C’è chi ci arriva in taxi. Chi, in occasione di oramai notissime fiere, su sovraccariche navette che mettono in comunicazione la stazione con piazza Aldo Moro, con i suoi bianchi grattacieli. Del Kenzo Tange: forme che si arrampicano con disinvolta sobrietà modernista. Giunti in via della Conciliazione, personalmente dopo peripezie tra viottoli fra nebbie serali, per essere sceso a fermata sbagliata, si percorre questo rettilineo raccordo, sorta di Via Sacra dell’“istanza Periferia” in progress, decisa a replicare al Kenzo con pervicace volontà architettonica. Opulente facciate di alberghi, nere più del più cinereo Burri, banche in sintonia con l’idea urbanistica percorsa ed altro ancora: fino a pervenire all’incrocio di via Stalingrado, che introduce chi viaggia all’universo.
Invero Filippo Tommasi Marinetti non avrebbe potuto desiderare di più.
“Sironi-Burri: un dialogo italiano (1940-58)” è una mostra che si organizza attorno a due sole opere: un testo non centrale ma significativo della vicenda artistica di Mario Sironi “Composizione murale” (1948); “Nero con punti”, tecnica mista del ’58, fondamento del Burri materico, gestuale, esistenziale, poetico che conosciamo.
Da rimanere lì un pomeriggio, salutando di tanto in tanto con lo sguardo il traffico che lascia o entra in città.
La sorpresa è però anche l’operazione culturale creata attorno alle due opere (di proprietà dell’Unipol). Il contesto storico in cui agirono i due autori, ricostruito anche attraverso preziosi documentari dell’istituto Luce, si apre infatti a una ricca ma meditata scelta di interventi critici dell’epoca, di riflessioni successive, di testimonianze dirette degli artisti. Un lavoro che sintetizza con semplicità e sensibilità quegli anni segnati da una complessa ricerca. Un’indagine infine consapevole dei nodi critici attraverso i quali la nostra storia uscì dallo scacco della guerra e ricercò se stessa. Indagine di raffinata consapevolezza, in grado anche di ampliare le proprie fonti, oltre i noti e scontati contrasti che quella storia segnarono.
L’olio di Sironi infatti trascina in un’irreversibile e precipite caduta il proprio – ma non solo il proprio – ideale “monumentale”, ideale nel quale trova temporanea soluzione la ricerca di una liberazione dal limite (?) della soggettività. Sironi ci attende con una shakespeariana scenografia in cui coppie di figure sembrano darsi il cambio: della storia non c’è più traccia.
Una metafisica alla rovescia riconduce emblemi e figure a un copione senza più nulla di prestabilito. La critica parlò di relitti, ceneri, reliquie: noi diremmo “materiali” infine sottratti a un “presupposto” che liberava, senza risolverli, dall’angoscia. Ora sono ricondotti a un pensiero individuale garantito solo dalla propria logica. Una spoliazione che produrrà il canto terminale e splendido di “composizioni” senza più ordine fittizio, confessioni estreme.
Un’Italia che crolla e un’Italia che rinasce? Troppo facile accostamento.
Economia dello scacco semmai, potremmo dire. La via di Burri infatti onora le stesse ceneri e il medesimo addio ai canoni rassicuranti anche se più attuali: i suoi francescani sacchi, le sue polveri, gli orli, le crepe, crepe-ferite, cooperano a costituire una veste da reinventare senza cedere a polemiche e istanze estranee a quelle del canto del poeta, canto-confessione, né sacro ne blasfemo, che renda ora conto in primis della propria personale “città”. Saranno in seguito bruciature, desertificazioni, ricapitolazioni in oro e di nero: sudari di un corpo cui la bellezza non è garantita ma sempre imputata.
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Tale indagine – la mostra è a cura di Christian Caliandro – pre-sente e riconduce i presupposti storici al ganglio critico di quegli anni; vero nodo irrisolto di pensiero, nel quale confluirono divergenti posizioni, soprattutto quelle di Pasolini o di Testori e di Arcangeli. Questo fu il vero dialogo di quegli anni, fatto di scontri e di vicendevoli riconoscimenti. La categoria di “ultimo naturalismo” del critico bolognese indirizzava infatti verso un ineludibile bivio storico.
Delineato dal rapporto in cui vengano a trovarsi tra loro io e natura. L’approdo di Arcangeli all’informale di Pollock, interprete di un’ultima responsabilità dell’arte, non sembra oggi conflittuale con la scelta espressionista del Testori critico, e scrittore. Posizioni entrambe non risolte.
Questo perché quella “responsabilità” non fu ultimamente giudicata nelle sue istanze pulsionali e relazionali (e che potremmo chiamare giuridiche). Il fraintendimento di “pulsione” con “istinto” e di “giuridico” con “sociale” riallargava quella frattura che il dialogo “tutto italiano” cercava di ricomporre.
Sironi-Burri. Un dialogo italiano (1940-1958)
28 luglio- 18 ottobre. Spazio Arte Cubo.
Bologna.