“Milano 0” di William Congdon. Gesto, non anima effusa misticamente

di Mario Cancelli. “Milano 0” (1968) di William Congdon, grazie a un atto donativo della William Congdon Foundational al Museo del Novecento, è tornato là da dove idealmente era venuto, quella piazza Duomo sulla quale il museo affaccia le sue vetrate. Proprio il giudizio della commissione che ha accolto la donazione invita a un approccio critico che riconduca l’opera di Congdon alla storia milanese e italiana.

Il quadro potrebbe essere inteso come sfogo o testo apologetico di un personale “disagio della civiltà”, un saluto spiritoso ma imputante rivolto a chi viveva il vortice di quell’anno post boom. Di invettive, peraltro, non si trova nemmeno l’ombra, piuttosto si coglie un che di confidenziale nel convocare, su una scena che si è portati a identificare in piazza Duomo, i riconoscibili archetipi e miti di quegli anni. Un’onirica, partecipata condensazione trasforma in salotto una piazza colma di voci e di presenze: grattacieli come il Pirellone e la Torre Velasca, figure e corpi in abbandono di carni e pensieri, graffiti ante litteram, compongono un tenero e ironico commento dell’angoscia di tutti. Verrebbe da pensare alle “Tragedie da ridere” di Franca Valeri, quei monologhi cari a Giovanni Testori, in cui tutta la città è chiamata in causa.

Invano si cercherebbero in quest’opera insofferenza e irritazione, perché qui, nel gesto pittorico, Congdon si affeziona alle vite degli altri, ne condivide il dramma, si sente fra i suoi simili. Una narrazione rapida e gestuale proietta su un grattacielo, Taj Mahal senza più sacralità, una luce che scivola, portando con sé cenere e bitume, “resti” materici che non permettono più metafisiche accensioni; una materia che desacralizza è infatti l’esito di questo mischiare cenere ai colori ad olio, simbolo architettonico e palcoscenico.

Va poi detto che il titolo non allude certo al punto zero del linguaggio letterario, che pure imperversava in quegli anni, perché al contrario sono tanti i codici linguistici che l’opera parla . Che si tratti dello zero inteso come neorealismo testoriano, come messa a nudo che smaschera l’avanspettacolo della nostrana metropoli sui Navigli, quasi divertente per Congdon che aveva attraversato la Black City? Ed è proprio l’ironia (Congdon ha sempre giocato ottimi scherzi al “tragico”) se non addirittura un quasi fumetto, a tenere insieme i tanti codici, unificando divertito scandalo personale e giudizio storico: insomma ci troviamo più prossimi alla satira di Maccari che a nordici espressionismi.

I rosa, i gialli rossetto delle carni, immortalano le “Lollofrigide” dopo averle fatte scendere dai cartelloni pubblicitario, accompagnandole con grazia sulla ribalta; “Allegria” “morte, “Gina”, lampeggiano nell’arena coi toni coatti ed esclamativi della pubblicità. Congdon non sta certo lanciando vernice sulle pellicce delle signore alla prima della Scala, piuttosto il suo giudizio dice di sé, del suo non accettare il mondo: anche qui, come sempre in Congdon, a consentire la sortita dagli idoli e dalle censure, è l’atto creativo. In “Milano 0” ciò che è personale e privato trova il modo per divenire pubblico: non è questa la via di “Guernica”? Non si assisteva, in Picasso, a un deciso, elaborato virare da un fatto d’historia al “romanzo personale” o meglio, “familiare”? Da allora, come non ritrovare il campo di battaglia nel proprio atelier, come non sentirsi ogni giorno sotto le bombe? Già il “Quarto stato” di Pellizza da Volpedo aveva rappresentato il manifesto di una mobilitazione pubblica che si muta in un lutto privato, permettendo di assistere, proprio qui al Museo del Novecento, a un’ascesa (o a una discesa) dell’arte nei territori ormai indagati dell’io.

Una parte significativa dell’eredità di Congdon sta proprio nel non dimettere mai la consapevolezza della propria “scissione”, nel non annullarla mai in sublimi assoluti. Le “Basse”, frutto di una scelta spirituale radicatasi come scelta di vita in un territorio preciso, trasportano l’“action” dai romantici e consumati tralicci delle “City” newyorkesi a nuovi e coltivati campi, tralicci dove rifiorisce il seme, dove cioè il gesto può riaffermarsi.

Occorre però sottolineare che si tratta appunto di gesto e non di anima effusa misticamente sulla tela, come la critica ha spesso accreditato: basti osservare le ultime prove di questo poema benedettino, che riconducono ali di luce a materici solchi di un lavoro mai concluso e sempre da verificare. Colori a olio impastati a cenere, si è detto: non barocchismo sperimentale, ma partecipazione a un dramma di tutti in cui non manca mai il proprio. Solo così è dato “uscire” dal mito. E mito soprattutto era l’anno, il mitico ’68 , che azzerava tutto in nome di una immaginazione separata da “ogni” potere.

Quel che avvenne e si produsse attorno a quegli anni porta i segni, anche fascinosi, di quella scissione. Gli sforzi compiuti verso la sintesi in quegli anni cruciali rimangono pietre miliari nei rispettivi ambiti artistici: è lì che occorre guardare, alla letteratura e al cinema di quegli anni, per trovare i compagni di cordata di questo Congdon milanese. Nel Pasticciaccio di Gadda, il commissariato si trasferisce tour court nel salotto di Liliana Balducci: un mélange linguistico ineguagliato narra una poliziesca quête nella quale il commissario è al tempo colui che indaga e l’indagato (Liliana, donna o madre?). La cognizione del dolore, che dipana la matassa in chiave tutta psichica, non parte da qui? E Teorema di Pier Paolo Pasolini, non si sviluppa grazie a un teorema per il quale la schizofrenia del capitalismo si “compie nel totemico suicidio del padre, il denudato Massimo Girotti?

“Dì quel che pensi” (principio della clinica freudiana che può valere come metro di giudizio per qualsiasi poetica) si potrebbe dire, a conclusione di queste ipotesi di ragionamento. Dì quel che pensi e recupererai qualcosa di te e della storia degli altri.

 

“Milano 0”, anno 1968, olio e cenere su faesite

Museo del Novecento. Milano.

 

(Mario Cancelli)


Il passaggio di Enea, riflessioni post Meeting di Rimini

di Mario Cancelli. A Meeting concluso, una riflessione sul pensiero che le esposizioni artistiche promosse da Casa Testori hanno offerto e suscitato.

 

1

Una premessa rassegnata: anche qui troviamo le inevitabili cornici didattiche (in favore di una res publica semper edificanda atque educanda) tese a divinare o strologare quanto racchiuso nel sacrario dell’opera. Infatti, al Meeting 2017, Casa Testori si è cimentata con il mito virgiliano di Enea in fuga da Troia in fiamme proponendo un obbligato ma non spiacevole percorso propedeutico alle opere: un video strutturato come un trittico.

Nel primo episodio, un padre dei nostri giorni cerca di far entrare nella testa del figlio, con urla e scenate, la storia e i valori fondanti del mitico eroe. Il figlio, che scambia Anchise per Ascanio, cioè il padre per il figlio, non ne può più ed esprime in malo modo il suo disinteresse per il mito. La seconda parte offre l’esemplare scena di un vecchio film in cui si assiste allo sfogo, lucido e freddo, di un giovane che sanziona il padre assicurando che non gli deve nulla e che non vede l’ora che questi sparisca dall’orizzonte. Dopo interessanti testimonianze di Caproni e Pasolini, ritroviamo padre e figlio del primo atto, questa volta on the road; il padre non si regge in piedi, il figlio lo prende sulle spalle e, sotto il peso, riesce a sbagliare per l’ennesima volta i nomi del mito.

Incorreggibile ignoranza delle nuove generazioni? Per nulla. È preferibile pensare a un autentico, bellissimo lapsus, ed è grazie a questo lapsus che la proposta di Casa Testori si qualifica come moderna: testimone del pensiero che si mostra in atto, non Kultura ma atto individuale del colto. Un auspicio: sarebbe interessante vedere l’anno prossimo al Meeting una mostra sulla seconda parte del mito di Enea, quella dei gemelli Romolo e Remo (con annesso fratricidio, una variante del parricidio) beninteso con relativi lapsus.

Le contigue immagini di Julia Krahn (una donna che si è caricata sulle spalle quella che si è portati a ritenere la madre, invero non così senile come Anchise) segnalano forse l’ingresso delle quote rosa nel mito, molto apprezzate da Cristiana Collu alla presentazione della mostra.

Completato il percorso catecumenale delle cornici, si passa alle opere con animo ben disposto e si scopre, a conferma di quanto si diceva, che i miti, quando funzionano, funzionano perché inconsci. Solo così sono acquisibili alla fruizione individuale, altrimenti degradano a meri materiali, fondi di magazzino junghiani.

2

“The last supper” (1987), in cui Andy Warhol ripensa “L’ultima cena” di Leonardo da Vinci, è il perno della mostra. Grazie a questi famosi “multipli”, l’arte e la storia del soggetto raffigurato fanno un balzo di secoli: historia artis facit saltus! Balzo difficile da riconoscere ai cultori del bello e del sacro, che continueranno a vedere in Warhol un terrorista nel sacrario dell’arte.

Il guadagno, in effetti, sta proprio nella de-sacralizzazione compiuta dall’operazione estetica di Warhol. Il quale si prende sulle spalle (guarda caso) la suprema icona del Rinascimento italiano, senza farsene schiacciare, perché grazie all’operazione estetica in questione, cioè la famosa moltiplicazione quasi evangelica delle immagini, le permette di uscire dalla caverna delle idee platoniche e di comunicare.

Questa serialità riprende ed esalta la modalità dello schermo televisivo; una ripetizione per nulla ossessiva e che non abbassa il linguaggio, anzi lo rende familiare, quotidiano, insomma laico: ma pare che proprio lì volesse arrivare Leonardo stesso, con quel Cristo gentile il quale, mentre tutti lo fissano ipnotizzati, ma in realtà distratti, lui solo, al centro della tavola, intercetta e offusca il sole, poiché è evidente che non gradisce né accecamento né ipnosi. Un’opera ben poco sacrale, quella di Leonardo, ironica, in definitiva “mentale” e sulla quale si sono incongruamente accaniti negli ultimi anni i ben noti clangori fantareligiosi.

Certo in “The last Supper” ritroviamo la logica che aveva dato origine ai Campbell’s Soup, ma è proprio quella prosaica serialità che apre alla dicibilità di quel fatto di duemila anni fa: la cena dell’every man è resa prossima a quella in cui il Figlio di Dio si offre, in corpo e sangue, superando così il totemismo stesso, causa della sacralità: per grazia di giudizio individuale, siamo infatti fuori dal tempio.

È, quella in oggetto, una duplicazione del modello originario, poi riunificata nella forma quadrata, non imitazione o citazione, ma piuttosto superficie comunicativa, che in altri esemplari si copre di cifre e simboli (come era in Pollock), mentre qui gioca l’assetto orizzontale (quello della tavola e degli apostoli) con quello verticale. Il famoso “Tutto è superficie di Warhol viene citato da Giuseppe Frangi a proposito e permette di evitare, rispetto a Warhol, la svista più facile, quella che consiste nello spiritualizzare quanto è già spirituale.

È così che Warhol vince la sua partita, non contro gli amati padri (Brunelleschi, Leonardo) ma contro coloro che in tale svista cadono in ragione del loro “rimosso”: un’opportuna mappa concettuale vedrebbe Warhol contro Dan Brown: pensiero contro occulto, partecipazione contro idealizzazione.

 

3

I “frammenti” raccolti in questa mostra dicono la contraddittorietà dell’arte contemporanea, che vive di essi, e dei quali noi stessi viviamo anche solo per il quotidiano passarvi accanto. Qualcosa però accomuna tali frammenti raccolti per il Meeting da Casa Testori, come già accennato prima, cioè la non rimozione o almeno il suo tentativo.

È da qui che vengono novità o riproposte interessanti, come il bel film in bianco e nero nel quale Antonioni si confronta con il complesso statuario michelangiolesco di San Pietro in Vincoli, che ci riporta non tanto o non solo alle figure di Mosè, di Giulio II e di Maria, ma grazie al silenzio del regista, reso afasico dalla malattia, consegue un proustiano lasciar tornare ciò che sembrava perduto, senza domande, ma con cura di quel che appunto viene al pensiero.

Il video approda visivamente al tragico silenzio dell’ultimo Caravaggio, in quel muto uscire di Antonioni dalla basilica: un lento camminare nella luce verso la luce esterna, come chi porta con sé un’esperienza di soddisfazione.

 

4

La condanna che colpisce ogni parola quando viene ridotta a mero significante è rinvenibile a partire dall’esperienza quotidiana. Tale damnatio colpisce a maggior ragione il capolavoro. A questa consapevolezza si deve la poetica della “cancellatura” di Emilio Isgrò, tra le più note ed emblematiche prese d’atto di questa condizione. Sulle pareti della sala a lui dedicata, egli ci offre, umilmente e con l’ironia che sempre lo contraddistingue, il tentativo di salvare gli amati Promessi Sposi dall’annullamento: e, puntualmente, il suo atto suscita la reazione dei custodi del sacrario dell’arte. Abili e bianche cancellature, un verticale “effetto muro” cui la pagina è consegnata, dal quale emergono termini isolati o brevi accostamenti ( “tutto è cancellato”, “Dio”, “ Io”): emozionanti parole chiave da cui ripartire.

Alla medesima logica della cancellazione appartengono i “profondi rossi” di Giovanni Frangi, in cui viene ad essere sommersa e dilavata la più rocciosa, e mantegnesca natura.

Wim Wenders e Julia Krahn sono accomunati da un epos della distruzione che si auto cancella nello stesso cromatismo o negli inani rinvii simbolici, di cui si è detto all’inizio. Poi Dessì, con la ciclopica mano che tiene sospesa l’immensa casa gialla: ma poteva anche essere piccola, delle misure di un gadget, e forse sarebbe stato meglio. Infine, Paci ambienta la sua via crucis fotografica, pirandelliana più che pasoliniana, in un cortile di condominio: spazi per un soggetto in cerca della sua legge.

 

(Mario Cancelli)

 

IL PASSAGGIO DI ENEA. Artisti di oggi a tu per tu con il passato

20-26 agosto 2017, piazza A1 della Fiera di Rimini

A cura di Casa Testori - Davide Dall’Ombra, Luca Fiore, Giuseppe Frangi, Francesca Radaelli


Evocare l’universo dopo averlo rimosso. Mark Tobey alla Guggenheim

di Mario Cancelli. A quel “nodo” irrisolto che fu l’Action painting americana, l’opera di Mark Tobey, in mostra al Guggenheim veneziano, la prima in Europa di tale portata, appartiene e si dimostra legata, tanto più si cerca di separarla.

Delle “città bianche” di Tobey, dei tralicci dalla luce chiara, delle superfici sature di pigmenti e cesellate dall’attività di un certosino dell’oro bianco, allusive all’Oriente senza ulteriori precisazioni, si venne a conoscenza grazie all’opera critica di Francesco Arcangeli. I filamenti, i deboli grafismi a galla in una materia presente e delicata, e soprattutto una linea che percorreva la superficie quasi senza legge, furono facilmente collegati ai testi dell’espressionismo astratto americano. Il teatro di uno spazio indefinito e di una libera ed espansiva gestualità, erano concetti che permettevano al critico bolognese di unificare esperienze diverse tra loro e di queste le città di Tobey erano da considerarsi sovrani prolegomeni.

Debra Bricker Balken, curatrice della mostra, sembrerebbe, grazie a un prezioso aneddoto, confermare tale lettura: quella di un Pollock folgorato da Tobey.

Agli indiani d’America si sostituiscono i calligrammi cinesi? Niente paura, per i fans del modernismo: anche su Tobey, che iniziò formandosi sul Rinascimento, grava l’ombra di Duchamp. Sta di fatto che l’Oriente fornì al peregrinante eremita un appoggio, non certo una soluzione. Quel che lo muoveva era la vitalità della città, cui sempre tornerà: questa è la filigrana dei suoi colloqui, e i suoi testi rinviano ad essa come le insegne delle strade rinviano ai passanti.

“Luce filante (Threading light)”, del 1942, tempera su carta che dà il titolo alla mostra, rinvia con la sua tecnica detta della “scrittura bianca” ad un Oriente si percorso e amato ma anche parteciparlo da una soggettività che associava ad esso passione per la musica e per la sperimentazione.

Ne risulta un “atto” pittorico fluido e preciso, ritmico e calligrafico assieme, che, come dice il titolo dell’opera, fila, va, si sfila e ti fila, per poi svanire e ritornare come un gesso sulla lavagna che segni senza stridore o come filamento di un incisore di coralli, che suggerisce l’idea di un dripping eseguito lentamente da un mandarino cinese. “Il vuoto divora l’era del gadget”, 1942, che anticipa le Excavations di De Kooning, vira verso una empirica spiritualità. Poi saranno le trame di seta, in competizione con il marmo e il vuoto.

Rimane da chiedersi come mai un artista di straordinaria sensibilità narrativa e vis satirica, come testimonia il bellissimo “Nebbia al mercato” del 1940, si consegni a un lavoro di annullamento dei dati della civiltà, poi recuperarli, attraverso tali atti ripetitivi, quasi baco da seta inesausto, materici e desacralizzanti in fondo.

Che il secernere questo materico e opalescente bianco, come inesausto baco da seta, insegue più che sintesi di civiltà, quel gusto che, ci si perdoni il paragone, richiama non la luce metafisica ma, come sanno i bambini - e saremmo a cavallo fosse così - il sapore dello zucchero filato, piacere che ogni civiltà promette e concede: ma a quale prezzo? Questa partita con la materia (e materia proprio quando essa si accende nella luce), rimise in moto le geometrie di Kandinsky, si veda “Eventuality 44”), per inseguire le gloriose “eventualità della scrittura rinvenuta”. Chi disse di no a tutti, lo fece forse perché aveva intuito come le crisi delle civiltà siano in primis crisi dell’io. Da qui anche le ragioni di un’adesione a un credo monoteistico che tutto omologava. Ma se gli ultimi ed eccelsi atti di Tobey furono l’approdo a un sublime quanto accademico accademismo, cioè ai sacri valori dell’arte, sorge la domanda: in the meantime? Il gran rifiuto che Tobey rivolse alla scuola di Parigi, rimette in gioco infatti l’arte di Tobey, e l’interesse per essa.

Fu un rimanere fedele alle ragioni dell’espressionismo, a un gesto che, imparentato con l’inconscio, non si opponeva per questo al pensiero, come pretendevano gli europei.

L’Action painting conobbe il medesimo destino: da una parte lo “sporco” della materia come istanza dell’io, dall’altra la purezza della perla, lavorata dal maestro di Seattle, con una perizia che non sopporta compromessi.

A seconda di come si risponda a questa domanda, si avrà la chiave di tale pittura, capace di evocare l’universo dopo averlo quasi completamente rimosso, di nominare Grecia e Roma e America e Oriente, dopo averli consumati. Forse le “black paintings” di Pollock iniziano proprio nel punto in cui le “White paintings” di Tobey concludono (recuperando dall’oceano le figure della propria storia personale), è straordinario però ritrovare lungo le sale del Guggenheim, una libertà che, nonostante il sogno di una Lattea galassia, non rinuncia alla sindone del proprio dramma.

(Mario Cancelli)

Bologna, 17-6-2017

 

Mark Tobey. Luce filante

Peggy Guggenheim Museum

6 maggio - 10 settembre 2017

A cura di Debra Bricker Balken

#MarkTobey


La barba di Mosè, Akhenaton e il timore di un presagio

di Mario Cancelli. «Leggere un giudizio su questa figura mi fa sempre piacere: così per esempio, secondo Herman Grimm, essa sarebbe “l’apice della scultura moderna”. Certo, da nessun’altra scultura sono rimasto più fortemente toccato. Quante volte ho salito la ripida scalinata che porta dall’infelice Via Cavour alla solitaria piazza dove sorge la chiesa abbandonata! e sempre ho cercato di tener testa allo sguardo corrucciato e sprezzante dell’eroe, e mi è capitato qualche volta di svignarmela poi quatto quatto dalla penombra di quell’interno, come se anch’io appartenessi alla marmaglia sulla quale è puntato il suo occhio…» (S. Freud, Il Mosè di Michelangelo, 1914).

Non passava giorno che Sigmund Freud, nei suoi soggiorni romani, non venisse qui, a San Pietro in Vincoli, cercando di scoprire la ragione o il segreto di questa statua.

Oggi i visitatori vi giungono molto più numerosi di allora, e forse qualcuno di essi vive la medesima esperienza del fondatore della psicoanalisi, si scopre attratto cioè da qualcosa che lo riguarda, da una rappresentazione di cui siamo tutti partecipi.

Forse la suggestione dell’opera consiste proprio nel gesto emblematico di Mosè, un gesto che conclude, come ha dimostrato Freud, in una calma imprevista, dopo la prolungata ira, in quel constatare che la fluviale, inverosimile barba è ancora lì, al suo posto: come un politico quando fuoriesce dalla vettura di rappresentanza va con le mani alla propria cravatta le millanta volte, per accertarsi di essere ciò che spera di essere, così Mosè sembra autocertificarsi di se medesimo palpandosi la nilotica barba.

Un Mosè che appare perciò, malgrado la grandiosità, incerto, prudente quasi oltre misura, rassegnato e forse inquieto, sotto sotto ancora minaccioso come tanti dicono; mentre il giovane David vive della sua attenta serenità, della sua mancanza di dubbi, del suo compito di custode della città, cui tutto il suo corpo è teso, INVECE il Mosè ha bisogno della sua barba per sussistere.

Il linguaggio delle opere di Michelangelo, dal troppo finito della Pietà vaticana al non finito delle ultime, manifesta il faticoso andare verso la modernità: se in tutte le sue opere si riflette qualcosa che riguarda le “civiltà”, questo “grande uomo” però, che esce dalla facciata del monumento sepolcrale di papa Giulio II come un antico faraone (il sarcofago del papa è al secondo livello della fabbrica, quindi scarsamente visibile), rinvia a un complesso conflitto, che pone la riflessione sulle origini nella modernità.

Nessun’opera ha mai sopportato giudizi tanto opposti: vi si coglie la terribilità che incute il volto del legislatore, ma anche il timore di Mosè stesso alla vista del suo popolo, c’è determinazione ma c’è angoscia.

Quale l’originalità del Mosè nell’opera di Michelangelo?

La Cappella Sistina è teatro shakespeariano prima di Shakespeare, attira e trascina nel suo vortice figure mitologiche, storiche e anonimi astanti. Tale continuum di terra cielo, alto e basso, crea un moto che rompe gli schemi aprendo all’inconscio; una circolazione che coinvolge forme e sguardo, è quel che cerca l’uomo moderno, il quale ha visto le stelle sfuggirgli di mano e la sua storia quasi perdersi fra leggi che egli crede di dominare e da cui invece è dominato. “Il Giudizio universale” rinvia alla più perfetta delle titolazioni, facendo riferimento a giudizio e universalità, anche se il garante dell’ordine, quel giovane e palestrato Cristo triumphans, sembra patire un dramma analogo a quello delle figure circostanti.

Il suo giudizio salva dal caos, ma quanto APPARE periclitante quel suo gesto che separa salvati e dannati: gli uni non paiono molto più contenti degli altri, sommersi tutti in un fragore tremendo che, siamo sinceri, un po’ ricorda un Dies irae di Karl Orff diretto da André Rieu. Non a caso Ungaretti vide nell’ormai barocco Giudizio di Michelangelo, specchiarsi non la fede ma l’inquietudine.  Così come Longhi vide nella “Decollazione del Battista” di Caravaggio il silenzio di una scena ormai irriconoscibile e Roberto Calasso negli affreschi del Tiepolo, l’inaugurarsi di una forma “leggera”, un tripudio di significanti in festa, senza più remora per i significati, resti indesiderati.

Ma davanti al Mosè si può tornare proprio come avveniva a Freud, con l’aspettativa di un pensiero ancora urgente, che vince la rimozione: tanto che il suo segreto, si è detto, sembra coincidere con quanto di non rimosso opera in ognuno di noi, si tratti di pulsione inconscia o di un passato personale ancora irrisolto.

Il Faraone, il profeta, che nella sintesi iconica michelangiolesco-hollywoodiana ha il volto di Charlton Heston (si ricordi il drammone titaneggiante “Il tormento e l’estasi”, successivo a “I dieci comandamenti” di Huston) non esce da un sacrario di morte, ma sembra offrire a chi guarda la sollecitazione di un pensiero tutto da compiere.

Rimane un’ultima riflessione: non sarà che proprio qui, a Roma, a San Pietro in Vincoli, Freud abbia avuto l’intuizione che gli mancava, e che svilupperà molti anni dopo?

Forse qui è nata l’intuizione, che non ritroviamo nel coevo Totem e Tabù, e che in tutta la sua esplosiva verità occuperà l’ultimo scritto di Freud, “L’uomo Mosè e la religione monoteistica” (1939) dove sarà finalmente “pensato” quel segreto cui si è accennato, che lega la vicenda dell’individuo a quella delle civiltà. Basta fare un semplice confronto fra la barba del Mosè, accarezzata, aurea, fallica e allo stesso tempo fiume dei secoli che la Legge attraversa, e la posticcia barba rituale del Faraone Akhenaton che Freud chiama in giudizio.

Le statue sono cieche, inutile fissarle negli occhi per cercarne le intenzioni.  Nel nuovo (non) sacrario Mosè esce alla luce, va verso gli uomini, con la calma a fatica conquistata, nel perdurante timore di un presagio che attraversa ogni tempo. Questo il vero segreto, che renderebbe umano il faraonico profeta: il presagio di un’imminente nuova ribellione del suo popolo, e della propria morte.

Sì, è possibile che qui a San Pietro in Vincoli a Freud sia venuto quel pensiero del parricidio di Mosè: ciò renderebbe quest’opera una orta di “incunabulum inconscii”, che ci attrae perché ci mette di fronte a ciò che, da sempre, avviene nella storia di ogni individuo.

 

(Mario Cancelli)


Come rimuovere l’universo per poterlo evocare. Mark Tobey alla Guggenheim

di Mario Cancelli. L’opera di Mark Tobey, in mostra al Guggenheim veneziano, appartiene e si dimostra legata a quel nodo in parte irrisolto che fu l’action painting americana e tanto più vi appartiene quanto più si cerca di separarla.

Fu Francesco Arcangeli a portare a conoscenza dell’Europa le “città bianche” di Tobey, i tralicci dalla luce chiara, le superfici sature di pigmenti e il cesello certosino di quel bianco aureo, allusivo a un imprecisato Oriente. I filamenti, i deboli grafismi che sembrano galleggiare in una materia diffusa e delicata e soprattutto quella linea che percorre la superficie quasi senza legge, furono da Arcangeli collegati all’espressionismo astratto.  Al critico bolognese dovette sembrare, quello, il teatro di uno spazio indefinito e di una libera ed espansiva gestualità, testo esemplare che gli permetteva di unificare esperienze diverse tra loro di cui le città di Tobey parevano i necessari prolegomeni.

Debra Bricker Balken, curatrice della mostra, sembrerebbe confermare tale lettura: quella di un Pollock folgorato da Tobey. Dunque alla suggestione iniziatica suscitata in Pollock dagli indiani d’America si dovrebbero sostituire i calligrammi cinesi?

Niente paura, per i fans del modernismo e dello spiazzamento generalizzato: anche su Tobey, che aveva iniziato studiando il Rinascimento, mai si protende l’ombra di Duchamp, sotto forma di un’astrazione gravida di implicazioni psichiche.

Va detto infatti che anche l’Oriente fornì a Tobey un passaggio, non certo una soluzione, perché è evidente che la costante del moto pittorico di Tobey è la vitalità della città, luogo pulsionale e gestuale per eccellenza, cui egli farà sempre ritorno: anzi, a ben guardare, la città appare come la filigrana delle sue opere. “Luce filante (Threading light)”, del 1942, tempera su carta che dà il titolo alla mostra, richiama con la sua tecnica detta della “scrittura bianca” un Oriente percorso e amato ma anche partecipato da una soggettività che associa passione per la musica e per la sperimentazione.

Ne risulta un “atto” pittorico fluido e preciso, ritmico e calligrafico assieme che, come dice il titolo dell’opera, fila, va, si sfila e ti fila, per poi svanire e ritornare come un gesso su una lavagna che riceva segni senza stridori o come filamento tracciato da un incisore di coralli: quasi un dripping eseguito accuratamente da un mandarino cinese, con paradossali esiti di incoercibile autocontrollo.

“Il vuoto divora l’era del gadget”, 1942, che anticipa le Excavations di De Kooning, vira verso un’empirica spiritualità, poi saranno le trame di seta, in competizione con il marmo e il vuoto.

Molto si può dire e apprezzare di Tobey, ma troppo spesso si elude l’indagine sul perché un artista di sensibilità narrativa e vis satirica (come testimonia il bellissimo “Nebbia al mercato” del 1940) si sia consegnato a un sistematico lavoro di annullamento dei dati della civiltà, per poi recuperarli, attraverso tali atti ripetitivi, quasi baco da seta inesausto, avendoli peraltro matericamente desacralizzati.

A ben guardare, c’è motivo di pensare che a secernere questo materia bianca e opalescente, più che l’intuizione di una nuova sintesi di civiltà, sia quel gusto per nulla metafisico, che come sanno i bambini, dà il sapore dello zucchero filato: insomma pare che a muovere qui l’autore sia il pensiero di quel piacere che ogni civiltà promette e concede, ma a quale prezzo.

Questa partita con la materia (tanto più materia proprio quando essa si accende nella luce), rimette in moto le geometrie di Kandinsky, si veda “Eventuality 44”), per inseguire le gloriose “eventualità” della scrittura rinvenuta.

Colui che aveva rifiutato qualsiasi identificazione con le scuole pittoriche americane ed europee, aveva pronunciato forse quel rifiuto perché aveva intuito come le crisi delle civiltà siano, in primis, crisi dell’io? Da qui forse anche le ragioni di un’adesione a quel credo baj che tutto omologa, come una rinuncia alla sovranità individuale che tutto giudica. Ma se gli ultimi ed eccelsi atti di Tobey furono l’approdo a un sublime quanto freddo accademismo, cioè ai sacri valori dell’arte, non dimentichiamo che occorre sempre fare l’anamnesi del gran rifiuto iniziale, quello della scuola di Parigi: tale indagine rimetterebbe in gioco infatti l’arte di Tobey, e l’interesse per essa.

Quel rifiuto fu forse un modo per restare fedele alle ragioni dell’espressionismo, a un gesto che, proprio perché imparentato con l’inconscio, non si opponeva per questo al pensiero, come invece pretendevano gli europei? L’Action painting conobbe il medesimo destino: da una parte lo “sporco” della materia come istanza dell’io, dall’altra la purezza della perla, lavorata dal maestro di Seattle con una perizia che non sopporta compromessi.

La risposta alla domanda capitale offrirà la chiave di questa pittura, capace di evocare l’universo dopo averlo quasi completamente rimosso, di nominare Grecia e Roma e America e Oriente, dopo averli consumati. Forse le “black paintings” di Pollock iniziano proprio nel punto in cui le “White paintings” di Tobey concludono, recuperando dall’oceano le figure della propria storia personale: ma a quello che Kafka definiva “il punto di Archimede”, Tobey non arrivò.

È però occasione straordinaria ritrovare, nelle sale del Guggenheim, gli esiti di una libertà che, nonostante la rêverie di una galassia lattea, non rinuncia alla sindone del proprio dramma.

(Mario Cancelli)

 

Bologna, 17-6-2017

Mark Tobey. Luce filante

Peggy Guggenheim Museum

6 maggio - 10 settembre 2017

A cura di Debra Bricker Balken

#MarkTobey


Un ostinato e comunicativo ottimismo. Chase a Ca’ Pesaro

di Mario Cancelli. Figlie (o figli): così comincia e così chiude la bellissima mostra William Merritt Chase (1849-1916): un pittore tra New York e Venezia alla Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro. Le opere dell’“impressionista americano” si sono potute ammirare dall’11 febbraio al 28 maggio.

William Merrit Chase ci accoglie con “La giovane orfana” (1884): una fanciulla afflitta dai capelli rossi che le incorniciano il volto, abbandonata sul divano. Un ritratto bellissimo: alla domanda se per lei ci sarà un domani risponde lo sfondo rosso, caldo e rassicurante, e ci si accorge che un ottimismo impavido accarezza l’infelice ma non troppo, garantendole l’abbraccio di una ricchezza che sarà forse anche interiore, ma di certo esteriore lo è. Qualcuno pagherà la retta del collegio e le vacanze, la ragazza non è senza dote.

Si può già anticipare che realismo, ottimismo, entusiasmo e una fiducia quasi esaltata nelle forze della natura (umana) sono il passepartout di William Merrit Chase, della cui produzione Ca’ Pesaro ci ha offerto per la prima volta un’ampia antologica.

Un uomo della frontiera, Chase, ma la sua personale frontiera diceva ineluttabilmente Europa, e lui la percorse in lungo e in largo, con incrollabile volontà d’imparare. Egli prese tanto dall’Europa, dai fiamminghi e dai veneziani del Rinascimento, ma vi portò qualcosa che l’Europa non aveva più.

L’orfana di Chase è costitutivamente lontanissima dalla fanciulla malata di Munch: per lei è possibile immaginare una guarigione dopo la prova della vita, la nevrosi sembrerebbe di là da venire e soprattutto non appare tema socialmente interessante. E come accanto a Manet possiamo pensare - immaginare Mallarmè, il realista che “sfiora” con astuzia narrativa l’inconscio, Chase sembra invece rimandare a novellatori come London, a patto di accorgersi che i suoi personaggi si muovono non più nello spazio pseudo naturale da conquistare, ma nelle già conquistate uptown, nell’habitat di quelle dinastie borghesi dalle quali egli ottenne il riconoscimento delle sue innegabili e non servili virtù pittoriche.

E oltre che ai tardo romantici, Chase fa pensare a Henry James, a quella colonia di americani, stranieri in patria e naturalizzati europei, che peraltro mai si radicarono veramente nei drammi del vecchio mondo. Forse per tale benevola estraneità la ricchezza americana di questo periodo è qualcosa che ancora oggi fatichiamo a comprendere.

Ma se Chase si permette l’impossibile (colloca leggiadre signore e signorine in una natura americana che di nome fa Long Island, desublimizzata e addomesticata in vista degli “ozi estivi”), tale azzardo è reso possibile dalla sua ingenua dovizie di mezzi e di speranze: non si tratta certo di una scommessa pascaliana o di un goethiano patto con il demonio, egli permette alle figure di attraversare il mar dell’essere senza temere naufragi.

Tra questi quadri, si è portati a considerare quanto dovesse essere piacevole stargli vicino o divenire suoi discepoli nelle tante scuole che fondò o nelle quali insegnò. L’Armory show, cioè l’evento che rese legittime le avanguardie europee negli Stati Uniti (1913) dichiarerà la fecondità della tranquilla lotta di questo alfiere della modernità, tre anni prima della sua morte.

In ogni suo iter o tour formativo, Chase si appropria immancabilmente qualche piccolo capitale pittorico che frutterà in futuro. Le sue nature morte di scuola fiamminga sono prove di forza che sfiancano più l’osservatore, che l’autore: le bianche e smisurate razze eredi di Chardin s’impongono con autorità sulla concorrenza e le brocche di rame rivaleggiano sul tavolo con anfore antiche di perduti templi ellenici, mentre civettuoli bicchieri cercano spazio davanti al candido latte. Il gigantismo dell’oggetto non spegne anzi aiuta piacevoli triangolazioni tra frutti dalla tenera materia e sontuosi grappoli d’uva che debordano dal piatto. Una prova di forza, quella che Chase ingaggia con i maestri, che sul momento non ha futuro, ma che anticipa quella dei decenni successivi, quando si imporrà la totemica energia dell’espressionismo astratto.

A quest’autore le mode non stanno mai strette, né soccombe del tutto alla loro forza seduttiva. Il giapponesismo gli offre panneggi e vesti in cui dimostrare la sua puntigliosa e calvinistica vis descrittiva, cosicché per le signore immortalate la “posa” ambita diviene più test di successo sociale che celebrazione estetica. In fondo, Merritt Chase non anticipa lo Warhol dei ritratti, pittorici e fotografici, che offrirà agli svagati interpreti del successo mondano una gloria nella quale effimero ed eternità non sono più distinguibili?

Quando poi qualche ricca signora si sottrae all’ebetismo sistemico dello sguardo tipico delle dame di Chase, allora si arriva a pensare che le presentazioni sarebbero state un vero piacere. Questa è pittura di civiltà, con tutti i suoi pregi e difetti, non certo il dramma storico di una ritornante barbarie che s’incastona nel bizantino e sublimato oro dei ritratti del contemporaneo Klimt. Qui, è un ostinato e comunicativo ottimismo a rendere felice per un istante l’universo.

Ma anche per Chase verrà il momento in cui le istanze messe in campo perverranno al loro esito inevitabile. Sono lontani i cappellini delle signore di Monet, come tracce di rossetto sulle guance della Natura: tolte le sue luminose figure, ci si rende conto che in Chase i cieli incombono freddi e totalitari, le nuvole non parlano di romantici abbandoni, ma preannunciano le fortezze volanti delle catene dei significanti lacaniani in cui tutto presto precipiterà. Il secolo delle avanguardie abbandonerà infatti l’en plein air per un’autonomia formale (in quanto psichica) da ciò che può insidiare il primato dell’io.

Nella sua vicenda personale e privata, sempre trasferita con immediatezza sulla tela, Chase giunge inconsapevolmente a una dirimente soglia. Infatti Chase non può che tacere dei genitori dell’orfana che apre la mostra, e tace ovviamente dei loro disastri: ma in “Nascondino” (“Hide and seek”, 1888) dove raffigura le sue figlie bambine, egli raggiunge per un istante la scena di quel dramma familiare che sarà paradigma del Novecento.

(Mario Cancelli)

 

WILLIAM MERRITT CHASE (1849-1916) un pittore tra New York e Venezia

Ca’ Pesaro – Galleria Internazionale d’Arte Moderna

11 febbraio – 28 maggio 2017


Motherwell alla Galleria d’Arte Maggiore di Bologna

di Mario Cancelli. La storica bolognese Galleria d’arte Maggiore, posta all’inizio di via d’Azeglio e che riassume le memorie di un passato che giunge fino al Duecento, offre con sorpresa una significativa scelta di opere dell’artista americano Robert Motherwell. La prima, forse, dopo il confronto con Jackson Pollock, promosso dai curatori del Guggenheim veneziano, un vis-a-vis irripetibile per l’immensità delle due tele, sorpassata forse solo da Guernica, che le genera e in loro si rigenera. Nella sala primaziale del museo, infatti, più che a un match si compie la definitiva spartizione delle due anime, se così si può dire, dell’espressionismo astratto o, secondo la definizione che noi preferiamo, dell’Action painting. Di questo parleremo più avanti.

La piccola ma selezionata mostra bolognese testimonia le tappe di una carriera che fin dall’inizio si trovò implicata e poi perennemente in bilico fra le istanze opposte di un surrealismo che lasciava ai suoi adepti totale carta bianca, senza peraltro risolvere il quesito fondamentale che lo giustifica: l’inconscio. La lezione di Matta segnò certamente il modus recipientis (ed operandi) di Motherwell: un surrealismo che guarda a Bataille più che a Breton, cioè a un capovolgimento ad oltranza dei valori. Presupposti cui il maestro cileno associa una dimensione etnica, fantastica e totemica, che Motherwell non poté mai fare sua, fedele sempre e comunque a un lirismo sentito come essenza dell’arte e dell’io.

Che non sia una questione di formalismo lo proclama la lunga pratica di Motherwell del collage, prima “maniera” dell’avanguardia europeo; ingenua e potente esperienza nel rinnovamento del canone e sincera dedizione al principio primo di Breton, quello del primato dell’inconscio, comunque esso sia concepito. Collage come ultimo stadio della rivoluzione romantica, che iniziò con il concetto di geroglifico, concrezione da liberare nel linguaggio, dissolvimento che non si arresterà nemmeno davanti al non sense. Le ragioni del lirismo romantico sono qui. Una liberazione senza tregua dalle leggi, fino a giungere a un intangibile punto zero, a ciò che è significato perché lo incarna oltre ogni possibile “senso”: il simbolo, senso a se stesso.

I successi di Motherwell su questa strada sono noti. Peggy Guggenheim promosse e pretese un discepolato in questo senso che Motherwell ottemperò con dedizione ed entusiasmo. Forse è proprio qui da verificare se Motherwell abbia operato uno scarto rispetto a questa costituzione simbolica, vista l’abilità nel giocare i “materiali” con particolare attenzione al dato sperimentale e al mondo della memoria. Il Proust del collage, potremmo dire, per l’utilizzo di carte e lettere, in una superficie chiara, tutta da aprire, da leggere. L’occasione bolognese ci offre un testo in cui tutto ciò sembra riassumersi: quella “Star of David” (1976) in cui il simbolo sembra resisterà all’azione corrosiva dei significanti, farsi piccolo, quasi marchio o sigillo di una memoria in atto. Si tratta di una “resistenza” ma anche di un compito, liberare il simbolo senza rimuoverne l’istanza che lo nomina, istanza e legge in Motherwell sempre della forma.

Lo si coglie proprio quando Motherwell, grazie all’Action painting, si autorizzerà al “gesto”, dando vita a macchie di pigmento gettato sulla superficie della tela, per le quali è giustamente riconosciuto, sua cifra psichica e poetica; esse però vivono e convivono con il loro opposto, il nuovo patrimonio di sagome rispetto al quale sembrano come schizzi di calamaio caduti dal pennino. D’altronde ben altro mondo è quello dei “neri” di Klein, posti come travi o tavole bibliche dell’inconscio e del gesto; o le stesse “black paintings” di Pollock, nelle quali la memoria irrompe con i suoi fantasmi in una lirica tessitura astratta.

L’evento del Guggenheim: il fronteggiatesi o meglio il guardarsi di sottocchio dei due teleri. Tra “Mural” di Pollock e l’“Elegy” di Motherwell non sembra esserci occasione di colloquio, tanto essi incarnano due modi, come si dice all’inizio, di concepire l’inconscio. Il primo riconducendo la storia collettiva alla vicenda individuale (sono i passi dell’individuo quelli che Pollock, senza più filtri rappresentativi, agisce sulla tela) e quella opposta, il tentativo di Motherwell di comporre e sedare il proprio conflitto, psichico e quindi poetico, con ulteriori eventualità. Non a caso “Elegy” è ispirato alla di Spagna, guerra civile mondiale si potrebbe dire. In tal modo riaffiora quell’esterno, quel "primato del sociale" che in Guernica veniva invece ad essere riassorbito nel “romanzo familiare” di Picasso, torero egli stesso, primo torero, piuttosto che militante.

Freud contro Lacan, visto che la partita sembra oggi restringersi alle due opzioni accennate: primato della struttura linguistico sociale o recupero dell’elaborazione autonoma dell’individuo, nella patologia o nella sanità.

Felicità dell’elegia, e debolezza, perché incompiuta e consolatoria, dell’ideologia, questa in causa, politica o anche altre, addirittura mistiche.

Cosi sembra definirsi l’ambivalenza di Motherwell. La mostra bolognese conferma come l’elegia si faccia veramente libera quando il dualismo si scioglie dal suo guscio protettivo. Piccoli gioielli, quelli selezionati da Alessia Calarota, come la serie degli “Untitled” o i ricapitolativi “Automatism” , “Black image with ochre”, i quali giustificano con dolcezza e impeto una visita alla galleria nella inesauribile, quanto a bellezza, via d’Azeglio.

 

Robert Motherwell, GALLERIA D’ARTE MAGGIORE, fino al 28 maggio.


Odilon Redon Il sogno di Calibano

Che sorpresa i Simbolisti italiani. Riflessioni postume intorno alla mostra milanese sul Simbolismo (2)

Odilon Redon Il sogno di Calibanodi Mario Cancelli. A proposito della mostra milanese sul Simbolismo, si diceva della fatalità del bivio ma anche questo sembra insufficiente. Perché se il simbolismo ritrova la vicenda dove il romanticismo l’aveva lasciata, individuando la possibilità di un nuovo coniugio tra natura e pensiero, l’urgenza del simbolismo sembra volatizzare anche questa possibilità.

Per riconoscerla occorre chiudere infatti all’orizzonte del mito, e aprire alle istanze dell’inconscio.

Quando ciò avviene, l’arte abbandona l’orizzonte del simbolico (ben poco eloquente) e ritrova una nuova libertà espressiva. Si cerca allora allora il “gesto” e con esso i modi dell’inconscio, modi nei quali il pensiero del soggetto è agito e non solo rappresentato.[1] I due surrealismi succedutisi dicono di questa metamorfosi del simbolo nell’inconscio ed è nella correttezza o meno della lettura dell’inconscio (contrario al pensiero o capace di dirsi sua vicenda, del pensiero) che si gioca la partita.

Quanto le polveri della mostra siano rimaste bagnate lo dimostra paradossalmente il recupero del cosiddetto simbolismo italiano. L’unico simbolista in Italia fu quel Pascoli, quasi refrattario all’influenza di Baudelaire. Un senso inattaccabile del reale sembra vaccinare gli artisti italiani, i quali non cessano di trarre da essa la loro ispirazione: la sala splendida dedicata a Sartorio ci consegna il senso di una “grande bellezza” che non annoia.

***

Eppure la mostra ha proposto anche cose egregie: “Il sogno di Calibano” di Odilon Redon, che lega Shakespeare alla cultura pittorica eletta, riconducendo simboli, presenze aliene o biologiche a un tessuto narrativo di fiaba, frutto della sua personale analisi.

Un piccolo quadro come questo permette di orientare le esperienze successive, le correnti e le tendenze. Redon non ci conduce all’arcaico di ritratti di famiglie rese archetipi senza vita individua, ad alberi solitari, a incroci immaginari improbabili; in uno stile ricco e privo d’indugi, dà forma e linguaggio ai fantasmi propri e di tutti. Accanto a Redon, Moreau, qui rappresentato da un pregevole dipinto: a quando però qualcuna delle sue Salomè, che regnano su pittura e letteratura?

tmp_4ddad36301ec30939da98e3092c4be971Uniche a comparire senza compromettere il gusto con un gesto più rivelatore che omicida. E poi il colore, la pennellata, la “colata” di Moreau che anticipa l’action painting.

Ne “La Speranza” di Puvis de Chavannes, l’ironia smuove i principi del paesaggio classico, cui ammicca: “La Donna” presidia lo spazio, anzi lo ostruisce, personificazione sardonica di una natura naturata, che promette senza mantenere. La soluzione del rebus non sta più nel registro contemplativo, nello straordinario concerto dai timbri bassi di verdi e bruni, ma in quell’occlusione, nel pensiero dello scacco che questa lacaniana effige incarna: una sciarada, che consegna a quel che verrà una patologia invasiva di ogni cifra stilistica.

bonazzaRiportare alla luce il simbolismo italiano è l’orgoglio della mostra: molti gli artisti finalmente visibili e le opere recuperate. Tutto parla di una capacità di difesa e di un senso di realtà quasi intaccabile.

Bonazza replica con ironia tragicomica al falso Edipo di Knopf (carezzato dalla madre fino al l’estinzione dell’umano) inventando un Orfeo di borgata, ignaro più che artefice dell’incanto operato sulle feroci leonesse. Si confronti questo pizzico di pirandellismo con l’irrepetibile Orfeo di Delville, omaggio a un dio che fu e che torna con imperturbata e irritante melanconia.

delvillePreviati, fra gli italiani forse il più implicato con il simbolismo, innalza “ali” sulle pareti, producendo materia per la scissione divisionista e affogandola in un diapason di luce e di sentimento, come nel “Chiaro di luna” che ci riporta quasi ai medioevo manzoniano, alle orazioni nevrotiche se non deliranti di Ermengarda: qui la luce si fa materia, raggi argentei che gridano le cose strappate dal buio. E infine “Le vergini stolte e le vergini fedeli”, di Sertorio, appena restaurato e che ci ricorda che il Quattrocento non passa mai. Infine un paesaggio dallo straordinario equilibrio, un idillio pucciniano che accarezza una natura tutta lombarda. Non vi dico l’autore, cercatelo nel bel catalogo che accompagna l’esposizione. Non faticherete a trovarlo in questa ricca foresta di simboli. (2. fine)

 

Si ringrazia Patrizia Pizzirani per la revisione e il contributo critico.

 

[1] La tragica fatalità del simbolo è chiarificata da S. Freud: viva ed eloquente nella dinamica onirica del soggetto, debole nell’ elaborazione formale, dove il simbolo acquisisce autonomia.


Il fuorviante Baudelaire. Riflessioni postume intorno alla mostra milanese sul Simbolismo (1)

il-simbolismo-in-mostra-a-milano1di Mario Cancelli. Queste sono riflessioni postume. Fortunatamente, non postume all’autore, ma a una mostra ormai terminata. Dal 3 febbraio al 5 giugno 2016 Milano ha dedicato al Simbolismo un’ampia antologica (curata da Fernando Mazzocca e Claudia Zevi), seducente per l’abbondanza e la novità per il pubblico italiano delle opere, con lo scopo d’invitare alla riflessione su un capitolo del secolo scorso non ancora sufficientemente chiarito. Proprio al fine di districare il ginepraio simbolista, i curatori hanno proposto come chiave interpretativa i “Fleurs du mal” di Baudelaire, quale unità di misura di tutto il movimento simbolista.

Occorre premettere che tale scelta è risultata in realtà limitante e talvolta ha rischiato di impantanare la mostra nella rete delle malie e relative aure.

Infatti, appariva come un’inconsapevole ma eloquente ironia che artisti e capolavori di mezza Europa fossero ospitati a Palazzo Reale, di fronte a quella Cattedrale, il Duomo, che del Simbolismo testimonia un’accezione “forte”. Chi vuol capire qualcosa del simbolismo medievale, deve solo entrare in quella straordinaria fabbrica e percorrerne le navate, “leggere” le vetrate che si susseguono come una “striscia” senza cesure: si sentirà incluso in questa unità, nella quale però l’individualità fatica a trovare il suo momento, pur essendo in teoria tutto edificato per lei. È proprio la scoperta dell’individualità, delle sue leggi psichiche oltre che storiche, a separarci irrimediabilmente da quel mondo: proprio la nostalgia per quel mondo portò Huysmans a individuare ombre terribili tra le colonne gotiche edificate con sublime virtù, aprendo territori che la morale non riusciva (più?) a nominare.

Á Rebours traccia autorevolmente genesi, fenomenologia e apocalisse del decadentismo e quindi del simbolismo: ma, inspiegabilmente, i curatori della mostra hanno snobbato Huysmans, lo scrittore del suo tempo a più alto tasso critico e di pensiero, il quale, non per niente, dal simbolismo seppe fuoruscire.

Dunque non c’è bisogno di richiamare l’opera di Baudelaire e poi quella dei maledetti francesi, e poi quella di Lautreamont (la principale fonte del surrealismo di Breton) e poi Odilon Redon e Felicien Rops, che trasportarono l’arte nel simbolismo più onirico e perturbante, per riconoscere che il simbolismo nasce “malato” e che il senso di questa malattia, che pervade perfino l’atto creativo, è il motivo, lo stigma del movimento.

Uno dei pregi della mostra è nell’offerta della possibilità di individuare un simbolismo che, a volte, semplicemente eredita la temperie romantica (il simbolismo è invenzione romantica) portando a estrema conflittualità le istanze ricevute.

Non poteva sopravvivere a se stesso il medievale revival dei Preraffaelliti; non sopravviverà il simbolismo cui ci riferiamo se non dopo aver consegnato la sua malferma conquista, l’inconscio, a coloro che tenteranno l’avventura del surrealismo. Al simbolo si sostituirà così l’inconscio e sulle diverse interpretazioni dell’inconscio stesso si svilupperà la storia del novecento, da Miro, a Dalì, a Ernst, all’action painting.

I curatori hanno certamente afferrato tale urgenza critica, ma proponendo Baudelaire quale pietra miliare, cui si aggiungono Nietzsche e Jung, ma senza fare chiarezza su tali apporti, hanno corso il rischio di fuorviare il giudizio.

Hodler il boscaioloBasti questo confronto: mentre al già citato Huysmans dobbiamo l’idea della rappresentazione oramai “clinica” della personalità decadente, a Baudelaire dobbiamo la fissazione dello spirito nel misticismo platonico, che apre all’io, alle sue sensazioni e analogie inconsce, per annullarlo. E in pittura avremo l’opposizione tra gli archetipi supremi da Segantini a Hodler, ai francesi, individuabili in madri perverse, oceani ghiacciati, alberi secolari, notturni cimiteriali o claustrali, comunque mistici: l’invenzione di linguaggi nuovi, compreso quell’ossessivo abitare il simbolismo di Moreau, che secerne però un gesto opaco e sintomatico.

Non basta ripetere, come nel video sornione di Philippe Daverio, che gli ultimi decenni del secolo XIX si dividono in un due versanti, quello naturalistico e quello simbolista (il mondo del sogno, dell’intimità, dell’“oltre”).

Il dualismo, il “fatale bivio”, è tutto all’interno del simbolismo.

La facilità con la quale Segantini passa dal realismo della natura al simbolismo delle Madri, dice di una medesima fonte dietro a entrambi, fonte che potremo chiamare “natura”, onnipresente e onnisciente, e che solo l’attenzione a ciò che, per comodità, chiamiamo Psiche (separata da Amore), può aggredire e superare.

La mia tesi può essere confortata da passi liberi e innovatori in quell’“oltre” a tutti i costi che si andò a confinare come un tarlo nel sentimentalismo, in un’isterica teatralità, negli spleen con i quali si patteggia con se stessi più che con la realtà.

138-von-stuck-il-peccato1Ma per offrire questo si sarebbe dovuto avere il coraggio di individuare il destino del simbolo, non più metafisico ma al massimo, psichico.

Un esempio per tutti, il capolavoro di von Stuck, dove un satanismo fuori tempo massimo fa da cornice al corpo ignudo della modella. Cosa resta di teologico, se non un’atmosfera tra il cabaret e la clinica, in questa rappresentazione del corpo certo audace, ma dove il viso appare segnato dall’alcool più che dal peccato?

Il serpente, simbolo stravecchio e defunto, fa appunto da floreale aureola a un collasso psichico più che morale. (1. continua)

 

Si ringrazia Patrizia Pizzirani per la revisione e il contributo critico.

 


Quali esterni per le camere di Van Gogh e Schiele? Cancelli risponde a Scarpa

roomsdi Mario Cancelli. Raccogliendo l’invito contenuto nel recente intervento sul blog di Giovanni Scarpa, anche Mario Cancelli entra nelle camere da letto di Vincent Van Gogh ed Egon Schiele. E facendosi aiutare dalla tecnica delle libere associazioni ci chiede quale esterno potremmo immaginare per ciascuna delle due stanze. Se mai un esterno fosse pensabile.

 

Ho letto con interesse il contributo di Giovanni Scarpa sulle camere da letto di Van Gogh e Schiele. Trovo in primo luogo condivisibile l’analisi cromatica. Ciò che accomuna i due ambienti è poi senz’altro un senso di rifugio e di sofferenza. Perché tanto interesse per una solitaria stanza? Il letto testimonia ristrettezza, non solo economica. Letto a una piazza, si badi, quando i letti dovrebbero essere sempre a due piazze. Tali da dare rappresentanza al pensiero dell’altro.

Un altro che sia presente, come nella Venere di Tiziano, o no. L’altro possibile.

vangDirei che il testo di Van Gogh dà corpo a una sorta di angoscia quasi persecutoria, quello che si pre-sente più che il riposo è un terremoto o un maremoto. L’opera di Schiele dà luogo a uno spazio più saldo, in apparenza. Qualcosa di claustrofobico si evince in quel nitore e in quei contrasti. Sul letto ci si può stendere, sulla sedia appoggiarsi. Ma Schiele dovrà sforzarsi, incaponirsi testardo, aiutandosi con il delirio per allargare quel pavimento, quasi un tappeto mistico per dilatare la occlusiva dimora.

il_570xN.926624387_q6e5[1]Quel che potrebbe aiutare è la tecnica delle libere associazioni. Mettiamola così: quale esterno immaginereste per le due stanze, se mai un esterno fosse pensabile?

Io risponderei così.

Per Van Gogh il famoso campo con i neri minacciosi corvi; per Schiele nessuno spazio se non quello della pagina sulla quale un segno, simile a una sadica tecnica yoga, dà luogo, in tutta “l’apertura” che si vuole - mai sufficiente per i corpi che ospita, a forme che si torcono, a un tratto  che rende spasmo il più dolce contorno.

Eccole, le “belle stanze”: due forme di inferno psichico. A tendenza paranoide il primo, ossessiva il secondo. Non entrare, dice sempre il primo: guarda che se entri ti costerà molto caro, il secondo.

 

Leggi il post di Giovanni Scarpa Schiele e Van Gogh, camere da letto a confronto.