The_Red_Tower[1]Emoziona ritrovare una piazza del primo De Chirico, collocata in una sala diversa da quella abituale ed esaltata proprio dalla vicinanza con l’alieno Pollock nella minacciosa possanza del suo anonimo maniero.

Quella piazza diviene qualcosa di analogo a tutto il gran lavoro di Pollock, ben lontano dalle opposizioni in cui posero l’atto creativo i seguaci di Breton, i quali si rifacevano paradossalmente alla disturbata metafisica del pittore ferrarese.

Per entrambi il fine sarà l’inconscio: ma per i surrealisti si tratterà di “un altro” a cui affidare tutto il potere (contro la ragione); per Pollock di un “gesto” che assecondi il pensiero così come esso si dà.

Pollock sorrideAbbandonare cavalletto e pennello fu quindi il mezzo per restar fedele al proprio pensiero che “dittava dentro”.

Le foto lo rappresentano per nulla agitato quando dipinge, contento, rapido, sicuro di quel che ha trovato e che prima non aveva. Nel dripping ritroviamo qualcosa della libertà e della gioia del bambino quando disegna per terra. Una libertà forse minacciata ancora da un eccesso di immediatezza, anche se l’automatismo è superato nell’economia della sua danza attorno alla tela. Questa fedeltà al pensiero permise a Pollock una strenua difesa dalla propria autodistruttivitã.

jackson-pollock-alchemy[1]Quando alla fine degli anni Cinquanta le “figure” si ripresenteranno incontenibili – quelle “black paintings” che purtroppo in mostra non sono rappresentate – Pollock potrà non far loro resistenza. Le nuove forme sorgono dal nero e il nero le rappresenta.

Cosa doveva ancora dirsi Pollock? Il finale è un’onirica elegia alla memoria che va ritrovandosi, un pensiero che fa i conti con il proprio rimosso: l’astratto trasformato in personale metafora o romanzo. Ben oltre Picasso.

 

(Mario Cancelli 4. continua)