Mercoledì 24 febbraio “La bellezza disarmata” con Carrón, Luzzatto e Farouq

carron[1]Il vantaggio di ogni crisi, come quella che sta attraversando attualmente la società, è che «costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte nuove o vecchie, purché scaturite da un esame diretto» (Hannah Arendt). È un invito ad aprirsi agli altri e a non irrigidirsi sulle proprie posizioni. È un’occasione di incontro e una circostanza preziosa anche per i cristiani, chiamati a verificare la capacità della fede di reggere davanti alle nuove sfide, chiamati a entrare senza timore in un dialogo a tutto campo nello spazio pubblico. E proprio un’occasione di incontro vuole essere la presentazione promossa da Comunione e liberazione e dall’Associazione culturale “Antonio Rosmini” in collaborazione con Rizzoli editore

mercoledì 24 febbraio 2016, ore 21.00
Centro congressi Padova “A. Luciani”

via Forcellini 170/a - Padova

presentazione del libro

810l0mNYzhL[1]La bellezza disarmata

di Julián Carrón (Rizzoli 2015, pp. 370)

Interverranno

Gadi Luzzatto Voghera docente alla Boston University

Wael Farouq docente all’American University de Il Cairo e all’Università Cattolica di Milano

Julián Carrón presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione e autore del libro

 

Scarica la locandina e l’invito all’incontro

 

“La bellezza disarmata” propone gli elementi essenziali della riflessione svolta da don Julián Carrón a partire dal 2005, anno della sua elezione a presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione dopo la scomparsa del fondatore, il Servo di Dio don Luigi Giussani, che nel 2004 lo aveva chiamato dalla Spagna per condividere con lui la responsabilità di guida del movimento.

Gli scritti, nati in occasioni diverse, sono stati ampiamente rielaborati e ordinati dall’Autore allo scopo di fornire organicamente i fattori di un percorso decennale, lungo il quale egli ha approfondito il contenuto della proposta cristiana nel solco di don Giussani, alla luce del magistero pontificio e in paragone col travaglio e le urgenze dell’uomo contemporaneo.

Il volume intende offrire il contributo di un’esperienza di vita a chiunque sia alla ricerca di ragioni adeguate per vivere e costruire spazi di libertà e di convivenza in una società pluralistica.

julian carronJulián Carrón è nato in Estremadura nel 1950. Ordinato sacerdote della diocesi di Madrid nel 1975, ha conseguito il dottorato nel 1984 dopo aver lavorato alla École biblique et archéologique française a Gerusalemme e aver compiuto un anno di ricerca alla Catholic University di Washington. È stato professore di diverse discipline alla Facoltà Teologica San Dámaso di Madrid, anche se la sua specializzazione è in Sacra Scrittura, argomento sul quale ha scritto diversi saggi. Il 19 marzo 2005 la Diaconia centrale della Fraternità di Comunione e Liberazione lo ha nominato presidente della Fraternità, dopo la morte di don Giussani.

wael farouqWael Farouq è professore di Lingua araba all’American University del Cairo. Attualmente insegna Lingua araba presso l’Università Cattolica di Milano. È stato lecturer in numerose università internazionali, tra le quali le Università di Torino e Bologna, l’Università di New York, l’Università di Notre Dame (Indiana, USA), l’Università di Washington e l’Università di Madrid; ha pubblicato varie ricerche in arabo, italiano e inglese ed è inoltre coautore, assieme a Papa Benedetto XVI, del libro “Dio salvi la ragione”.

Gadi Luzzatto Voghera.jpgGadi Luzzatto Voghera (Venezia, 1963) insegna Modern Italian History al Center for Italian and European Studies della Boston University a Padova e Storia dell’ebraismo moderno e contemporaneo all’Università di Padova. Sta lavorando a un libro sulla storia del Rabbinato. Ha pubblicato numerosi saggi. Fra le sue pubblicazioni più recenti: Antisemitismo a sinistra (Einaudi, 2007), Gli ebrei e la destra (Aracne, 2007).

 

La pagina facebook del libro facebook.com/labellezzadisarmata #labellezzadisarmata

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La luce, in Italia, è la madre degli alluci

di Giovanni Scarpa.

Cattura[1]L’arte, tutta letteraria, della descrizione, del dire “su” o “di”, ha certamente avuto nella penisola italica il suo più grande interprete in Carlo Emilio Gadda con buona pace, o almeno si spera, dell’agguerrito Calvino. Paradossale sorte della letteratura dunque, trovare in un ingegnere il degno erede al suo alto trono (esegesi forse magistrale della saga aladdinesca ed arturiana nonché topos, che dir si voglia, del povero-re). Ora, se c’è una branca della “descrizione” che da tempo si era perduta (e penso ad Omero o al Vasari, tra scudi d’Achille e Cristi di Donatello) è quella dell’Ekphrasis: la descrizione dell’opera d’arte. Ingrato compito, nonché ardito, quello di “dipingere con la lettera”, questo fenomeno ha spesso trovato nella cosiddetta “filosofia dell’arte” un confortevole refugium peccatorum, una più placida tenzone narrativa (senza offesa a Panofsky o Gombrich...).

Che senso ha più oggidì cimentarsi in questa assurda impresa, quando basta chiedere al signor Google? Quando la signora Jpg ci può far vedere subito tutto ciò che vogliamo?

Eppure ecco, per grazia, una splendida e raffinata Ekphrasis contemporanea, che mi capita di leggere tra le pagine del famoso Pasticciaccio gaddiano. Un sofisticato ma brioso elogio al potere del Logos, al bonario e rassicurante dominio della Parola, che senza indugio ora consegno agli innumerevoli lettori di questo blog:

 

Michelangelo_Buonarroti_Tondo_Doni[1]- La luce, in Italia, è madre agli alluci: e se uno è un pittore italiano non ischerza, bah, come non ischerzò il Manieroni alli Du Santi, né con la luce né con gli alluci. Il metatarso di San Giuseppe s’è peduncolato di inimitabile alluce nel tondo michelangiolano della Palatina (Sacra Famiglia): il qual ditone, per una porzione minima invero, ha tegumento pittorico dal ditoncello della Sposa: una luce livida e pressoché surreale, o escatologica forse, propone l’Idea-Pollice, altamente incarnandola vale a dire ossificandola, a’ primi piani del contingente: e la recupera subito a’ metafisici livori dell’eternità. Il metatarso medesimo protubera pollice pedagno rivale del michelangiolano e palatino (a signiferare il miracolo, o meglio l’audicolo della castità virile) nei Sacri Sponsali dell’Urbinate oggi a Brera. E il dito mastro, pur disunito da’ ditonzoli, alla radice l’è speronato e nocchiuto: e di poi converge all’indentro quasi obbligato dalla gotta o dalla costrizione abituale d’una calzatura momentaneamente dimessa, o direi domum relapsa come troppo fetida per l’ora delle nozze. -

 

La descrizione continua per diverse pagine in una sorta di divertissement che pare una bulimica evacuazione verbale, smodata ma accurata al limite dell’erudizione (c’est Gadda). Pagine ricche di letteratura, di creatività, che meriterebbero un posto speciale in qualche bizzarro libro d’arte.


Quando Bing Bong ci insegna ad amare

di Giovanni Scarpa.

foto 2Il penultimo film di animazione Pixar Inside out ha suscitato una serie innumerevole di articoli molto belli. E ora che si sono un po’ calmate le acque, ora che giornalisti e critici hanno fatto il loro dovere, vorrei gettare il mio piccolo sassolino.

foto 5Si, perché pochi, troppo pochi hanno posato lo sguardo su quello che per me è stato, tra tutti, il personaggio più commovente della storia dei film Pixar. Più dei toccanti otto minuti in cui si dipana l’avventura amorosa degli sposi in Up, più del rapporto d’amicizia profonda che lega Dory a Marlin, più della dedizione semplice e toccante di Crichetto, più della tensione paradossalmente umana di Wall-e, Bing Bong centra il bersaglio, ferisce il cuore con la sua allegria e il suo “eroismo affettivo”.

foto 3Bing Bong è l’amico immaginario della protagonista, il morbidoso compagno dei primi anni, dei lunghi interminabili giochi. Si trova libero e solo, ormai, nella parte più profonda della mente di Riley e anche se dimenticato, anche se apparentemente inutile, lo incontriamo e lo vediamo proprio mentre raccoglie i ricordi più belli di lei, quelli più preziosi, mentre li mette da parte in una strana saccoccia prima che gli “addetti” li eliminino per sempre. E poi l’avventura, la compagnia alle disperse emozioni, la caduta nel baratro, il sacrificio! Scene di una sconcertante drammaticità che mai ci si sarebbe aspettati dalla Disney (che un tempo avrebbe forse evitato, modificandole come la fine reale della Sirenetta di Andersen) e che pare anzi, dovessero essere ancora più esasperate, ancora più toccanti.

how-inside-out-expertly-fits-into-the-pixar-theory-like-it-s-not-even-trying-449964[1]Ecco, in questo periodo di attentati e guerra, in questo mondo in subbuglio, il personaggio creato da Pete Docter salva per noi nella sua saccoccia, una preziosa sfera dimenticata che dice: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).

Nessun personaggio dei cartoni, neanche la principessa Anna in Frozen o Flynn Rider in Rapunzel (che col loro gesto tornano infine alla vita), ha saputo dare se stesso in modo così gratuito, così totale, così dimentico di sé!

foto 1Bing Bong si dona e basta, non visto, non ricordato, come i veri eroi del quotidiano. Mi ha ricordato alcuni passi del diario di Santa Teresina o quel bel frammento di Pavese che dice: “È una vecchia sapienza, ma fa piacere averla riscoperta. Credi solo all’attaccamento che costa sacrificio: tutto l’altro è, nel migliore dei casi, retorica. Del resto Cristo – il nostro divino modello – non pretendeva di meno dagli uomini”.

foto 5Quale marito non vorrebbe poter amare così, quale fidanzato non vorrebbe potersi dare così per la sua amata. È un “amore al Destino dell’altro”, direbbe un grande educatore del diciannovesimo secolo come Giussani, che permette questa realizzazione.

Solo allora potremmo sussurrare come Bing Bong, consegnando alla Gioia chi ci sta a cuore: “Portala sulla luna per me”.


I misteriosi disegni di Chiara Bautista

di Giovanni Scarpa.

foto 4Quella della giovane messicana Chiara Bautista è un’arte che ricorda le inquietanti figure di Jaw Cooper, le leggiadre fate di Man Arenas, e che certamente riecheggia lo stile di qualche abile mangaka. Eppure nessuno come lei ha saputo attrarre per l’oscurità dei referenti e la misteriosità dei contenuti. Credo che questa illustratrice abbia rilasciato sinora solo un paio di interviste, meno del reticente Banksy, e nessuna inerente i dettagli dei suoi disegni. Perciò il sottoscritto non ha nemmeno tentato di contattarla, si è permesso di fare soltanto delle supposizioni presumibilmente intelligenti.

Innanzitutto si potrebbe dire che le sue illustrazioni (soprattutto nell’ultimo periodo) si stanno facendo sempre più monotematiche, e che sempre due personaggi, a volte un terzo, dialogano tra loro in uno sfondo fiabesco, forestale, un Wonderland. Diamogli un’occhiata.

foto 21) La donna-rabbit

Una sorta di pallida ninfa (forse emblema, simbolo dell’illustratrice), si aggira tra i boschi con una curiosa maschera da coniglietto. Non può non ricordare le intriganti pagine di Lewis Carrol, suggerire una sintonia con un arte giapponese di vaga ispirazione Miyazakiana. Cattura con grazia la tenerezza, la leggerezza, la rapidità del glauco roditore.

foto 12) Il lupo stellare

Un grande lupo nero che racchiude in se l’oscurità della notte e il bagliore delle stelle. Un ritaglio di cielo, una concrezione dell’universo. A volte sembra costituire una controparte maschile alla nostra protagonista fatata, ma più probabilmente ne è compagno fedele, amico sincero. Il classico topos dell’animale feroce, amabile compagno di un inaspettato protagonista.

foto 33) l’uomo dal teschio d’uccello

Compare più raramente, in vesti esplicitamente maschili, ed è colui per il quale la donna-rabbit sembra soffrire, gemere. È l’atteso, colui che permane nella lontananza. Noir, pulp, cyberpunk, molteplici e vaghe le sue inclinazioni semantiche.

Bautista non ha mai detto nulla a riguardo. Nonostante la ripetitività delle sue opere, l’insistenza dei fans, non ha mai svelato anche solo il canovaccio di quella che si presenta come una splendida e travagliata avventura amorosa.

foto 5Eppure la presentazione figurativa si sta dimostrando vincente, le sue misteriose immagini stanno facendo impazzire di curiosità gli osservatori di tutto il globo. Intriganti come la nebbia, misteriose come le galassie racchiuse tra le fauci dello scuro lupo, le sue illustrazioni spopolano nel web, dilagano nella Tattoo Art. Ho cercato delle possibili ispirazioni grafiche in manga come Tokyo Ghoul o Inuyasha, ma la sintesi dei vari elementi sembra frutto di un’alchimia genuina, di una personalissima visione altra della realtà.

Tocca a voi ora inseguire le ninfe, scegliere la pillola rossa, suggerire interpretazioni, pensare a vie di fuga: attendo con gioia nuove ingerenze, alternative letture.

 

(Giovanni Scarpa)

 


Il 24 gennaio visita guidata alla mostra di Congdon a Casa Testori

invito mostra congdonL’Associazione culturale Rosmini propone per domenica 24 gennaio una visita guidata alla mostra William Congdon, Pianura a Casa Testori di Novate Milanese, assieme al curatore della mostra Davide Dall’Ombra. Il programma prevede alle 11.00 il ritrovo e la visita alla mostra, alle 12.30 la Proiezione del video sull’arte contemporanea con la voce narrante di Giacomo Poretti, realizzato in occasione della mostra del Meeting 2015 Tenere vivo il fuoco, sorprese dell’arte contemporanea. Alle 13. poi ci sarà il pranzo, sempre con la presenza di Dall’Ombra. Il costo è di 10 euro, comprensivo di ingresso e visita guidata.

Per informazioni e prenotazioni: Alessia Ricci – 339 1590882, Margherita De Gan – 329 1699949.

La grande mostra del autunno/inverno a Casa Testori è dedicata al pittore William Congdon (1912-1998): artista internazionale dell’Action Painting amato da Giovanni Testori che, dalla New York degli amici Jackson Pollock e Mark Rothko, dopo aver viaggiato in tutto il mondo, decide di radicarsi a sud di Milano e dedicare la sua ultima produzione al ritratto intimo di campi coltivati, risaie e frutti della terra lombarda.

La mostra, realizzata in collaborazione con The William Congdon Foundation, punta a indagare il ventennio lombardo del maestro americano. I circa 50 dipinti e i 20 pastelli selezionati descrivono, infatti, una parabola di conoscenza sempre più intima e profonda del sud-ovest milanese, che costituisce l’apice del suo percorso.

Le stanze tematiche presentano i diversi nuclei intorno ai quali si articola la sua produzione: riemergono in una chiave nuova i nodi affrontati a fianco degli action painters, frutto di un’osservazione solo apparentemente stanziale.

Dopo le New York degli anni Quaranta, i Sahara e Santorini degli anni Cinquanta, la ricerca da spaziale si fa temporale. Protagoniste diventano la potenza della terra, delle sue trasformazioni e la mutabilità inesauribile del ciclo stagionale, delle colture e dei fenomeni atmosferici… È così che i campi sono chiamati per nome e il passaggio del tempo è fissato con la spatola tra i lunghi i solchi della pittura a olio.

Ricostruita per l’occasione, una sorta di quadreria immaginifica farà entrare il visitatore tra le visioni notturne del colore dei campi ubertosi, in una relazione intima, lirica, quando non mistica e simbolista, con la terra, l’orzo, la soia, il mais, i glicini, le violette…

Non si tratta tuttavia di visioni idilliache, perché lo sguardo di Congdon lo porta a sconvolgere l’orizzonte sui campi, che da una disposizione lineare che ricorda ancora le città, muta in un disassamento dei piani, quasi a seguire le trasformazioni telluriche dell’origine. Un tormento, anche materico, che si risolve e trova pace nelle straordinarie Nebbie che aprono la via ai monocromi, introducendo una profonda trasformazione nella percezione e rappresentazione dello spazio, del rapporto tra i suoi elementi strutturali (cielo, terra, orizzonte) secondo un’ottica sempre meno naturalistica.

Riemergono così le meditazioni sull’opera di Braque e De Staël, ma soprattutto, i confronti e dialoghi pittorici intessuti in presa diretta con la Scuola di New York di Betty Parson e Peggy Guggenheim e che hanno portato opere di Congdon nei più importanti musei di New York e alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia.

Casa Testori è in Largo Angelo Testori 13, Novate Milanese

Ingresso: 5 euro per la mostra di william Condgon
Orari: martedì-venerdì 10-18, sabato-domenica 14-20. Chiuso il lunedì e dal 24 dicembre al 1 gennaio. Dal 2 gennaio la mostra riprenderà con orari normali
Informazioni: tel. 02.36589697 info@casatestori.it | www.casatestori.it
Ufficio stampa: Maria Grazia Vernuccio tel. 02.23163426 | cell.335.1282864 |mariagrazia.vernuccio@gmail.com


Donne al telefono

CIMG8071Ne ho conosciuti alcuni. Di quelli che quando alzavano la cornetta per rispondere o chiamare, staccavano per un po’ il cervello. In quei momenti (ormai estinti dal meteorite che è stato il cellulare) il loro braccio pareva avere una vita propria e presa in mano la matita, si mettevano a disegnare. Stelle, quadrati, casette, figure amorfe o complicate, se ne vedevano davvero di tutti i colori germogliare dall’inconscio liberato, su fogli, foglietti, quaderni, rubriche.

foto 4 (1)Mai avrei pensato che Lele Vianello fosse uno di loro.

Fumettista di fama internazionale, Lele è un uomo sanguigno e simpatico che sa fare delle pastasciutte straordinarie. Vive a Malamocco tra la voce della laguna e il canto del mare, in una casa che dal salotto allo studio è foderata di libri, fogli, maschere, modellini di barche a vela: alla Dylan Dog per capirci. Ma soprattutto libri, libri illustrati: Frazetta, Rockwell, Rembrandt, N.C. Whyeth… e Hugo Pratt, naturalmente.

CIMG8073Si, perché di quella vasta combriccola che gravita attorno alla figura di Hugo (Manara, Babini, Cossi, Ongaro, Frisenda, Pellejero…), Lele è certamente il più autorevole e tenace interprete: ha saputo trarre dal “fumettaro” le linee, i tratti (anche caratteriali) più intimi, maneggia le chine e le matite allo stesso modo, e anche nella cadenza inestirpabile di veneziano, riecheggia spesso la voce del maestro. Nelle sue avventure a fumetti si respira quella che ultimamente Juan Diaz Canales ha definito “l’atmosfera Pratt” e giustamente, data la sua ventennale convivenza con il padre di Corto.

CIMG8068 - CopiaOra, nella sua rubrica telefonica (dalla copertina di cuoio logora e sgualcita) c’era qualcosa di diverso dal solito: un’arte spontanea, leggera, sfuggente.

Forse proprio perché non ricercate, non “studiate”, non volute, quelle donne sdraiate sui numeri telefonici, aggrappate ai contatti di amici e parenti, volgari e spudorate, emanavano una splendente aurea a luci rosse, spandevano nell’aria dello studio il loro sordido e suadente profumo di vita.

CIMG8072Certo ricordavano le amanti prattiane, quelle con nome e cognome che avevano illustrato le poesie del Baffo, quei nudi sparsi nelle pagine di Tango o Corte sconta, ma molto più ardite, molto più frivole. “Guarda questa” diceva mentre mi mostrava un simpatico ménage à trois “ero al telefono con Babini”.

Vedevo nudi variegati, a volte appena abbozzati, altre volte curati, sontuosi, acquerellati, che lasciavano trasparire l’anima profondamente erotica del Vianello solitario. Se fossero state poi semplici esercizi anatomici, selvatiche inflorescenze pornografiche, io non saprei dire, e forse neanche Lele. L’unica cosa certa era che quei nudi sgorgavano da una mente libera, dal vago o vivido ricordo di un amore che aveva preso possesso del suo braccio durante l’arco di una telefonata. E pensare, dissi tra me, che anche l’arte di Hugo era ricominciata in Italia (dopo il suo ritorno dall’Argentina, quando ancora Corto non era nato) proprio con una telefonata: Ring Ring è stata la sua prima mostra veneziana.

CIMG8070“Le disegno così, mentre telefono. Ormai saranno trent’anni che scarabocchio su questa vecchia rubrica”. E non solo sulla rubrica. Continuava raccontandomi di come spesso si ritrovasse a disegnare su fogli sparsi, sul retro delle tavole su cui stava lavorando. Queste donne erano, paradossalmente, una pausa nel suo mestiere di disegnatore. “Il prossimo anno spero di riuscire a raccoglierle tutte in un libro, uno sketchbook, che intitolerò Dietro la striscia”.

“È una rubrica da galera”, mi ha detto poi mettendosi a ridere, stavamo bevendo una vecchia bottiglia di Tio Pepe “vedi a me piace molto Egon Schiele”. Allora ci siamo messi a sbirciare quei nudi scabri ed essenziali, quelle linee autentiche che alla fine avevano davvero fatto finire il pittore tedesco in gatta buia. “Non preoccuparti Lele”, mi misi a dirgli, “te la compro io la rubrica”, e lo avrei fatto davvero. Solo dopo aver finito il bicchiere in un sorso, mi disse guardingo “e dopo come faccio io coi numeri di telefono?!”. Ci mettemmo a ridere: in effetti sarebbe stato un problema.

 

Il sito internet di Lele Vianello www.lelevianello.it.

 

(Giovanni Scarpa)

 


I topi del Leopardi finiscono in America

mouseguard-panini-620x350Sono pochi, purtroppo, a conoscere quel meraviglioso testo leopardiano intitolato Batracomiomachia ovvero la battaglia dei topi e delle rane. Questa traduzione da testo greco, che impegnò Giacomo per lunghi anni (sono tre le versioni rivedute nel tempo), si propone non solo come squisito esempio di perizia filologica, ma soprattutto come eccellente manifesto della sua curiosa ironia. Il testo scherzosamente epico, gli piacque così tanto che non mancò di scriverne un sequel: i Paralipomeni alla Batracomiomachia. In quella che ora potrebbe essere chiamata “sottocultura furry”, topi vestiti con elmi di noci e spade di spilli, guerreggiavano contro rane bardate di giunchi e conchiglie. Gloriosi scontri omerici, raffinate descrizioni al limite del grottesco, visioni degne di una rivisitazione Cartoon.

lv1-preview-1Strano ma vero, nel 2007 un disegnatore americano, certamente senza aver letto l’opera del Leopardi, comincia una serie di splendide graphic novel intitolate “Mouse Guard”, “La Guardia dei Topi”.

Una storia da poco giunta in Italia e che pare sgorgare direttamente dalla stessa sorgente figurativa del giovane recanatese (e dove persino i granchi, elemento chiave della Batracomiomachia, fanno il loro breve intervento).

GuardiaDeiTopiGranchiÈ toccato quindi ad allo statunitense David Petersen, e senza nemmeno saperlo, riprendere per primo in mano una faccenda ormai relegata ai salotti intellettuali, e rubarla per così dire ai soporiferi convegni filologici. Un compito che avrebbe probabilmente scoraggiato qualsiasi colto illustratore, trova invece nell’innocente fumettista americano un degno erede: segno che a volte l’ignoranza può davvero portare buoni frutti!

Davvero sorprendente la sintonia, la bizzarra e per certi versi incredibile somiglianza tra le due lontane opere.

lv1-preview-2L’intera vicenda editoriale, ancora in fase di sviluppo (e ne siamo lieti), è affiancata da un sito web www.mouseguard.net, dove il Nostro raccoglie varie bozze, disegni, schizzi.

La Guardia dei Topi racconta la piccola avventura (piccola solo nelle dimensioni s’intende) delle topesche guardie armate che difendono il popolo dei ratti. Scontri, tradimenti, armi leggendarie: tutto riecheggia con intelligente sprezzatura le grandi gesta cavalleresche delle Chanson de geste, degli antichi poemi cavallereschi. Tutto a statura di topo.

blackaxe2E se non me la sento di consigliarne la lettura al pubblico adulto, vorrei certo obbligare tutti i papà del mondo a comperare ai loro figli quantomeno il primo volume.

Pensate soltanto che Giacomo Leopardi lo avrebbe certamente scritturato.

 

(Giovanni Scarpa)


Burri solitario / Due letture / Metafora e memoria dell’atto

BURRI sparaA distanza di tre giorni, proponiamo la seconda puntata dell'articolato contributo critico di Mario Cancelli su Alberto Burri, a conclusione della grande mostra newyorkese al Museo Guggenheim.

Burri solitario

A Maurizio Calvesi dobbiamo il gustoso esercizio di definire una mappa, che leghi gli artisti italiani del dopoguerra ai loro ipotetici partner politici. Dove lo mettiamo il nostro tra i Morandi, i Guttuso, e tutti gli altri? Da nessuna parte. Un impolitico, per usare il termine di Bataille; non perché il “nero” dell’ex camicia nera si fosse stinto col tempo (il nero avanza col tempo fino a dilagare), ma perché la camicia nera era oramai sempre più stretta e consunta.

alberto_burri_6-fdd24fa227Vista dai vincitori, vista dai perdenti, la conclusione è la medesima: trattasi non di un dramma del potere ma del suo contrario, dell’impotenza. La stessa storia dell’arte americana successiva ci parla di quest’abdicare: il gesto era ormai articolo esaurito su quel mercato. Esiste un piano Marshall per l’inconscio? Quei sacchi che gli americani inviarono in Italia dopo la fine della guerra, non divennero mai simbolo di povertà: l’eleganza con la quale Burri li trattava, parla di una ricchezza non riconducibile a cause esterne. “Sfruttare il caso con sapiente controllo”: questo assioma di Burri non è il segnale che nel linguaggio, se “qualcosa avviene”, è questo il vero capitale iniziale?

combustione plastica 70033282-CAB1-11Due letture

La critica fini con l’arrendersi a una vicenda scandalosa ma ineluttabile.

Flavio Caroli distinse gli sforzi interpretativi in due campi: la lettura “formalista” di Calvesi e quella che apriva sia pure con incertezza all’inconscio, grazie al recupero dei collages cubisti (2). Possiamo chiederci se l’ombra dell’inconscio gravi sul suo cantico di lacerti e tessuti slabbrati rimasti sul catafalco di una grazia irremovibile. Quelle cuciture in bella mostra tra i nobili stracci però non cucivano ormai nulla, erano residui di suture ormai inutili in se stesse.

boscoViene da pensare a Heine, al suo rifiuto di una poesia che metta “filosofiche pezze all’universo”: Burri compie qualcosa di simile? Sacchi e cuciture non sono nemmeno simboli, ma offerte di grate memorie, confronti impliciti e deliberata polemica con la pittura contemporanea, persa secondo Burri fra cerebrali astrattismi e grossolano realismo politico. Non ci si è accorti che il supertecnolgico Burri, l’oggettuale Burri, ripete in fondo l’operazione pascoliana, cioè la consacrazione poetica delle piccole semplici cose. Gli enormi sacchi con la loro bellezza di materia e di manufatto rappresentano una sorta di myricae made in USA.

Metafora e memoria dell’atto

slide_432494_5630802_free[1]Dai “Cretti” - bianchi come saline, neri come crateri - alle “Combustioni”, abbiamo davanti sempre un teatro, ma con qualcosa del laboratorio di analisi chimica. Un convitato di pietra, un opaco nero (a volte un rosso anche lui opaco e immemore di sé) come un oppositivo supporto minaccia di trascinare giù tutto il sipario.

È un barocco scientifico, in cui la carne si fa metafora in modo analogo a quello di un reagente iniettato nelle vene, nel quale tutte le metafore stanno sospese, tra recitato e biopsia. Ferite sì, ma per nulla metafisiche, come invece quelle di Fontana, che assurgono, come gli insuperati “Cretti”, a strozzate metafore della modernità: terre solo apparentemente desolate, dove è ancora intatto il piacere della sabbia, del gesso.

19-Ex-Seccatoi[1]Nell’ex Essiccatoio di Città di Castello, dalle pareti nere, Burri creò l’ambiente per i “Cicli”. Uno spazio mistico, come fu per la Cappella Rothko, un tempio della forma per un moderno faraone? No: in queste superfici, sempre più opache, nell’apoteosi della forma, Burri dà forse luogo a un atto che recupera qualcosa di originario.

Guggenheim-Burri-rosso-gobboAssistiamo a una Bisanzio della memoria, dove una foglia d’oro fluttua fra le tonalità dei grigi e dei neri, sostenuta e condotta da geometrie che sembrano assecondate presenze. Ridotte le materie al livello zero della natura, è come se il teatro (anche i sacchi erano stati teatro) non avesse più ragione di sussistere. Nella nuova, ultima spazialità, la questione si gioca tra materia levigata e materia che diviene eritematosa.

catrameÈ possibile dire allora che questo esito aureo, recupero di una qualche dimensione ctonia, su cui cade come foglia l’oro stesso, sia memoria di qualcosa di arcaico, di originario? Il “buco nero” non è meno nero, anzi ora è invasivo, ma chi lo vede più in questa sorta di paesaggio astratto, che ricorda l’anamnesi dell’io, di ogni io?

alberto_burri_vert_5-4aeed504b6Avviene ora ciò che aveva richiesto così lunga desiderante preparazione, cioè il riemergere, il porsi di qualcosa che è originario di ogni vita. Il recupero di una materia arcaica significa la memoria di un atto primario, l’eccitamento che dà la madre al bambino?

Se sì, avremmo una Bisanzio del principio del piacere, quotidiana e gloriosa, altrimenti un nuovo capitolo del tiro al bersaglio sulla “sagoma dell’arte”.

Note:

2) F. Caroli, Burri: la forma e l’informe, Mazzotta, 1979

 

Burri: The Trauma of Painting
09/10/2015 – 06/01/2016
Solomon R. Guggenheim Museum di New York
www.guggenheim.org

 

(Mario Cancelli - 2. fine)

 


The trauma of painting. Sulla mostra di Burri al Guggenheim di New York

o-ALBERTO-BURRI-facebookIl centenario di Alberto Burri (1915-1995) offre la possibilità di nuove riflessioni sulla sua opera: una “via”, quella percorsa dall’artista di Città di Castello, individuata nei suoi momenti salienti ma ancora da definire nel suo procedere e soprattutto nella sua conclusione.

1021_FL-alberto-burri-the-trauma-of-painting_2000x1125-1940x1091La retrospettiva (la prima in trentacinque anni) che il Guggenheim di New York gli ha dedicato (si chiude il 6 gennaio) è un invito proprio in questo senso: dai “Catrami” alle “Muffe”, ai “Gobbi”, ai “Legni”, ai “Ferri”, alle “Combustioni plastiche”, agli ultimi lavori - i grandi cicli dei “Cellotex works” - l’opera di Burri è raccolta e ordinata non solo nelle fasi, vero teatro della materia, ma anche nei rapporti che essa intrattiene con le esperienze americane, analoghe quanto a elementi e soprattutto, a istanze comuni e forse da Burri portate a ulteriore chiarezza circa le soluzioni perseguibili e perseguite.

legno“The trauma of painting”, il catalogo dell’evento curato da Emily Brown, orienta ad un concetto di “azione pittorica” comune ad americani ed europei, quel “gesto” che sarebbe divenuto sì possibilità espressiva di straordinaria libertà ma anche, non in ugual misura, tramite del recupero della storia del soggetto. Dell’arte americana, Burri conferma quindi l’inevitabilità delle opzioni tentate: conseguendo un ulteriore passo nel medesimo territorio. Se già con Jackson Pollock l’”automatismo surrealista” veniva interpretato in modo da liberare l’atto da istanze sentite tra loro oppositive, con Burri l’idea di forma poteva essere portata a una nuova integrazione proprio con esse. Fin dalle “Muffe” - opere che più si ricollegano all’esperienza dell’espressionismo astratto - ai “Sacchi” (con i quali inizia il Burri che tutti conoscono), a quegli esiti nei quali alla materia è data maggior autonomia, i “Ferri”, l’idea di forma, riconosciuta da Burri intrinseca alla possibilità della materia, si lega a un riconoscibile principio di “rappresentanza” psichica, che nelle ultime opere sarà la vera partita in gioco.

Due istanze

IMG_3628Quando Robert Rauschenberg visitò lo studio di Burri - mostrando al maestro una scatoletta con dentro una mosca - fu subito chiaro che la strada di colui che avrebbe segnato l’arte americana successiva, sarebbe stata altra da quella di Burri. Il versare il colore su tronchi e assi, la reificazione dell’oggetto fuori dal quadro, fino alla sua metamorfosi in trofeo da esibire (come per gli uccelli impagliati), sembrano tante prove di un parricidio, compiuto da altri, assimilato, dal quale separasi partecipando a un qualche master, per impaginare poi, come in un notiziario, i fotogrammi della memoria individuale e collettiva.

In Burri non scorgiamo mai disprezzo, spregio, affronto o reattivo recupero di quanto negato, semmai, all’opposto, un esibito, orgoglioso, bisogno di dimostrare.

IMG_3642Con la stessa abilità con la quale Burri colpiva un piattello, così sapeva far centro con materiali che son fuori del quadro restando nel quadro, legando tra loro frammenti eterogenei in una forma che aspira a volte addirittura al sublime. Anche quando fu totalmente “materia”, l’atto creativo s’interrompe sull’orlo di una strozzata metafora, ma più convincente di una metafora compiuta. Il segreto di Burri sarà sempre quello di fermarsi un attimo prima della conclusione (ma non contro la conclusione). Nei “Cretti” tutto ciò è quasi lapidario: la materia, lasciata alle sue leggi, è bloccata prima di trascendersi in una crepa assoluta.

Materia amata, alla quale Burri si lega è da cui è detto.

Guggenheim-Burri-grande-ferroL’imprescindibile biografia intervista di Stefano Zorzi (1) ci racconta e delle fughe da scuola per dare sfogo alla passione per il gioco del calcio e dell’amore per il greco. Un livello basso e un livello alto, mai veramente in opposizione tra loro. A questi dobbiamo l’interminato epos di materia e forma? Saranno gli esiti ultimi, le oniriche condensazioni dei “Cicli”, la reiterata e semplice libertà di aggredire la materia, di trattarla, a spingerci oltre, quasi che grazie ad essi Burri fosse pervenuto alle ragioni o ai principi primi del suo stesso epos.

(1) Stefano Zorzi, Parola di Burri, Allemandi, 1995.

 

Burri: The Trauma of Painting
09/10/2015 – 06/01/2016
Solomon R. Guggenhein museum di New York
www.guggenheim.org

 

(Mario Cancelli - 1. continua)

 


Sulla misteriosa firma di Queequeg

illustrazione queequegChe la figura tatuata di Queequeg nel Moby Dick di Melville, incarni l’intrigante esotismo fascinoso e terribile del selvaggio, l’innocenza montaigneana dell’uomo naturale, non è certo cosa sulla quale vale la pena tornare a discutere. Si potrebbe forse enfatizzare il suo indispensabile coinvolgimento nella vicenda narrata: la sua fraterna amicizia con Ismaele, l’abilità di ramponiere, altruismo impressionante... Ma nemmeno di questo parleremo. Perché se c’è un luogo del romanzo che ha catturato inesorabilmente la mia curiosità è il capitolo diciottesimo a lui dedicato: His mark [il suo segno].

ILLUSTRAZIONE queequeg a letto con ismaeleDopo un bizzarro scambio di battute tra i capi barca, viene chiesto al Nostro di apporre la sua firma o un suo segno sul contratto e si legge allora: «presa la penna che gli veniva offerta, riprodusse nella carta, nel posto appropriato, l’esatta copia di una bizzarra forma rotonda [an exact counterpart of a queer round figure] che aveva tatuata sul braccio».

La maggior parte delle edizioni esistenti riportano quindi l’immagine di una piccola croce greca.

queequeg in mareEd è evidente già ad una prima occhiata come il segno in questione, la mark di Queequeg, non possa essere tale, tuttavia in nota il curatore della versione Feltrinelli A. Ceni giustamente precisa: «la croce stampata nella prima edizione americana e in seguito sempre più o meno riprodotta in ogni altra edizione successiva e ovunque adottata, non è “una bizzarra forma rotonda” e fu probabilmente impiegata dal primo tipografo in sostituzione delle figura che Melville aveva disegnato nel manoscritto».

La questione si fa intrigante: Melville nel suo manoscritto ha riprodotto il mark, la firma di Queequeg (nonché il suo tatuaggio), che poi, già dalla prima edizione, non è stato adottato. Qual era questo segno? Cosa rappresentava realmente?

foto (2)Anche volendone ammettere una versione curvilinea, rimane inconcepibile la possibilità che una qualsiasi croce fosse tatuata sul braccio eretico del ramponiere, perciò il primo editore deve aver scelto questo simbolo tipografico per comodità di stampa.

Nel testo di C. Caramello dell’83 intitolato Silverless mirrors: book, self and postmodern american fiction, nella sezione dedicata al capitolo in questione si legge: «this mark copied from the indecipherable and indeed imaginary text of Queequeg’s body is forever lost to us». Sembrerebbe quindi che l’originale manoscritto di Melville sia andato definitivamente perduto (clichés della filologia moderna).

firma queequeg ediz 2015Tuttavia in alcune recenti versioni del testo, basti vedere l’edizione 2015 curata da Bishop per la casa editrice Dover, il mark di Queequeg si trasforma in una sorta di simbolo dell’infinito.

Film firma queequegE già nel film Moby Dick del ’56, questa ipotesi si era trasformata in opportunità scenografica quando la cinepresa indugiando sul segno ora a forma di balena, preannunciava l’incontro fatale con Moby Dick.

Tuttavia la scelta grafica del testo e del cinema rimane ingiustificata (almeno da quello che sono riuscito a scoprire fin’ora...).

Che abbiano trovato il manoscritto originale con il mark disegnato da Melville? Se sì, allora perché non viene esplicitato almeno in nota data l’importanza che il simbolo ha nel testo? Dico importanza, perché questo è l’unico “ripiego” grafico non letterario che il racconto iper-descrittivo di Melville si concede. Avrebbe potuto benissimo descriverlo minuziosamente, come descrive la sagola o il cervello del capodoglio nei successivi capitoli, invece lo disegna.

Se dunque il disegno edito in queste versioni fosse quello realizzato da Melville, il mio scritto chiuderebbe qui, ma se così non fosse, mi si conceda allora una (certamente superflua) ipotesi alternativa.

tupai kupaLa suggestiva proposta di Sanborn, che la figura di Queequeg sia stata ispirata da quella di Tupai Cupa ritratto nel volume The New Zealanders edito nel 1830, sembra molto convincente (problema affrontato anche nel libro Tattooing the world di Juniper Ellis). Il volto del neozelandese, da egli stesso disegnato, avrebbe così certamente fornito uno spunto originale allo scrittore americano. Perché non supporre allora che, in analogia con il volto, il simbolo utilizzato dal ramponiere fosse una sorta di “spirale” moko? La figura sarebbe conforme alle caratteristiche di circolarità e bizzarria fornite dallo scrittore e potrebbe benissimo trovarsi sul braccio di Queequeg. Perché altrimenti utilizzare il simbolo dell’infinito non usuale tra i tatuaggi tribali?

Il segno dal canto mio rimane ancora misterioso, un unico segno come un rampone scagliato dal primo rematore che ha catturato e cattura la mia attenzione… certo la lettura continua, Achab sale a bordo e si parte. Ma su quel braccio, quel robusto braccio da ramponiere, rimane ancora un vuoto.

Vogatori dell’immaginario, aiutatemi a colmarlo, chissà che non tocchi a voi l’oncia d’oro spagnolo fissata dal capitano sull’albero maestro.

 

(Giovanni Scarpa)