “paesaggi pulsionali”, opera lodata da Testori durante la sua ultima visita alla Cascinazza: questo non contraddice quanto detto, che solo la liberazione dal rimosso significa la riconquista del gesto. È questo crediamo il modo nuovo di rinominare quel che si è detto “il bandolo”.

Parafrasando Eliot, se la critica muore con un lamento, rinasce grazie a un dispetto.

 

Mario Cancelli (3. fine)

William Congdon, Pianura
Casa Testori – L.go Angelo Testori 13, Novate Milanese
Fino al 14 febbraio 2016
Dal martedì al venerdì 10-18, il sabato e la domenica 14-20. Chiuso il lunedì
Biglietto d’ingresso: € 5

Informazioni: info@casatestori.it | www.casatestori.it
tel. + 39 02.36589697

 


Natura verticale. Congdon a Casa Testori

317_643.00[1]La mostra “Pianura” di Casa Testori accompagna gli anni seguenti di Congdon attraverso una innegabile lettura e scansione formale. In questo iter, che vide momenti eccelsi, quel che conta, a nostro avviso, è però la fedeltà di cui parlavamo all’inizio; l’appoggiarsi a fonti conosciute o ritrovate, senza abdicare mai alla verità del gesto. Anche se si moltiplicano le citazioni, De Stael, Braque, Rothko, Barnett Newman (che splendore le sfrangiate barre verticali da lui mutuate e vive nei campi) e perché no anche Malevitch, un quadrato in Congdon non è mai un quadrato e basta. Si veda “Janua coeli-verso primavera” (1983), roseo e grigio e verde canto liturgico, spaziale impronta della realtà esperita.

286_589.00[1]La sala dei glicini, alcuni di loro inediti, tripudia di delicatezze, di accordi misurati e innervazioni che irrompono indocili, la superficie torna ad essere vera e pulsante mappa pollockiana. Glicini: sulla porta del monastero, dove Congdon accoglieva i visitatori. Ma il tutto non procederà nella vicenda di Congdon in modo così intimo o intimista.

Un testo famoso ci introduce emblematicamente a quella che a noi sembra essere la vera partita in gioco: “Neve 10” (1985). Consueti campi e spazi, riassunti in spoglia geometria. Un cielo sul bruno, la terra sul bianco luminoso. Un’idea di pace sembra gravare e al contempo minacciare il tutto. Un fosso nero-blu, geometrico e ribelle, s’incurva e s’insinua come spina nella carne. Siamo davanti a una confessione? Alla testimonianza di una resistenza, in questo ruvido ingresso, o di un 314_640.00[1]principio irrinunciabile? Un vero e impoverito svuotamento sarebbe intervenuto se Congdon avesse rinunciato alla sua lotta con l’angelo, a quanto di sé diceva, pur tra i salmi, della propria legge pulsionale. In questo senso è la sua lotta modernissima e la sua eredità. Nessuna misericordia nel suo concludere, misericordia fu elaborare il conflitto, non rimuoverlo. Questo fa della pittura di Congdon, fiorita nell’hortus conclusus presso Buccinasco, una pittura laica.

392_816_75[1]E infine mediazione tra cielo e terra, se così si può dire, furono proprio quei straordinari e stilisticamente compendiari monasteri, che Congdon dipinse con francescana semplicità e acutissimo e filiale trasporto e che avremmo desiderato più rappresentati in mostra. Le finestre di Congdon non si aprono sull’azzurro ma sulla terra. E da esse irrompe, come scrisse Testori, luce di Paradiso, non uno stile di vita, uggioso come tutti gli stili di vita (perché privi di atti), anche se a contatto con la Luce. Natura verticale.

 

Mario Cancelli (2. continua)

 

cascinazza luna 1992William Congdon, Pianura
Casa Testori – L.go Angelo Testori 13, Novate Milanese
Fino al 14 febbraio 2016
Dal martedì al venerdì 10-18, il sabato e la domenica 14-20. Chiuso il lunedì
Biglietto d’ingresso: € 5

Informazioni: info@casatestori.it | www.casatestori.it
tel. + 39 02.36589697


Congdon, la realtà si fa prossima

William-Congdon1[1]Il termine “Pianura” comporta molteplici significati. A sentire le celebri voci che narrarono di Lombardia, sembrerebbe che in terre ricche come queste, per il possesso delle quali si combatterono guerre di trenta, quaranta, cento anni, la monotonia come al suo opposto l’idealizzazione non siano molto apprezzate. Terre nelle quali ci si ritrova e ci si perde; attraversate da fiumi nei quali le fronde si specchiano confondendo gli abituali riferimenti di alto e basso, ben prima che a tali effetti provvedesse Cezanne; dimensione longitudinale e verticale in mutuo scambio; luoghi autosufficienti e mai autoreferenziali, mai carezzevoli un seducente e ingannevole sublime, con il cielo che si fa azzurro a tratti, come una grazia, nuovo e non immutato e statico attributo dell’universo. Queste costituirono l’approdo ultimo di Congdon, che di terre ne aveva già saggiate parecchie, e che di suo non avrebbe certo ceduto a seduzioni di lecci e marcite fangose, per lunghi mesi prima di premiarle con sodi verdi e gialli oro incastonati nel grigio di stagioni operose.

Fu quello di Congdon un atto di obbedienza: prima presso una casa di persone consacrate, poi nelle adiacenze di un monastero benedettino detto la “Cascinazza”. Ci volle tempo - testimoniato da una lunga serie di Crocefissi - per accorgersi che la “pianura” tornava a donargli quelle onde che solo il mare gli aveva offerto gratuitamente.

Se la rinascita alla pittura era avvenuta ad Assisi, ora, in Lombardia, si trattava di verificare una stabilità, favorita più da rapporti che da quelle emozioni, che fino ad allora, avevano sostanziato i resoconti del suo inquieto viaggiare, capace di estrarre dai “luoghi” occasioni d’intenso piacere pittorico, non disgiunto da eventi sentiti gravidi di futuro. Cos’era rimasto, nel “non luogo” cui si era consegnato, di quel dono che aveva passato al suo attento se non implacabile filtro mezzo mondo?

29_078.00[2]D’altronde Bill Congdon, il quale cercava nella creazione artistica quella libertà che i severi principi morali non gli consentivano, mai mentì a se stesso, assestandosi su una produzione di maniera, spiritualmente atteggiata. Non ne era capace; i quadri o “nascevano” o morivano. Di lui può dirsi veramente quel che si sostiene di quasi tutti i protagonisti dell’Action painting, che la pittura fosse il vero test del suo pensiero.

Con il titolo “Pianura”, Casa Testori - partendo dal rapporto che legò per un certo periodo l’artista al critico Giovanni Testori - offre il resoconto di quest’ultima fase della produzione di Congdon. Sul complesso dialogo insorto tra queste due personalità, promettiamo d’intervenire in un’ulteriore occasione, così da non perdere la copiosa possibilità di conseguenze che se ne possono ricavare. Qui cerchiamo di cogliere la logica di questa ricca selezione di opere che Davide Dall’Ombra e Francesco Gesti, hanno selezionato. Un taglio netto, il loro, il cui preludio è il bellissimo Colosseo (Rome - Colosseum 2, post 1951), con i suoi petali di case dorate sospese sugli archi dell’abisso.

235_501.00[1]Proprio nelle prime sale, si rimane colpiti dal vigore con il quale William Congdon ha onorato e celebrato tali pianure. Si è quasi invasi da un vento di materia e di colore, ben allogati e solidi negli spazi, una “longobardica” irruenza e libertà che il gesto ritrova dopo anni, e in maniera quasi ineguagliata, anche al confronto di celebri cantori di queste terre. Quasi un immenso polmone a pieno regime riabilitasse l’ossigeno di terreni coltivati, fossi, cieli, albe, lune. Ed assieme a loro le memorie delle città del passato, un tempo colate di neri tralicci ora terra rossa lavorata, trame di vita che si compie. Materia è memoria, direbbe Bergson, ma stiamo attenti a queste analogie: perché qualcosa di nuovo e di decisivo sembra compiersi. In questi episodi, che è inutile descrivere, sembra venire meno la storica “distanza” cui la pittura, di tradizione contemplativa, ha confinato il paesaggio.

Nel ritmo di queste lunghe giornate - Congdon si alzava prestissimo - sembra consumarsi il Romanticismo. Congdon non ci convoca ad immersioni annichilenti nella natura, né erige siepi a fare ostacolo a vaghi spazi infiniti o meglio “indefiniti”, consolatori e sempre sostitutivi di occultate istanze.

78867[1]La natura o meglio la realtà è in queste tele a noi prossima. L’io è tornato in grado di riceverla e di restituirla. Un rapporto, quello che Congdon istituisce per lunghi anni con le cose, che vorremmo chiamare “giuridico” e non causato, il cui modello è proprio il bambino, capace di lasciarsi soll-eccitare da ciò da cui riceve beneficio, e cui risponde.

Questo differenzia la pittura di Congdon da quella di Morlotti, forse anche più attento nell’esaltare le possibilità offerte dalla natura, ri-costituita nel suo inesauribile patrimonio di sostanza e di colore. In Congdon non agisce l’identificazione o annullamento estatico con le cose. Non Spinoza: l’“io parla”, perché in rapporto o perché di questo sente l’urgenza. Nessun pascolismo, per quanto alcune sue lune sembrino evocarlo.

 

Mario Cancelli (1. continua)

 

William Congdon, Pianura
Casa Testori - L.go Angelo Testori 13, Novate Milanese
Fino al 14 febbraio 2016
Dal martedì al venerdì 10-18, il sabato e la domenica 14-20. Chiuso il lunedì
Biglietto d'ingresso: € 5

Informazioni: info@casatestori.it | www.casatestori.it
tel. + 39 02.36589697