"LO SCOPRITORE DI TERRA INCOGNITA"! 20-21 NOV 2019, UNA DUE GIORNI SU CESARE PAVESE

La Rosmini sta organizzando una due giorni di eventi su Cesare Pavese: “Lo Scopritore di Terra Incongnita”! L’autore sarà il protagonista dei prossimi colloqui fiorentini e con l’aiuto dell’amico professore Valerio Capasa si vuole entrare in dialogo con Cesare Pavese per il quale amare le cose, aprirsi ad esse coincide con la scoperta che tutto è dato.

I momenti proposti sono i seguenti:

-          Mercoledì 20 Novembre alle ore 18:30 a Padova (luogo da definirsi) un incontro “aperi-cena” alla scoperta di Cesare Pavese e della sua “Esigenza Permanente”.

-          Giovedì 21 Novembre alle ore 14:30 presso l’auditorium Giovanni Paolo II, via Ortazzi 9 a Piove di Sacco, un momento di approfondimento per incontrare Cesare Pavese attraverso l’esperienza dei colloqui fiorentini.

Per questo motivo la Rosmini chiede un aiuto a tutti i docenti ed amici interessati di per poter pubblicizzare l’evento, invitare studenti, colleghi ed amici ed eventualmente nel coinvolgersi nell’organizzazione dello stesso. Per maggiori informazioni è possibile scrivere a info@rosminipadova.it


Incontro pubblico "Felici di lavorare" a Padova il Mercoledì 2 Maggio ore 21:00

Il lavoro da sempre è uno dei principali aspetti della vita con cui l’uomo si rapporta alla realtà ed impegna la maggior parte del proprio tempo; oggi, con la crisi, è diventato sempre più competitivo, duro, umanamente difficile, precario e flessibile ed è sempre meno un posto fisso, diritto acquisito ed inattaccabile. Questo mutamento ha portato l’uomo a percepire il lavoro sempre più come un luogo ingiusto in cui resistere stringendo i denti e sempre meno come possibilità di essere felici e protagonisti.
Per interrogarci su come stia cambiando il mondo del lavoro, su quale sia il valore del lavoro, su come sia possibile essere protagonisti del proprio percorso lavorativo, costruendo un bene per sé e per la società intera, e per riprendere quanto emerso dalla settimana sociale del lavoro di Cagliari, stiamo organizzando l’incontro pubblico dal titolo “Felici di Lavorare” che si terrà Mercoledì 2 Maggio alle 21:00, presso la Sala Cardinal Callegari in via Curtatone e Montanara 4 Padova, in cui interverrà S.E. Rev. Mons. Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto e Presidente della Commissione per i problemi sociali e il lavoro presso la CEI.
Perché Mons. Filippo Santoro? Perché è un uomo implicato nel sociale, in contesti difficili come quello brasiliano (quasi 30 anni passati in missione tra Rio de Janeiro e Petropolis) e come quello tarantino (affrontando la mancanza di lavoro e la crisi ILVA) e per aver organizzato la settimana sociale di Cagliari dal titolo “Il lavoro che vogliamo libero, creativo, partecipativo e solidale” (www.settimanesociali.it). Per saperne di più su Mons. Filippo Santoro clicca qui.
L’incontro vuole essere un momento di dialogo con domande vere, reali che partano all’esperienza dei partecipanti. Per questo ti proponiamo di scriverci le tue domande e/o le tue impressioni sul tema alla mail info@rosminipadova.it entro il 27 Aprile.
Ti inviatiamo a partecipare e, se lo ritieni, a diffonderlo


Incontro: "Elezioni 2018: UN'OPPORTUNITÀ? TRE SFIDE PER IL BENE COMUNE Educazione, lavoro, sussidiarietà per costruire il futuro del Paese"

L'Associazione Rosmini, insieme agli universitari di  Ateneo Studenti, sta organizzando per Mercoledì 28 febbraio alle ore 21,00 presso il Teatro Ruzante in riviera Tito Livio 45 , l'incontro pubblico: “Elezioni 2018: UN'OPPORTUNITÀ? TRE SFIDE PER IL BENE COMUNE Educazione, lavoro, sussidiarietà per costruire il futuro del Paese” Siamo convinti che le elezioni possano offrire l'opportunità di capire meglio i bisogni della nostra società, di conoscere il contributo che ognuno di noi può dare, e quale sia la modalità più costruttiva per partecipare alla vita politica del Paese.

Mentre si avvicina velocemente la data del 4 marzo, due realtà cul-turali ed associative padovane – l’Associazione Antonio Rosmini e Ateneo Studenti - desiderano raccogliere l’invito di Papa Francesco a “provare ad agire di persona invece di osservare dal balcone” questa campagna elettorale. Questo “agire di persona” avviene attraverso una serata di dialo-go aperto, proposta per approfondire tre temi fondamentali per il futuro del nostro Paese: l’educazione, il lavoro e la sussidiarietà.

In apertura di serata Andrea Pin (costituzionalista e docente universitario) presenterà gli elementi essenziali della legge elettorale con cui gli italiani saranno chiamati ad esprimere il proprio voto. A seguitre interverranno Tiziano Barone, Direttore di Veneto Lavoro; Marco Masi, Presidente Nazionale CdO Opere educative; Simonetta Rubinato, Presidente Comitato Referendario Veneto Vivo.

Scarica l'intero volantino cliccando su  Volantino AS ELEZIONI 2018 - Rosmini.

 


Un punto di riferimento certo in vista delle prossime elezioni

Cercate un punto di riferimento certo in vista delle prossime elezioni? Consigliamo caldamente di ascoltare il discorso di papa Francesco a Cesena del 1 ottobre 2017, neanche una ventina di minuti di intervento con alcuni punti fermi su cosa significa fare politica oggi. Ecco il video integrale.

https://www.youtube.com/watch?v=PgHPX4kbPCI

Il testo del discorso del primo ottobre è sul sito del Vaticano all'url https://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/october/documents/papa-francesco_20171001_visitapastorale-cesena-cittadinanza.html.


Papa Francesco e quella lettera sui convegni di sant’Agostino

Papa Francesco, quando era cardinale, scrisse la prefazione de “Il tempo della Chiesa secondo Agostino”, il libro che raccoglie gli incontri dell’Associazione Rosmini sull’attualità di sant’Agostino che vedevano come relatore don Giacomo Tantardini.

A distanza di anni il Papa non si è dimenticato di quegli incontri, anzi il 22 dicembre scorso papa Francesco (è nel video linkato dopo il minuto 2)  ha ricordato in diretta video ai suoi interlocutori riuniti nell’aula magna dell’Università di Padova, che quel luogo ospitava le lezioni agostiniane organizzate dalla nostra associazione.

Ora nell’ultimo libro di Massimo Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, emergono nuovi dettagli dell’interesse di papa Francesco per i nostri convegni. Riportiamo dalle pp. 279-280:

 

«In una lettera degli inizi del 2007, indirizzata al vaticanista del Tg2 Lucio Brunelli, che gli aveva inviato una recensione del volume di don Giacomo Tantardini, “Il cuore e la grazia in sant’Agostino. Distinzione e corrispondenza” (Città Nuova, Roma 2006), Bergoglio scrive:

“In questo pensiero lineare non c’è posto per la delectatio e la dilectio, non c’è posto per lo stupore. Ed è così perché il pensiero lineare procede nella direzione contraria alla grazia. La grazia si riceve, è puro dono; il pensiero lineare si vede in obbligo di dare, di possedere. Non può aprirsi al dono, si muove unicamente a livello di possesso. La delectatio e la dilectio e lo stupore non si possono possedere: si ricevono, semplicemente. […] L’essenza manichea del fariseo non lascia nessuna fessura perché vi possa entrare la grazia; basta a se stesso, è autosufficiente, ha un pensiero lineare. Il pubblicano, al contrario, ha un pensiero tensionante che si apre al dono della grazia, possiede una coscienza che non è sufficiente ma profondamente mendicante”.

Sollecitato dalla recensione di Brunelli, il cardinale scriverà, a sua volta, la prefazione ad un nuovo volume di Tantardini su Agostino: “Il tempo della Chiesa secondo Agostino” (Città Nuova, Roma 2010). In essa commentava la descrizione che Agostino faceva dell’incontro tra Gesù e Zaccheo.

“L’immagine per me più suggestiva di come si diventa cristiani, così come emerge in questo libro, è il modo in cui Agostino racconta e commenta l’incontro di Gesù con Zaccheo (pp. 279-281). Zaccheo è piccolo, e vuole vedere il Signore che passa, e allora si arrampica sul sicomoro. Racconta Agostino: «Et vidit Dominus ipsum Zacchaeum. Visus est, et vidit / E il Signore guardò proprio Zaccheo. Zaccheo fu guardato, e allora vide». Colpisce, questo triplice vedere: quello di Zaccheo, quello di Gesù e poi ancora quello di Zaccheo, dopo essere stato guardato dal Signore. «Lo avrebbe visto passare anche se Gesù non avesse alzato gli occhi», commenta don Giacomo, «ma non sarebbe stato un incontro. Avrebbe magari soddisfatto quel minimo di curiosità buona per cui era salito sull’albero, ma non sarebbe stato un incontro» (p. 281). Qui sta il punto: alcuni credono che la fede e la salvezza vengano col nostro sforzo di guardare, di cercare il Signore. Invece è il contrario: tu sei salvo quando il Signore ti cerca, quando Lui ti guarda e tu ti lasci guardare e cercare. Il Signore ti cerca per primo. E quando tu Lo trovi, capisci che Lui stava là guardandoti, ti aspettava Lui, per primo.

Ecco la salvezza: Lui ti ama prima. E tu ti lasci amare. La salvezza è proprio questo incontro dove Lui opera per primo. Se non si dà questo incontro, non siamo salvi. Possiamo fare discorsi sulla salvezza. Inventare sistemi teologici rassicuranti, che trasformano Dio in un notaio e il suo amore gratuito in un atto dovuto a cui Lui sarebbe costretto dalla sua natura. Ma non entriamo mai nel popolo di Dio. Invece, quando guardi il Signore e ti accorgi con gratitudine che Lo guardi perché Lui ti sta guardando, vanno via tutti i pregiudizi intellettuali, quell’elitismo dello spirito che è proprio di intellettuali senza talento ed è eticismo senza bontà”».

 

(M. Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, Jaca Book 2017, pp. 279 - 280).


Junior Fritz e le Muse del wc

di Giovanni Scarpa. È una innegabile constatazione quella che vede l’ispirazione artistica subire le conseguenze e le stratificazioni storiche del processo evolutivo sociale: se l’uomo dell’antichità invocava infatti le muse rifugiandosi in luoghi boschivi e solitari, ora il contemporaneo potrà trovarle al cesso. Tutte e nove riunite in un solo luogo, per così dire, balneare: le tubature hanno sostituito i ruscelli, le maioliche e la vasca da bagno le nebulose aree termali, la tavoletta un muschiato declivio.

Lo strano harem oramai avvezzo alle frequenti ondate mefitiche, pare elargire copiose illuminazioni artistico-culturali proprio durante i massimi sforzi defecali, trasformati così, assurti a necessari apparati meditativi.

C’è allora chi, come Hemingway, immette nella location una apposita biblioteca, chi attrezza il bagno con musiche e rumori concilianti, chi, come Junior Fritz Jacquet, ne fa la fucina delle proprie creazioni.

A lui infatti, e alle Muse del wc, va attribuito il sommo merito di aver trasformato una tragedia assoluta in una occasione espressiva. Immaginiamo per qualche istante il sig. Fritz: Fritz è stanco, il lavoro non è andato bene, la pausa in bagno però, è liberatoria, evasiva, evacuante. Lo sguardo si volge a destra, a sinistra, si palesa il dramma: un odiabile rotolo di cartone, vuoto, inespressivo, l’immagine della rovina e della morte (si fa per dire) lo guarda muto, non c’è carta. Ma l’amico Fritz non si lascia distrarre dall’odio e dall’ansia di vivere. Lui fissa il rotolo, lo interroga e il rotolo per la primissima volta nella storia mondiale... risponde.

Sono nate certamente così le sue famose creazioni che potremmo senz’altro definire “facce da culo” (senza offesa ma in piena coscienza post-funzionale). Volti che evocano buffi mostri litici, dal sentore antico e fantaghiróghiano. Lui, giovane francese “scultore di carta”, ama la difficile arte dell’origami (molte sue opere sono esposte all’Origami Gallery di Tokyo e al Mingei International Museum di San Diego), lavora la cellulosa con le mani attente di chi conosce la materia: gesti rituali, attenti, decisi e docili al contempo. I volti “carta-igenici” lo rendono famoso in tutto il mondo, lo rendono testimone di un piccolo miracolo, promotore di una tacita rivoluzione: non c’è trauma senza opportunità, letame senza letizia!

Non abbiate paura allora, cari espletatori, se alla fine di un disumano sforzo (metaforico e non) troverete ad aspettarvi solo un rotolo vuoto, un misero, odioso rullo senza volto, pensate a Fritz, invocate le Muse del wc e, mi raccomando... tirate lo sciacquone.

 


“Milano 0” di William Congdon. Gesto, non anima effusa misticamente

di Mario Cancelli. “Milano 0” (1968) di William Congdon, grazie a un atto donativo della William Congdon Foundational al Museo del Novecento, è tornato là da dove idealmente era venuto, quella piazza Duomo sulla quale il museo affaccia le sue vetrate. Proprio il giudizio della commissione che ha accolto la donazione invita a un approccio critico che riconduca l’opera di Congdon alla storia milanese e italiana.

Il quadro potrebbe essere inteso come sfogo o testo apologetico di un personale “disagio della civiltà”, un saluto spiritoso ma imputante rivolto a chi viveva il vortice di quell’anno post boom. Di invettive, peraltro, non si trova nemmeno l’ombra, piuttosto si coglie un che di confidenziale nel convocare, su una scena che si è portati a identificare in piazza Duomo, i riconoscibili archetipi e miti di quegli anni. Un’onirica, partecipata condensazione trasforma in salotto una piazza colma di voci e di presenze: grattacieli come il Pirellone e la Torre Velasca, figure e corpi in abbandono di carni e pensieri, graffiti ante litteram, compongono un tenero e ironico commento dell’angoscia di tutti. Verrebbe da pensare alle “Tragedie da ridere” di Franca Valeri, quei monologhi cari a Giovanni Testori, in cui tutta la città è chiamata in causa.

Invano si cercherebbero in quest’opera insofferenza e irritazione, perché qui, nel gesto pittorico, Congdon si affeziona alle vite degli altri, ne condivide il dramma, si sente fra i suoi simili. Una narrazione rapida e gestuale proietta su un grattacielo, Taj Mahal senza più sacralità, una luce che scivola, portando con sé cenere e bitume, “resti” materici che non permettono più metafisiche accensioni; una materia che desacralizza è infatti l’esito di questo mischiare cenere ai colori ad olio, simbolo architettonico e palcoscenico.

Va poi detto che il titolo non allude certo al punto zero del linguaggio letterario, che pure imperversava in quegli anni, perché al contrario sono tanti i codici linguistici che l’opera parla . Che si tratti dello zero inteso come neorealismo testoriano, come messa a nudo che smaschera l’avanspettacolo della nostrana metropoli sui Navigli, quasi divertente per Congdon che aveva attraversato la Black City? Ed è proprio l’ironia (Congdon ha sempre giocato ottimi scherzi al “tragico”) se non addirittura un quasi fumetto, a tenere insieme i tanti codici, unificando divertito scandalo personale e giudizio storico: insomma ci troviamo più prossimi alla satira di Maccari che a nordici espressionismi.

I rosa, i gialli rossetto delle carni, immortalano le “Lollofrigide” dopo averle fatte scendere dai cartelloni pubblicitario, accompagnandole con grazia sulla ribalta; “Allegria” “morte, “Gina”, lampeggiano nell’arena coi toni coatti ed esclamativi della pubblicità. Congdon non sta certo lanciando vernice sulle pellicce delle signore alla prima della Scala, piuttosto il suo giudizio dice di sé, del suo non accettare il mondo: anche qui, come sempre in Congdon, a consentire la sortita dagli idoli e dalle censure, è l’atto creativo. In “Milano 0” ciò che è personale e privato trova il modo per divenire pubblico: non è questa la via di “Guernica”? Non si assisteva, in Picasso, a un deciso, elaborato virare da un fatto d’historia al “romanzo personale” o meglio, “familiare”? Da allora, come non ritrovare il campo di battaglia nel proprio atelier, come non sentirsi ogni giorno sotto le bombe? Già il “Quarto stato” di Pellizza da Volpedo aveva rappresentato il manifesto di una mobilitazione pubblica che si muta in un lutto privato, permettendo di assistere, proprio qui al Museo del Novecento, a un’ascesa (o a una discesa) dell’arte nei territori ormai indagati dell’io.

Una parte significativa dell’eredità di Congdon sta proprio nel non dimettere mai la consapevolezza della propria “scissione”, nel non annullarla mai in sublimi assoluti. Le “Basse”, frutto di una scelta spirituale radicatasi come scelta di vita in un territorio preciso, trasportano l’“action” dai romantici e consumati tralicci delle “City” newyorkesi a nuovi e coltivati campi, tralicci dove rifiorisce il seme, dove cioè il gesto può riaffermarsi.

Occorre però sottolineare che si tratta appunto di gesto e non di anima effusa misticamente sulla tela, come la critica ha spesso accreditato: basti osservare le ultime prove di questo poema benedettino, che riconducono ali di luce a materici solchi di un lavoro mai concluso e sempre da verificare. Colori a olio impastati a cenere, si è detto: non barocchismo sperimentale, ma partecipazione a un dramma di tutti in cui non manca mai il proprio. Solo così è dato “uscire” dal mito. E mito soprattutto era l’anno, il mitico ’68 , che azzerava tutto in nome di una immaginazione separata da “ogni” potere.

Quel che avvenne e si produsse attorno a quegli anni porta i segni, anche fascinosi, di quella scissione. Gli sforzi compiuti verso la sintesi in quegli anni cruciali rimangono pietre miliari nei rispettivi ambiti artistici: è lì che occorre guardare, alla letteratura e al cinema di quegli anni, per trovare i compagni di cordata di questo Congdon milanese. Nel Pasticciaccio di Gadda, il commissariato si trasferisce tour court nel salotto di Liliana Balducci: un mélange linguistico ineguagliato narra una poliziesca quête nella quale il commissario è al tempo colui che indaga e l’indagato (Liliana, donna o madre?). La cognizione del dolore, che dipana la matassa in chiave tutta psichica, non parte da qui? E Teorema di Pier Paolo Pasolini, non si sviluppa grazie a un teorema per il quale la schizofrenia del capitalismo si “compie nel totemico suicidio del padre, il denudato Massimo Girotti?

“Dì quel che pensi” (principio della clinica freudiana che può valere come metro di giudizio per qualsiasi poetica) si potrebbe dire, a conclusione di queste ipotesi di ragionamento. Dì quel che pensi e recupererai qualcosa di te e della storia degli altri.

 

“Milano 0”, anno 1968, olio e cenere su faesite

Museo del Novecento. Milano.

 

(Mario Cancelli)


Evocare l’universo dopo averlo rimosso. Mark Tobey alla Guggenheim

di Mario Cancelli. A quel “nodo” irrisolto che fu l’Action painting americana, l’opera di Mark Tobey, in mostra al Guggenheim veneziano, la prima in Europa di tale portata, appartiene e si dimostra legata, tanto più si cerca di separarla.

Delle “città bianche” di Tobey, dei tralicci dalla luce chiara, delle superfici sature di pigmenti e cesellate dall’attività di un certosino dell’oro bianco, allusive all’Oriente senza ulteriori precisazioni, si venne a conoscenza grazie all’opera critica di Francesco Arcangeli. I filamenti, i deboli grafismi a galla in una materia presente e delicata, e soprattutto una linea che percorreva la superficie quasi senza legge, furono facilmente collegati ai testi dell’espressionismo astratto americano. Il teatro di uno spazio indefinito e di una libera ed espansiva gestualità, erano concetti che permettevano al critico bolognese di unificare esperienze diverse tra loro e di queste le città di Tobey erano da considerarsi sovrani prolegomeni.

Debra Bricker Balken, curatrice della mostra, sembrerebbe, grazie a un prezioso aneddoto, confermare tale lettura: quella di un Pollock folgorato da Tobey.

Agli indiani d’America si sostituiscono i calligrammi cinesi? Niente paura, per i fans del modernismo: anche su Tobey, che iniziò formandosi sul Rinascimento, grava l’ombra di Duchamp. Sta di fatto che l’Oriente fornì al peregrinante eremita un appoggio, non certo una soluzione. Quel che lo muoveva era la vitalità della città, cui sempre tornerà: questa è la filigrana dei suoi colloqui, e i suoi testi rinviano ad essa come le insegne delle strade rinviano ai passanti.

“Luce filante (Threading light)”, del 1942, tempera su carta che dà il titolo alla mostra, rinvia con la sua tecnica detta della “scrittura bianca” ad un Oriente si percorso e amato ma anche parteciparlo da una soggettività che associava ad esso passione per la musica e per la sperimentazione.

Ne risulta un “atto” pittorico fluido e preciso, ritmico e calligrafico assieme, che, come dice il titolo dell’opera, fila, va, si sfila e ti fila, per poi svanire e ritornare come un gesso sulla lavagna che segni senza stridore o come filamento di un incisore di coralli, che suggerisce l’idea di un dripping eseguito lentamente da un mandarino cinese. “Il vuoto divora l’era del gadget”, 1942, che anticipa le Excavations di De Kooning, vira verso una empirica spiritualità. Poi saranno le trame di seta, in competizione con il marmo e il vuoto.

Rimane da chiedersi come mai un artista di straordinaria sensibilità narrativa e vis satirica, come testimonia il bellissimo “Nebbia al mercato” del 1940, si consegni a un lavoro di annullamento dei dati della civiltà, poi recuperarli, attraverso tali atti ripetitivi, quasi baco da seta inesausto, materici e desacralizzanti in fondo.

Che il secernere questo materico e opalescente bianco, come inesausto baco da seta, insegue più che sintesi di civiltà, quel gusto che, ci si perdoni il paragone, richiama non la luce metafisica ma, come sanno i bambini - e saremmo a cavallo fosse così - il sapore dello zucchero filato, piacere che ogni civiltà promette e concede: ma a quale prezzo? Questa partita con la materia (e materia proprio quando essa si accende nella luce), rimise in moto le geometrie di Kandinsky, si veda “Eventuality 44”), per inseguire le gloriose “eventualità della scrittura rinvenuta”. Chi disse di no a tutti, lo fece forse perché aveva intuito come le crisi delle civiltà siano in primis crisi dell’io. Da qui anche le ragioni di un’adesione a un credo monoteistico che tutto omologava. Ma se gli ultimi ed eccelsi atti di Tobey furono l’approdo a un sublime quanto accademico accademismo, cioè ai sacri valori dell’arte, sorge la domanda: in the meantime? Il gran rifiuto che Tobey rivolse alla scuola di Parigi, rimette in gioco infatti l’arte di Tobey, e l’interesse per essa.

Fu un rimanere fedele alle ragioni dell’espressionismo, a un gesto che, imparentato con l’inconscio, non si opponeva per questo al pensiero, come pretendevano gli europei.

L’Action painting conobbe il medesimo destino: da una parte lo “sporco” della materia come istanza dell’io, dall’altra la purezza della perla, lavorata dal maestro di Seattle, con una perizia che non sopporta compromessi.

A seconda di come si risponda a questa domanda, si avrà la chiave di tale pittura, capace di evocare l’universo dopo averlo quasi completamente rimosso, di nominare Grecia e Roma e America e Oriente, dopo averli consumati. Forse le “black paintings” di Pollock iniziano proprio nel punto in cui le “White paintings” di Tobey concludono (recuperando dall’oceano le figure della propria storia personale), è straordinario però ritrovare lungo le sale del Guggenheim, una libertà che, nonostante il sogno di una Lattea galassia, non rinuncia alla sindone del proprio dramma.

(Mario Cancelli)

Bologna, 17-6-2017

 

Mark Tobey. Luce filante

Peggy Guggenheim Museum

6 maggio - 10 settembre 2017

A cura di Debra Bricker Balken

#MarkTobey


La barba di Mosè, Akhenaton e il timore di un presagio

di Mario Cancelli. «Leggere un giudizio su questa figura mi fa sempre piacere: così per esempio, secondo Herman Grimm, essa sarebbe “l’apice della scultura moderna”. Certo, da nessun’altra scultura sono rimasto più fortemente toccato. Quante volte ho salito la ripida scalinata che porta dall’infelice Via Cavour alla solitaria piazza dove sorge la chiesa abbandonata! e sempre ho cercato di tener testa allo sguardo corrucciato e sprezzante dell’eroe, e mi è capitato qualche volta di svignarmela poi quatto quatto dalla penombra di quell’interno, come se anch’io appartenessi alla marmaglia sulla quale è puntato il suo occhio…» (S. Freud, Il Mosè di Michelangelo, 1914).

Non passava giorno che Sigmund Freud, nei suoi soggiorni romani, non venisse qui, a San Pietro in Vincoli, cercando di scoprire la ragione o il segreto di questa statua.

Oggi i visitatori vi giungono molto più numerosi di allora, e forse qualcuno di essi vive la medesima esperienza del fondatore della psicoanalisi, si scopre attratto cioè da qualcosa che lo riguarda, da una rappresentazione di cui siamo tutti partecipi.

Forse la suggestione dell’opera consiste proprio nel gesto emblematico di Mosè, un gesto che conclude, come ha dimostrato Freud, in una calma imprevista, dopo la prolungata ira, in quel constatare che la fluviale, inverosimile barba è ancora lì, al suo posto: come un politico quando fuoriesce dalla vettura di rappresentanza va con le mani alla propria cravatta le millanta volte, per accertarsi di essere ciò che spera di essere, così Mosè sembra autocertificarsi di se medesimo palpandosi la nilotica barba.

Un Mosè che appare perciò, malgrado la grandiosità, incerto, prudente quasi oltre misura, rassegnato e forse inquieto, sotto sotto ancora minaccioso come tanti dicono; mentre il giovane David vive della sua attenta serenità, della sua mancanza di dubbi, del suo compito di custode della città, cui tutto il suo corpo è teso, INVECE il Mosè ha bisogno della sua barba per sussistere.

Il linguaggio delle opere di Michelangelo, dal troppo finito della Pietà vaticana al non finito delle ultime, manifesta il faticoso andare verso la modernità: se in tutte le sue opere si riflette qualcosa che riguarda le “civiltà”, questo “grande uomo” però, che esce dalla facciata del monumento sepolcrale di papa Giulio II come un antico faraone (il sarcofago del papa è al secondo livello della fabbrica, quindi scarsamente visibile), rinvia a un complesso conflitto, che pone la riflessione sulle origini nella modernità.

Nessun’opera ha mai sopportato giudizi tanto opposti: vi si coglie la terribilità che incute il volto del legislatore, ma anche il timore di Mosè stesso alla vista del suo popolo, c’è determinazione ma c’è angoscia.

Quale l’originalità del Mosè nell’opera di Michelangelo?

La Cappella Sistina è teatro shakespeariano prima di Shakespeare, attira e trascina nel suo vortice figure mitologiche, storiche e anonimi astanti. Tale continuum di terra cielo, alto e basso, crea un moto che rompe gli schemi aprendo all’inconscio; una circolazione che coinvolge forme e sguardo, è quel che cerca l’uomo moderno, il quale ha visto le stelle sfuggirgli di mano e la sua storia quasi perdersi fra leggi che egli crede di dominare e da cui invece è dominato. “Il Giudizio universale” rinvia alla più perfetta delle titolazioni, facendo riferimento a giudizio e universalità, anche se il garante dell’ordine, quel giovane e palestrato Cristo triumphans, sembra patire un dramma analogo a quello delle figure circostanti.

Il suo giudizio salva dal caos, ma quanto APPARE periclitante quel suo gesto che separa salvati e dannati: gli uni non paiono molto più contenti degli altri, sommersi tutti in un fragore tremendo che, siamo sinceri, un po’ ricorda un Dies irae di Karl Orff diretto da André Rieu. Non a caso Ungaretti vide nell’ormai barocco Giudizio di Michelangelo, specchiarsi non la fede ma l’inquietudine.  Così come Longhi vide nella “Decollazione del Battista” di Caravaggio il silenzio di una scena ormai irriconoscibile e Roberto Calasso negli affreschi del Tiepolo, l’inaugurarsi di una forma “leggera”, un tripudio di significanti in festa, senza più remora per i significati, resti indesiderati.

Ma davanti al Mosè si può tornare proprio come avveniva a Freud, con l’aspettativa di un pensiero ancora urgente, che vince la rimozione: tanto che il suo segreto, si è detto, sembra coincidere con quanto di non rimosso opera in ognuno di noi, si tratti di pulsione inconscia o di un passato personale ancora irrisolto.

Il Faraone, il profeta, che nella sintesi iconica michelangiolesco-hollywoodiana ha il volto di Charlton Heston (si ricordi il drammone titaneggiante “Il tormento e l’estasi”, successivo a “I dieci comandamenti” di Huston) non esce da un sacrario di morte, ma sembra offrire a chi guarda la sollecitazione di un pensiero tutto da compiere.

Rimane un’ultima riflessione: non sarà che proprio qui, a Roma, a San Pietro in Vincoli, Freud abbia avuto l’intuizione che gli mancava, e che svilupperà molti anni dopo?

Forse qui è nata l’intuizione, che non ritroviamo nel coevo Totem e Tabù, e che in tutta la sua esplosiva verità occuperà l’ultimo scritto di Freud, “L’uomo Mosè e la religione monoteistica” (1939) dove sarà finalmente “pensato” quel segreto cui si è accennato, che lega la vicenda dell’individuo a quella delle civiltà. Basta fare un semplice confronto fra la barba del Mosè, accarezzata, aurea, fallica e allo stesso tempo fiume dei secoli che la Legge attraversa, e la posticcia barba rituale del Faraone Akhenaton che Freud chiama in giudizio.

Le statue sono cieche, inutile fissarle negli occhi per cercarne le intenzioni.  Nel nuovo (non) sacrario Mosè esce alla luce, va verso gli uomini, con la calma a fatica conquistata, nel perdurante timore di un presagio che attraversa ogni tempo. Questo il vero segreto, che renderebbe umano il faraonico profeta: il presagio di un’imminente nuova ribellione del suo popolo, e della propria morte.

Sì, è possibile che qui a San Pietro in Vincoli a Freud sia venuto quel pensiero del parricidio di Mosè: ciò renderebbe quest’opera una orta di “incunabulum inconscii”, che ci attrae perché ci mette di fronte a ciò che, da sempre, avviene nella storia di ogni individuo.

 

(Mario Cancelli)


Salvatore Oliva: la tigre bianca del fumetto

Trovarsi inadeguati a parlare di una persona, quando parlare direttamente con la stessa non è mai stata una cosa difficile, credo sia uno dei sintomi più interessanti della scoperta di un maestro.

Quando cioè, la relazione, l’esperienza, sta tranquilla come un vecchio con la pipa nel salotto dell’innominabile, nell’anonimia, allora s’intravede l’evento che è stato quell’incontro, il dipinto sopra il camino fiammeggiante con su scritto: “Non mi dimenticherai mai”.

Ecco, chi per mestiere, per fortuna o per svago, abbia avuto occasione di conoscere Salvatore Oliva, saprà di che cosa sto parlando. Agli altri consegno le mie scarne parole: tentativi di catturare un animale schivo e inafferrabile, come può esserlo una tigre bianca del fumetto.

Salva, così si firmava e voleva essere chiamato, l’ho conosciuto cinque anni fa durante le mie ricerche su Hugo Pratt (era l’argomento della mia tesi di laurea triennale). E l’invito cordiale e affabile che mi arrivò repentino, d’andare a casa sua, dopo nemmeno due telefonate, non mi fece nemmeno sospettare di potermi trovare di fronte ad uno dei più grandi (forse il più grande) conoscitore dell’opera di Pratt di tutta Italia.

Il primo incontro, devo dirlo, fu simpatico: mi fece una specie di test, per vedere quanto davvero ne sapessi del suo ambito. Mi mise di fronte una tavola originale (chissà poi da quale opera secondaria di Pratt, me lo domando ancora), e mi chiese di commentarla. Fu divertente, ci mettemmo a ridere nel suo piccolissimo ufficio bianco, stracolmo di libri ma ben ordinato. Aveva gusto, ecco. Sul salotto erano affisse serigrafie minimal di Corto Maltese. Si vedeva subito che non era uno di quei tipi confusi ed arruffati, nei quali la passione supera la misura. Non capii né che mestiere facesse, né chi fosse.

Quel pomeriggio però ci scambiammo idee, contatti, mi consigliò di andare da un suo amico a Senigallia, da un altro a Vicenza. Facemmo amicizia, insomma. Non ebbe timore di dirmi che era malato, ma lo fece con tatto, come fosse una cosa dolorosa, sì, ma secondaria; parlammo di Stefano Babini. Ci tenemmo in contatto telefonico, e da quel giorno cominciò a spedirmi anche cartoline, inviti a convegni, e soprattutto delle bizzarre buste gialle contenenti libri illustrati e vecchi fumetti. Una cosa d’altri tempi, devo dirlo, splendidamente anacronistica: francobolli, timbri, buste. E che buste: sul fronte spiccavano bricolage di stampe, illustrazioni, disegni, schizzi a biro, definiti e decorati coi pennarelli. Vere opere d’arte postale. Faceva così con gli amici, spediva a tutti buste su buste, tutte decorate singolarmente, che si potrebbe quasi pensare di farne una mostra.

La seconda volta a casa sua gli portai la mia tesi, il libro su Giorgio De Gaspari, ci presentammo le rispettive mogli, bevemmo un thè. Bello, semplice. Continuavano intanto ad arrivare le solite, attese, buste gialle. Ci sentivamo la domenica: chiamate inaspettate, brevi, sempre su Hugo e su quelle che lui continuava a chiamare le mie “strane ricerche”. Sembrava che un pivello come me gli piacesse: ci credeva, voleva che ci credessi anch’io. E alla fine ce l’ha fatta, mi pare.

Questo è quello che so sulla tigre bianca del fumetto: poco, niente.

Quando se n’è andato pochi giorni fa, il 18 luglio 2017, a 58 anni, mi sono venute subito in mente quelle buste, come una cosa dell’altro mondo: piccoli gesti reali di compagnia, un lascito postale. Mi sono anche accorto che non sapevo minimamente con che grande personaggio avevo avuto a che fare: consulente per grandi case editrici, reporter ad Angouleme, fondatore di festival fumettistici, saggista, critico acuto, promotore silenzioso. Avevo conosciuto il volto discreto di uno dei più grandi “gentiluomini di fortuna” che siano mai esistiti. E come me forse si dovevano sentire quei poveretti che la notte incontravano il principe Harun al Rashid, mentre passeggiava per i viottoli della sua città travestito da accattone.

Perché a volte le tigri ti passano accanto e ti fissano un poco, prima di sparire di nuovo nel verde.