Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo

Quel che abbiamo ricevuto suscita ancora interesse in noi? Come può tornare ad essere attraente? È il tema del Meeting di Rimini di quest’anno.

Quando Faust, il protagonista del capolavoro di Goethe, osserva la sua stanza degli esperimenti, nota amaramente: «Vecchio alambicco che non ho mai usato, sei qui solo perché ti ha usato mio padre; vecchio rotolo, ti sei annerito mentre fioca la lampada fumava sul leggio. Quel poco che possiedo l’avessi scialacquato, invece di sudare sotto il suo peso».

E infine conclude: «Quel che non giova, è un carico pesante».

Quel che abbiamo non dura solo grazie all’inerzia. Non è una questione religiosa. La nostra vita, gli affetti, le nostre stesse libertà possono svanire. Ce lo rammentano le insicurezze che stiamo attraversando, che penetrano nelle nostre vite gettando un ombra su quanto abbiamo dato per scontato, su quel che i nostri predecessori hanno costruito.

A meno che tutto ciò che già teniamo nelle nostre mani non ridiventi nostro. Che lo afferriamo nuovamente, con le nostre energie e la nostra fatica. Nelle parole di Goethe, «Ciò che hai ereditato dai tuoi padri, riguadagnatelo per possederlo». È dunque una questione di libertà: sia per chi offre un tale tesoro, sia per chi lo accoglie. In altre parole, è una questione di educazione.

L’Associazione culturale Rosmini, proprio in un tempo di incertezza come il nostro, vuole discutere della sfida che riguarda tutti: trasmettere il meglio di sé e di ciò che abbiamo incontrato, in un modo interessante e attuale, al passo con le circostanze che attraversiamo.

Affronteremo il tema con chi se ne occupa, per lavoro e per passione, ma innanzitutto lo vive sulla pelle: rav Aharon Adolfo Locci è il rabbino della comunità di Padova; il musulmano egiziano Wael Farouq vive e insegna all’Università Cattolica di Milano; Michele Visentin dirige l’istituto scolastico Maria Ausiliatrice di Padova. E infine ne parleremo nel luogo più simbolico: il museo della Padova ebraica - l’antica sinagoga della città, riguadagnata - appunto - alla città dopo essere stata distrutta negli orrori del secondo conflitto mondiale.

L’appuntamento è per domenica 9 luglio alle 18.30, in via delle Piazze 26.

Scarica la locandina dell’incontro.


Tsuba: essere in guerra e sentirsi a casa

“Ti ho ricordata quando le lance s’abbeveravano di me e le bianche lame d’India stillavano il mio sangue. E ho amato il bacio delle spade, perché brillavano come i denti tuoi nel sorriso” (Antara Ibn Shaddād)

di Giovanni Scarpa. C’è un momento, un momento preciso in battaglia, nelle guerre di ieri come in quelle d’oggi, durante il quale il pensiero va alla cosa più cara. Torna a casa, dalla madre, dalla moglie. Torna alle piccole cose. Un momento durante il quale si procede come Eldred nel poema guerresco di Chesterton che pur “avanzando con furia distruttiva […] ripeteva la nenia di una preghiera infantile cadenzata come il suono lontano di campane, in cui si lodava Dio per il cibo buono, per le messi e per il tempo di pace”. Un momento nel quale, come nelle belle scene de Il Gladiatore, il tempo si dilata e fa emergere l’odore del grano, il rumore degli zoccoli dei cavalli sul terreno battuto, il sorriso di una donna.

Ora se esiste uno spazio, un luogo artistico nel quale questa tensione è racchiusa e rappresentata, si tratta certamente dello Tsuba.

Tsuba è il termine tecnico giapponese con il quale si identifica la guardia della spada (Katana). È un elemento perciò protettivo e spesso secondario nel complesso di cose che danno vita ad un guerriero, o nel nostro caso ad un samurai, ma come pochi altri (e penso in particolare al Netsuke giapponese) testimonia quel ritorno, quella nostalgia suprema che è il cuore del nostro discorso. Occorre anzitutto ammettere che anche l’oplologia occidentale ha dato un proprio personale contributo all’“estetica delle guardie”, e si pensi soprattutto a quelle a crociera, a quelle a tazza spagnole, o a quelle delle schiavone veneziane. E tuttavia il Bushido giapponese, la via del guerriero, non solo è riuscito a costituire nei secoli un imponente corpus materiale e storico di tsuba (dando luogo a vere e proprie scuole, genealogie di maestri, officine specializzate); ma è riuscito ad instillare, a cesellare in questa piccola lamina di metallo i tratti tangibili e pulsanti di un affetto, di una familiarità con il reale, di una cura per le cose tipici della “filosofia” e delle religioni orientali.

Non si tratta insomma di un mero indicatore d’appartenenza come potrebbero essere le incisioni nei calci delle colt per i cowboy o le stravaganti immagini dipinte sulle carlinghe degli aerei da caccia: è un atto memoriale che lo tsuba racchiude, un gesto per così dire anamnestico.

Non è difficile allora immaginare quale particolare commozione dovesse provare un samurai, intravvedendo per un istante durante un combattimento o sogguardando a lungo nel corso di una passeggiata, le carpe del proprio stagno incise nella guardia della spada al suo fianco; o ancora l’immagine d’un pozzo, delle foglie di bambù, dello stemma della sua casata. Quale pace scorgesse nelle onde del mare in rilievo sul suo tsuba scuro, quale forza traesse dalla tigre in bronzo che vi si affacciava, dal dragone d’oro che vi s’insinuava tra le nubi. Piccoli capolavori di metallurgia che sanno spesso coniugare in leggerezza la materia pesante del ferro, in morbidezza la natura inflessibile dell’acciaio.

È in particolare durante il governo degli shogun Tokugawa (1603-1868) che gli tsuba giungono al massimo splendore artistico, al raggiungimento dell’assoluta armonia tra l’utilità pratica e la pulsione decorativa, all’eleganza raffinata e austera della nobiltà. E impossibile a riguardo è non ricordare il lavoro di Kano Natsuo, maestro indiscusso e celebre nell’arte di raffigurare proprio il quotidiano.

Certo questi piccoli “reperti” artistici (il diametro medio si aggira intorno ai 6 cm) sfiorano le note profonde e luminose di un sentire comune, trasformano con ineguagliabile tatto e leggerezza la normalità del quotidiano nella sacralità del vivere e ricordano al sottoscritto (così come gli Haiku) le brevi e tese poesie dell’Ungaretti. Perché nel cuore del poeta come in quello dei samurai doveva vibrare una voce comune in battaglia e diceva: “Non sono mai stato/ tanto/attaccato alla vita”.

 

 

P.S.

Uno dei primi e più importanti studiosi internazionali nel settore è stato senza dubbio Sasano Masayuki che ha contribuito alla catalogazione allo studio di questi “reperti” nelle poche preziosissime pubblicazioni a riguardo, mentre la storia italiana riserva una piacevole sorpresa. Il museo Stibbert a Firenze vanta infatti una imponente collezione (850 tsuba) presentata per la prima volta negli anni Settanta da un orientalista d’eccezione, Fosco Maraini (in F. Maraini, Note sull’elsa della spada giapponese) e ripresentata poi agli inizi del secondo millennio da Francesco Civita (in F. Civita, Le tsuba della sezione Giapponese del museo Stibbert).


Progetto: un futuro per i cristiani di Erbil

Nell’autunno 2016 la piana di Ninive, invasa dall’Isis due anni prima, è stata liberata. Ma per le popolazioni di quel territorio il ritorno alla proprie case e la ricostruzione di una vita civile non è ancora possibile. L’esercito del califfato ha lasciato dietro di sé cumuli di macerie; case, negozi e chiese devastati. I cristiani in particolare hanno trovato ogni simbolo religioso fatto a pezzi, ogni statua decapitata, montagne di libri bruciati, i campanili abbattuti, le croci fatte cadere dai campanili; tutte le loro case sono state saccheggiate, molte bruciate, altre distrutte.

Padre Jalal Yako, sacerdote rogazionista nativo di Qaraqosh, è uno dei responsabili del più grande campo profughi cristiani che si trova ad Erbil: lavora infaticabilmente per tenere viva la speranza della sua gente che un futuro migliore e più sereno non sia una illusione. Nella sua attività la rinascita di un tessuto umano e sociale procede contemporaneamente alla ricostruzione dei luoghi concreti dove la vita possa rifiorire.

L’incontro casuale con lui nel corso delle nostre attività artistiche ha generato una iniziativa che è diventata progetto ed è ora in via di realizzazione: padre Jalal ci ha chiesto di aiutarlo a ricostruire la sua chiesa, perché i segni materiali della fede, simbolicamente violentati (statue con testa e mani mozzate, tabernacoli e altari distrutti) siano sostituiti con nuove opere fatte con creatività e amore, segno della Bellezza di Cristo che ha vinto la morte.

Per il Santo Natale 2016 la chiesa di Erbil ha ricevuto un bel presepe in terracotta realizzato dalla scultrice Oriana Sartore.

Padre Jalal, incoraggiato da questo gesto di fratellanza e condivisione ha quindi segnalato il bisogno che la chiesa della sua parrocchia, dedicata alla Trasfigurazione, avesse una nuova pala per l’altar maggiore.

L’opera è quasi terminata: ma non pochi sono i costi per la sua realizzazione e per la spedizione a Erbil.

La condivisione di questa iniziativa è un modo concreto e importante affinché i fratelli che vivono in una terra tanto martoriata non si sentano soli e abbandonati. Il sentirsi ricordati è per ognuno di loro motivo per alimentare la speranza e la fiducia che la costruzione di un mondo migliore sia possibile per loro come per noi.

Aggiornamento del 2 giugno 2017:

Inaspettatamente si sono aggiunti compagni di cammino, non su contributi finanziari, ma artistici: un amico pittore, Flamini Zullo, si è sentito provocato a mettere a disposizione la sua arte. L’isis ha fatto scempio ma infaticabilmente si risorge…

Insieme alla pala per l’altar maggiore manderemo anche una ‘Madonna della Tenerezza’ che è in corso d’opera in questi giorni.

Riassumiamo di seguito i costi complessivi e le operazioni necessarie per portare a termine l’operazione:

  1. 4 formelle in terracotta, lavorate in altorilievo, lucidate e dipinte:
  • Materiali e costi per la realizzazione, la cottura, la rifinitura: euro 300
  • Struttura autoportante in alluminio smontabile: offerta da privato

Materiale per imballaggio e spedizione:

  • 4 casse compatibili con le dimensioni delle formelle, e relativo materiale per imballaggio:
    • Gesù cm. 77x53 kg. 16
    • Mosè cm. 47x58 kg.11
    • Elia cm. 47x59 kg.10
    • Pietro cm. 55x57 kg.12
    • Giovanni e Giacomo cm. 70x56 kg.20
  • Contributo per i colori speciali per icone per la realizzazione della tavola dipinta
  • Costi di spedizione a Pisa, dove verranno imbarcati a cura dell’aereonautica militare: non ancora quantificati

Avendo presente che le condizioni di vita della comunità di Erbil sono, come in tutto il territorio della piana di Ninive, estremamente precarie, eventuali fondi raccolti in eccesso verranno consegnati comunque a padre Jalal in persona.

 

Progetto a cura di Emanuela Centis, Oriana Sartore e amici

 

Nel video: padre Jalal rientra nella sua chiesa a Qaraqosh


Un ostinato e comunicativo ottimismo. Chase a Ca’ Pesaro

di Mario Cancelli. Figlie (o figli): così comincia e così chiude la bellissima mostra William Merritt Chase (1849-1916): un pittore tra New York e Venezia alla Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro. Le opere dell’“impressionista americano” si sono potute ammirare dall’11 febbraio al 28 maggio.

William Merrit Chase ci accoglie con “La giovane orfana” (1884): una fanciulla afflitta dai capelli rossi che le incorniciano il volto, abbandonata sul divano. Un ritratto bellissimo: alla domanda se per lei ci sarà un domani risponde lo sfondo rosso, caldo e rassicurante, e ci si accorge che un ottimismo impavido accarezza l’infelice ma non troppo, garantendole l’abbraccio di una ricchezza che sarà forse anche interiore, ma di certo esteriore lo è. Qualcuno pagherà la retta del collegio e le vacanze, la ragazza non è senza dote.

Si può già anticipare che realismo, ottimismo, entusiasmo e una fiducia quasi esaltata nelle forze della natura (umana) sono il passepartout di William Merrit Chase, della cui produzione Ca’ Pesaro ci ha offerto per la prima volta un’ampia antologica.

Un uomo della frontiera, Chase, ma la sua personale frontiera diceva ineluttabilmente Europa, e lui la percorse in lungo e in largo, con incrollabile volontà d’imparare. Egli prese tanto dall’Europa, dai fiamminghi e dai veneziani del Rinascimento, ma vi portò qualcosa che l’Europa non aveva più.

L’orfana di Chase è costitutivamente lontanissima dalla fanciulla malata di Munch: per lei è possibile immaginare una guarigione dopo la prova della vita, la nevrosi sembrerebbe di là da venire e soprattutto non appare tema socialmente interessante. E come accanto a Manet possiamo pensare - immaginare Mallarmè, il realista che “sfiora” con astuzia narrativa l’inconscio, Chase sembra invece rimandare a novellatori come London, a patto di accorgersi che i suoi personaggi si muovono non più nello spazio pseudo naturale da conquistare, ma nelle già conquistate uptown, nell’habitat di quelle dinastie borghesi dalle quali egli ottenne il riconoscimento delle sue innegabili e non servili virtù pittoriche.

E oltre che ai tardo romantici, Chase fa pensare a Henry James, a quella colonia di americani, stranieri in patria e naturalizzati europei, che peraltro mai si radicarono veramente nei drammi del vecchio mondo. Forse per tale benevola estraneità la ricchezza americana di questo periodo è qualcosa che ancora oggi fatichiamo a comprendere.

Ma se Chase si permette l’impossibile (colloca leggiadre signore e signorine in una natura americana che di nome fa Long Island, desublimizzata e addomesticata in vista degli “ozi estivi”), tale azzardo è reso possibile dalla sua ingenua dovizie di mezzi e di speranze: non si tratta certo di una scommessa pascaliana o di un goethiano patto con il demonio, egli permette alle figure di attraversare il mar dell’essere senza temere naufragi.

Tra questi quadri, si è portati a considerare quanto dovesse essere piacevole stargli vicino o divenire suoi discepoli nelle tante scuole che fondò o nelle quali insegnò. L’Armory show, cioè l’evento che rese legittime le avanguardie europee negli Stati Uniti (1913) dichiarerà la fecondità della tranquilla lotta di questo alfiere della modernità, tre anni prima della sua morte.

In ogni suo iter o tour formativo, Chase si appropria immancabilmente qualche piccolo capitale pittorico che frutterà in futuro. Le sue nature morte di scuola fiamminga sono prove di forza che sfiancano più l’osservatore, che l’autore: le bianche e smisurate razze eredi di Chardin s’impongono con autorità sulla concorrenza e le brocche di rame rivaleggiano sul tavolo con anfore antiche di perduti templi ellenici, mentre civettuoli bicchieri cercano spazio davanti al candido latte. Il gigantismo dell’oggetto non spegne anzi aiuta piacevoli triangolazioni tra frutti dalla tenera materia e sontuosi grappoli d’uva che debordano dal piatto. Una prova di forza, quella che Chase ingaggia con i maestri, che sul momento non ha futuro, ma che anticipa quella dei decenni successivi, quando si imporrà la totemica energia dell’espressionismo astratto.

A quest’autore le mode non stanno mai strette, né soccombe del tutto alla loro forza seduttiva. Il giapponesismo gli offre panneggi e vesti in cui dimostrare la sua puntigliosa e calvinistica vis descrittiva, cosicché per le signore immortalate la “posa” ambita diviene più test di successo sociale che celebrazione estetica. In fondo, Merritt Chase non anticipa lo Warhol dei ritratti, pittorici e fotografici, che offrirà agli svagati interpreti del successo mondano una gloria nella quale effimero ed eternità non sono più distinguibili?

Quando poi qualche ricca signora si sottrae all’ebetismo sistemico dello sguardo tipico delle dame di Chase, allora si arriva a pensare che le presentazioni sarebbero state un vero piacere. Questa è pittura di civiltà, con tutti i suoi pregi e difetti, non certo il dramma storico di una ritornante barbarie che s’incastona nel bizantino e sublimato oro dei ritratti del contemporaneo Klimt. Qui, è un ostinato e comunicativo ottimismo a rendere felice per un istante l’universo.

Ma anche per Chase verrà il momento in cui le istanze messe in campo perverranno al loro esito inevitabile. Sono lontani i cappellini delle signore di Monet, come tracce di rossetto sulle guance della Natura: tolte le sue luminose figure, ci si rende conto che in Chase i cieli incombono freddi e totalitari, le nuvole non parlano di romantici abbandoni, ma preannunciano le fortezze volanti delle catene dei significanti lacaniani in cui tutto presto precipiterà. Il secolo delle avanguardie abbandonerà infatti l’en plein air per un’autonomia formale (in quanto psichica) da ciò che può insidiare il primato dell’io.

Nella sua vicenda personale e privata, sempre trasferita con immediatezza sulla tela, Chase giunge inconsapevolmente a una dirimente soglia. Infatti Chase non può che tacere dei genitori dell’orfana che apre la mostra, e tace ovviamente dei loro disastri: ma in “Nascondino” (“Hide and seek”, 1888) dove raffigura le sue figlie bambine, egli raggiunge per un istante la scena di quel dramma familiare che sarà paradigma del Novecento.

(Mario Cancelli)

 

WILLIAM MERRITT CHASE (1849-1916) un pittore tra New York e Venezia

Ca’ Pesaro – Galleria Internazionale d’Arte Moderna

11 febbraio – 28 maggio 2017


Motherwell alla Galleria d’Arte Maggiore di Bologna

di Mario Cancelli. La storica bolognese Galleria d’arte Maggiore, posta all’inizio di via d’Azeglio e che riassume le memorie di un passato che giunge fino al Duecento, offre con sorpresa una significativa scelta di opere dell’artista americano Robert Motherwell. La prima, forse, dopo il confronto con Jackson Pollock, promosso dai curatori del Guggenheim veneziano, un vis-a-vis irripetibile per l’immensità delle due tele, sorpassata forse solo da Guernica, che le genera e in loro si rigenera. Nella sala primaziale del museo, infatti, più che a un match si compie la definitiva spartizione delle due anime, se così si può dire, dell’espressionismo astratto o, secondo la definizione che noi preferiamo, dell’Action painting. Di questo parleremo più avanti.

La piccola ma selezionata mostra bolognese testimonia le tappe di una carriera che fin dall’inizio si trovò implicata e poi perennemente in bilico fra le istanze opposte di un surrealismo che lasciava ai suoi adepti totale carta bianca, senza peraltro risolvere il quesito fondamentale che lo giustifica: l’inconscio. La lezione di Matta segnò certamente il modus recipientis (ed operandi) di Motherwell: un surrealismo che guarda a Bataille più che a Breton, cioè a un capovolgimento ad oltranza dei valori. Presupposti cui il maestro cileno associa una dimensione etnica, fantastica e totemica, che Motherwell non poté mai fare sua, fedele sempre e comunque a un lirismo sentito come essenza dell’arte e dell’io.

Che non sia una questione di formalismo lo proclama la lunga pratica di Motherwell del collage, prima “maniera” dell’avanguardia europeo; ingenua e potente esperienza nel rinnovamento del canone e sincera dedizione al principio primo di Breton, quello del primato dell’inconscio, comunque esso sia concepito. Collage come ultimo stadio della rivoluzione romantica, che iniziò con il concetto di geroglifico, concrezione da liberare nel linguaggio, dissolvimento che non si arresterà nemmeno davanti al non sense. Le ragioni del lirismo romantico sono qui. Una liberazione senza tregua dalle leggi, fino a giungere a un intangibile punto zero, a ciò che è significato perché lo incarna oltre ogni possibile “senso”: il simbolo, senso a se stesso.

I successi di Motherwell su questa strada sono noti. Peggy Guggenheim promosse e pretese un discepolato in questo senso che Motherwell ottemperò con dedizione ed entusiasmo. Forse è proprio qui da verificare se Motherwell abbia operato uno scarto rispetto a questa costituzione simbolica, vista l’abilità nel giocare i “materiali” con particolare attenzione al dato sperimentale e al mondo della memoria. Il Proust del collage, potremmo dire, per l’utilizzo di carte e lettere, in una superficie chiara, tutta da aprire, da leggere. L’occasione bolognese ci offre un testo in cui tutto ciò sembra riassumersi: quella “Star of David” (1976) in cui il simbolo sembra resisterà all’azione corrosiva dei significanti, farsi piccolo, quasi marchio o sigillo di una memoria in atto. Si tratta di una “resistenza” ma anche di un compito, liberare il simbolo senza rimuoverne l’istanza che lo nomina, istanza e legge in Motherwell sempre della forma.

Lo si coglie proprio quando Motherwell, grazie all’Action painting, si autorizzerà al “gesto”, dando vita a macchie di pigmento gettato sulla superficie della tela, per le quali è giustamente riconosciuto, sua cifra psichica e poetica; esse però vivono e convivono con il loro opposto, il nuovo patrimonio di sagome rispetto al quale sembrano come schizzi di calamaio caduti dal pennino. D’altronde ben altro mondo è quello dei “neri” di Klein, posti come travi o tavole bibliche dell’inconscio e del gesto; o le stesse “black paintings” di Pollock, nelle quali la memoria irrompe con i suoi fantasmi in una lirica tessitura astratta.

L’evento del Guggenheim: il fronteggiatesi o meglio il guardarsi di sottocchio dei due teleri. Tra “Mural” di Pollock e l’“Elegy” di Motherwell non sembra esserci occasione di colloquio, tanto essi incarnano due modi, come si dice all’inizio, di concepire l’inconscio. Il primo riconducendo la storia collettiva alla vicenda individuale (sono i passi dell’individuo quelli che Pollock, senza più filtri rappresentativi, agisce sulla tela) e quella opposta, il tentativo di Motherwell di comporre e sedare il proprio conflitto, psichico e quindi poetico, con ulteriori eventualità. Non a caso “Elegy” è ispirato alla di Spagna, guerra civile mondiale si potrebbe dire. In tal modo riaffiora quell’esterno, quel "primato del sociale" che in Guernica veniva invece ad essere riassorbito nel “romanzo familiare” di Picasso, torero egli stesso, primo torero, piuttosto che militante.

Freud contro Lacan, visto che la partita sembra oggi restringersi alle due opzioni accennate: primato della struttura linguistico sociale o recupero dell’elaborazione autonoma dell’individuo, nella patologia o nella sanità.

Felicità dell’elegia, e debolezza, perché incompiuta e consolatoria, dell’ideologia, questa in causa, politica o anche altre, addirittura mistiche.

Cosi sembra definirsi l’ambivalenza di Motherwell. La mostra bolognese conferma come l’elegia si faccia veramente libera quando il dualismo si scioglie dal suo guscio protettivo. Piccoli gioielli, quelli selezionati da Alessia Calarota, come la serie degli “Untitled” o i ricapitolativi “Automatism” , “Black image with ochre”, i quali giustificano con dolcezza e impeto una visita alla galleria nella inesauribile, quanto a bellezza, via d’Azeglio.

 

Robert Motherwell, GALLERIA D’ARTE MAGGIORE, fino al 28 maggio.


1516, il primo Ghetto. Storia e storie degli Ebrei veneziani

È stato il primo ghetto della storia, ma nella sua storia ha assunto un significato e un vissuto radicalmente opposti rispetto al messaggio negativo impressogli specie dalla barbarie nazista, e simbolicamente identificato in quello di Varsavia. Quando la Serenissima istituisce il ghetto, cinquecento anni fa, dà vita a un’esperienza di reciproca contaminazione che per quasi tre secoli caratterizzerà una realtà unica nel suo genere. Di questo straordinario percorso si parlerà

giovedì 6 aprile alle 17.30
nella sede del Museo della Padova Ebraica

via delle Piazze 26, Padova

in occasione della presentazione del libro di

Francesco JORI
1516, il primo Ghetto - Storia e storie degli Ebrei veneziani
(Edizioni Biblioteca dell’Immagine)

Iniziativa a cura dell’Associazione culturale Antonio Rosmini, del Museo della Padova Ebraica e di CoopCulture.

Dopo il saluto del presidente dell’Associazione Rosmini, Andrea PIN, ne parleranno

Enzo PACE, docente di Sociologia delle religioni all’Università di Padova,

Gadi LUZZATTO VOGHERA, direttore del Cdec di Milano, il principale istituto italiano di storia e documentazione dell’ebraismo contemporaneo

Sarà presente l’AUTORE.

Il libro di Jori prende le mosse dalla scelta di Venezia che va controcorrente rispetto a tutte le grandi potenze dell’epoca: la Serenissima li tiene, sia pur assegnando loro una zona specifica della città. Nasce da lì una storia che propone uno spaccato di una Venezia in cui convivono razze, fedi, mestieri, tipi umani e stili di vita diversi, e nella quale il Ghetto rappresenta un singolare universo limitato nello spazio ma affollato nelle situazioni.

Dai 700 abitanti iniziali si passa a 5mila, il che dà vita a una singolare sky-line con case alte fino a sette piani. Uno spazio in cui si prega e si fa festa, si studia e si sgobba, si osservano i riti e si ricevono visite di tutti i tipi. In un simile contesto si sviluppa un intenso rapporto tra ebrei e veneziani, che poggia su due grandi pilastri: l’economia, attraverso l’attività ebraica dei banchi di pegno, ma anche la cultura, con la straordinaria stagione del libro.

Nelle pagine del testo gli eventi principali si intrecciano con la narrazione della vita quotidiana, documentando il grande contributo della comunità ebraica al luogo in cui vive.

 

Scarica la locandina.


Romanae Disputationes, 3.000 studenti duellano a colpi di argomentazioni filosofiche

Dopo la lunga preparazione cominciata a novembre con le lezioni di Carlo Sini e Carmine Di Martino, venerdì 17 e sabato 18 marzo a Roma nell’Aula magna della Pontificia Università di San Tommaso 900 studenti degli oltre 3000 partecipanti si riuniranno a Roma per la convention finale di Romanae Disputationes, concorso nazionale di filosofia per licei.
Ragazzi da tutta Italia sono stati guidati dai loro docenti e da importanti professori del mondo accademico a riflettere sul tema “Logos e techne. Tecnologia e filosofia”. In questo mondo che viaggia alla velocità dei social e dove la tecnologia invade ogni aspetto della vita, tanti studenti hanno deciso di cogliere la sfida di fermarsi un attimo a pensare e valutare ciò che a loro sta accadendo, i vantaggi e i punti critici di un nuovo mondo che sta emergendo.
I 900 finalisti si prepareranno all’ultimo affondo, alla sottigliezza vincente e alla dimostrazione inconfutabile attraverso le lezioni di grandi professori, per affrontarsi nelle sfide dialettiche degli Age contra e per la premiazione dei migliori elaborati dei team junior e senior.

Non solo filosofi tra i docenti-allenatori. Interverranno tra gli altri Francesco Profumo, presidente della Compagnia di San Paolo; Roberto Mordacci, preside della Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano; Antonio Petagine, ricercatore della Fondazione RUI; Pietro Toffoletto, docente e musicista; Costantino Esposito, docente di Storia della Filosofia all’Università di Bari; Adelino Cattani, docente di Teoria dell’argomentazione all’Università di Padova. Esposito e Cattani presiederanno le premiazioni insieme a Francesco Botturi, prorettore dell’Università Cattolica di Milano.

 

Il Concorso

Ideatore e direttore del Concorso RD 2017 è il professor Marco Ferrari, tra i dieci finalisti del primo Italian Teacher Prize del MIUR. Il Concorso è promosso da ToKalOn-Didattica per l’Eccellenza, in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore, l’Istituto Toniolo, Loescher Editore, Laterza editore, la Fondazione Rui, i corsi post-diploma Set Up, la Fondazione De Gasperi, l’associazione Diesse e con il patrocinio dell’Università di Padova.

Il Concorso nazionale di filosofia per studenti della secondaria superiore Romanae Disputationes intende risvegliare l’interesse alla filosofia e sviluppare le capacità critiche e dialettiche negli studenti, attraverso un percorso di studio e di confronto, aperto a tutti gli orientamenti culturali, in collaborazione con il mondo universitario, ponendo a tema le grandi domande che la filosofia offre all’uomo contemporaneo.

ToKalOn-Didattica per l’eccellenza è un’associazione di docenti di scuola superiore, ricercatori universitari e liberi professionisti, nata nel maggio 2012 per realizzare percorsi didattici d’eccellenza, specifici e complementari ai curricula formativi tradizionali della scuola primaria, secondaria inferiore e superiore e della formazione universitaria e postdiploma.

 

Il sito internet delle Romanae Disputationes http://romanaedisputationes.com/

La pagina Facebook delle Romanae Disputationes www.facebook.com/RomanaeDisputationes/


Rondoni a Padova presenta "La natura del bastardo"

Giovedì 16 febbraio alle 18.00 al Mondadori Bookstore di Piazza Insurrezione, 3 a Padova Davide Rondoni presenta il suo libro di poesie “La natura del bastardo”.

Un vero e proprio formidabile accendersi, e poi riaccendersi, di frammenti vitali, in un coacervo di esperienze, di impressioni forti e contraddittorie, di amore vario eppure ininterrotto, in un rapporto costante e diretto con il reale, nella contemporaneità, che non lascia tregua al lettore.

Davide Rondoni tocca con questo libro il punto di più persuasiva tensione nella sua ricerca poetica, che si propone come fortemente innovativa pur senza programmarsi come tale. Innovativa perché riesce a cogliere, dalla dimensione anche apparentemente banale dell’esistere e dalla normalità del linguaggio piano della comunicazione, gli strumenti e gli spunti per una riflessione implicita continua sulla dimensione umana, non senza i felici effetti di improvvisi stacchi verticali.

Rondoni ci offre dunque i suoi viaggi nella quotidianità del molteplice manifestarsi dell’amore, con la capacità di attraversare il buio dell’esperienza e delle cose e di farle trionfare in una sorta di imprevista luce. La luce che squarcia l’opacità apparente dell’esistere.


Radici, Identità e Globalizzazione

Lunedì 13 febbraio alle ore 17.30 presso l’Aula Nievo dell’Università degli Studi di Padova si terrà un incontro dal titolo “Radici, Identità e Globalizzazione” promosso da PadovaLegge.

Interverranno all’evento Sua Eminenza Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra e del Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie, l’On. Luciano Violante, Presidente Emerito della Camera dei Deputati.

L’incontro verrà moderato dal dott. Ferruccio de Bortoli, Presidente della Casa editrice Longanesi.

L’ingresso è libero e gratuito fino ad esaurimento dei posti. E’ consigliata la registrazione scrivendo una mail a: info@padovalegge.it.


Impressioni Sistine

michelangelo_giudizio_universale_dettagli_261di Giovanni Scarpa. Mi sembrava lecito, nonché doveroso, inaugurare questo 2017 con una massiccia dose di ignoranza.

E sì, perché per la prima volta mi ritrovo a scrivere di un argomento su cui non ho la minima preparazione bibliografica. Un argomento tra l’altro, come la Cappella Sistina, sul quale esiste una vastità fenomenale di riferimenti e interpretazioni. Ecco insomma, per entrare nel merito, succede che il mese scorso vado a Roma e tra le altre cose vedo la Cappella. Ma con occhi incredibilmente vergini, poiché nulla come l’ignoranza preserva la castità oculare. La grandiosa fama del luogo era ed è direttamente proporzionale all’insipienza del sottoscritto. E ho pure riflettuto a lungo su questo punto, e quasi cedevo alla tentazione di informarmi. Ho pensato ecco che questa cosa della “veduta ignorante” ha anche un suo perché storico-critico: la sfilza di splendidi dipinti impressionisti, da Monet a Renoir, non fa altro che inseguire l’apparenza delle cose nel tentativo stacanovista di aver cura della propria superficialità. Per questa ragione prima di compiere il tremendo abominio di informarmi ho deciso di scrivere le mie “prime impressioni”.

michelangelo_giudizio_universale_dettagli_101Questo capolavoro michelangiolesco l’ho trovato esuberante, diciamo, eccessivo per l’occhio umano: i muscoli del mio nervo ottico hanno di certo rischiato un crampo. E non parlo di sindrome di Stendhal o di elevazione spirituale, ma proprio di fatica fisica, pragmatica, calorica. E la cosa che più di tutte mi ha turbato è proprio la quantità. Ancor prima della qualità del lavoro. Insomma ci saranno migliaia di corpi nudi dipinti ovunque, censurati dai pudibondi ecclesiastici dei tempi andati. Un’orgia di corpi muscolosi che si protrae imperterrita nel caos ordinato del progetto sistino. Non vi nascondo di aver pensato, diabolicamente, ad una sorta di monumentale palestra anatomica nella quale l’artista si è allenato a scolpire col pennello bicipiti e pettorali e deltoidi e via dicendo, inebriato dal suo genio femminino. La carnalità della sistina ha colpito i miei bulbi oculari con la brutalità di Schwarzenegger così profondamente che persino la Vergine giudizio_universale_cristo_giudice_e_maria1(indubitabilmente per questioni di “modello”) sembrava appena uscita da una palestra. Pareva incredibile che la stessa persona avesse scolpito le delicate parvenze della Deposizione. Perché tutto vi era nella sistina tranne che la grazia femminile. Giudizio crudele si dirà, e sprovveduto certo, eppure queste ingiuriose premesse mi hanno ricordato quella frase del Terzo Uomo di Orson Welles quando dice: “In Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo Da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù”.

blog%20chiuso%206%20mi1Ecco, pensavo, forse quest’ammasso laocoontiano di corpi rappresenta lo spettro umano dell’Italia. Forse anzi, si può delineare nella storia dei soffitti delle chiese l’intero ciclo storico del popolo italiano: il rigido e splendente simbolismo medievale nei cieli stellati di Galla Placidia e degli Scrovegni, gli intrighi e quel ritorno al corpo tipici dell’umanesimo rinascimentale, il decorativismo vacuo nei barocchi soffitti a cassettoni, il decadentismo secolare nei soffitti ridipinti, negli affreschi rimbiancati delle chiese parrocchiali, il contemporaneo rinverdirsi della fede nei mosaici di Rupnik.

genesi_diluvio_dettaglio_051È stata una visita romana per certi versi inquietante, e allo stesso tempo gloriosa. Pensare al lavoro di quest’uomo solo, dal pennello consunto, dalle vesti imbrattate. Ecco insomma, l’unica cosa certa è che non ho capito un cavolo, ma ho guardato molto in un luogo in cui c’è troppo da guardare e troppo da capire.

Mi sa che dovrò leggere qualcosa, mi sa. E tornarci, tornarci ancora.