Odilon Redon Il sogno di Calibanodi Mario Cancelli. A proposito della mostra milanese sul Simbolismo, si diceva della fatalità del bivio ma anche questo sembra insufficiente. Perché se il simbolismo ritrova la vicenda dove il romanticismo l’aveva lasciata, individuando la possibilità di un nuovo coniugio tra natura e pensiero, l’urgenza del simbolismo sembra volatizzare anche questa possibilità.

Per riconoscerla occorre chiudere infatti all’orizzonte del mito, e aprire alle istanze dell’inconscio.

Quando ciò avviene, l’arte abbandona l’orizzonte del simbolico (ben poco eloquente) e ritrova una nuova libertà espressiva. Si cerca allora allora il “gesto” e con esso i modi dell’inconscio, modi nei quali il pensiero del soggetto è agito e non solo rappresentato.[1] I due surrealismi succedutisi dicono di questa metamorfosi del simbolo nell’inconscio ed è nella correttezza o meno della lettura dell’inconscio (contrario al pensiero o capace di dirsi sua vicenda, del pensiero) che si gioca la partita.

Quanto le polveri della mostra siano rimaste bagnate lo dimostra paradossalmente il recupero del cosiddetto simbolismo italiano. L’unico simbolista in Italia fu quel Pascoli, quasi refrattario all’influenza di Baudelaire. Un senso inattaccabile del reale sembra vaccinare gli artisti italiani, i quali non cessano di trarre da essa la loro ispirazione: la sala splendida dedicata a Sartorio ci consegna il senso di una “grande bellezza” che non annoia.

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Eppure la mostra ha proposto anche cose egregie: “Il sogno di Calibano” di Odilon Redon, che lega Shakespeare alla cultura pittorica eletta, riconducendo simboli, presenze aliene o biologiche a un tessuto narrativo di fiaba, frutto della sua personale analisi.

Un piccolo quadro come questo permette di orientare le esperienze successive, le correnti e le tendenze. Redon non ci conduce all’arcaico di ritratti di famiglie rese archetipi senza vita individua, ad alberi solitari, a incroci immaginari improbabili; in uno stile ricco e privo d’indugi, dà forma e linguaggio ai fantasmi propri e di tutti. Accanto a Redon, Moreau, qui rappresentato da un pregevole dipinto: a quando però qualcuna delle sue Salomè, che regnano su pittura e letteratura?

tmp_4ddad36301ec30939da98e3092c4be971Uniche a comparire senza compromettere il gusto con un gesto più rivelatore che omicida. E poi il colore, la pennellata, la “colata” di Moreau che anticipa l’action painting.

Ne “La Speranza” di Puvis de Chavannes, l’ironia smuove i principi del paesaggio classico, cui ammicca: “La Donna” presidia lo spazio, anzi lo ostruisce, personificazione sardonica di una natura naturata, che promette senza mantenere. La soluzione del rebus non sta più nel registro contemplativo, nello straordinario concerto dai timbri bassi di verdi e bruni, ma in quell’occlusione, nel pensiero dello scacco che questa lacaniana effige incarna: una sciarada, che consegna a quel che verrà una patologia invasiva di ogni cifra stilistica.

bonazzaRiportare alla luce il simbolismo italiano è l’orgoglio della mostra: molti gli artisti finalmente visibili e le opere recuperate. Tutto parla di una capacità di difesa e di un senso di realtà quasi intaccabile.

Bonazza replica con ironia tragicomica al falso Edipo di Knopf (carezzato dalla madre fino al l’estinzione dell’umano) inventando un Orfeo di borgata, ignaro più che artefice dell’incanto operato sulle feroci leonesse. Si confronti questo pizzico di pirandellismo con l’irrepetibile Orfeo di Delville, omaggio a un dio che fu e che torna con imperturbata e irritante melanconia.

delvillePreviati, fra gli italiani forse il più implicato con il simbolismo, innalza “ali” sulle pareti, producendo materia per la scissione divisionista e affogandola in un diapason di luce e di sentimento, come nel “Chiaro di luna” che ci riporta quasi ai medioevo manzoniano, alle orazioni nevrotiche se non deliranti di Ermengarda: qui la luce si fa materia, raggi argentei che gridano le cose strappate dal buio. E infine “Le vergini stolte e le vergini fedeli”, di Sertorio, appena restaurato e che ci ricorda che il Quattrocento non passa mai. Infine un paesaggio dallo straordinario equilibrio, un idillio pucciniano che accarezza una natura tutta lombarda. Non vi dico l’autore, cercatelo nel bel catalogo che accompagna l’esposizione. Non faticherete a trovarlo in questa ricca foresta di simboli. (2. fine)

 

Si ringrazia Patrizia Pizzirani per la revisione e il contributo critico.

 

[1] La tragica fatalità del simbolo è chiarificata da S. Freud: viva ed eloquente nella dinamica onirica del soggetto, debole nell’ elaborazione formale, dove il simbolo acquisisce autonomia.