Da ottobre a Padova il corso base di Fotografia del Gruppo Antenore

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Uno scatto di Giovanni Guglielmin del Gruppo Fotografico Antenore

Anche quest’anno il Gruppo Fotografico Antenore organizza il Corso Base di Fotografia (digitale), ormai arrivato alla 11° edizione.

Il corso, che inizierà il 5 Ottobre 2016, si rivolge ai neofiti che intendono acquisire le principali conoscenze necessarie per fotografare consapevolmente, per selezionare  le proprie immagini  e, se necessario, per ritoccarle al fine di renderle comunicative e interessanti.

La prima serata è a ingresso libero e gratuito, previa prenotazionedella propria presenza da indicare inviando una mail, recante il proprio nome, cognome e numero di telefono a: info@fotoantenore.org

Per le  successive serate abbiamo previsto un costo di € 100,00 a titolo di iscrizione al Gruppo Fotografico Antenore e di contributo alle spese di organizzazione,

In allegato è possibile scaricare la brochure ed il modulo di domanda di partecipazione al corso (in formato word)  che deve essere compilato ed inviato al medesimo indirizzo mail:info@fotoantenore.org

Il Gruppo Fotografico Antenore

è un circolo fotografico di Padova aperto a tutti coloro che credono che la fotografia non sia solo un momento ludico ma, soprattutto, uno strumento culturale e artistico e vogliono unirsi e confrontarsi con altri amici che condividono la loro stessa passione approfondendo nel contempo le loro conoscenze tecniche ed estetiche.

Si riunisce ogni martedì dalle 21 alla 23
c/o Università Popolare – Corso Garibaldi n.41/1 – 35122 PADOVA
e-mail : info@fotoantenore.org


La Maschera di Mononoke

IMG_1012di Giovanni Scarpa. È ancora una volta il “caso” a consolidare intuizioni, svelare sottili connessioni. Perchè proprio mentre sbirciavo antiche maschere rituali (e non chiedetemi perché) mi sono imbattuto in quella della principessa Mononoke. O meglio, in una sospettosamente simile: la Mbambi mask della tribù africana dei Pembe.

IMG_1009Ora, e Jung non avrebbe avuto dubbi, ci troviamo evidentemente di fronte ad un Archetipo. Anche se il maestro giapponese non l’ha probabilmente mai vista, anche se quella di San è di donna-lupo e quella dei Pambe è la maschera dell’antilope, anche se Africa e Giappone non sono poi così vicini: è il mondo animale che qui si incarna, s’immaschera per così dire, nel legno e nella paglia. L’uomo muta, trasmuta in selvaggio, in spirito, nascondendo il viso.

Insomma, alla fine non ho potuto far altro che rivedere il capolavoro Miyazakiano cercando di convincere la mia futura moglie che stavo “studiando” e non “guardando un cartone animato”!

IMG_1011Un film nel quale mi è parso di scorgere l’eco di Kipling, delle odalische di Ingres, il grido potente della morte del Dio Nietzschiano, sottili venature cristologiche. Un film complesso certo, che prende le distanze da un manicheismo seducente ma sterile (bene-male, uomo-animale, selvaggio-civilizzato) nel quale emerge con forza la “poetica dello straniero”. Ashitaka è infatti l’unico a guardare “con occhi non velati dall’odio”, a convivere con il suo demone, con il dolore, senza lasciarsi dominare da giudizi affrettati e parziali. È il primo a partire da casa senza cercare di conquistare altro se non la Verità. E per questo forse proprio a lui capita di vedere, per primo, Mononoke senza maschera: di vedere in lei non lo spettro di un animale, ma il volto tenace e bello di una fanciulla.


A Padova Rosemary Nyirumbe, la donna che ridà dignità alle bambine soldato

locandina-rosemary-padova-page-001Una donna «contro» i signori della guerra. Una suora che ha accolto e riscattato oltre duemila ragazze schiave sessuali di sanguinari miliziani. Una religiosa che ha «conquistato» gli Stati Uniti per il suo impegno umanitario: nel 2007 l’emittente americana Cnn l’ha inserita tra i suoi «Eroi dell’anno», nel 2014 il settimanale Usa Time l’ha nominata tra le «100 persone più influenti al mondo».

Cucire la speranza. Rosemary Nyirumbe, la donna che ridà dignità alle bambine soldato (in libreria dal 1 settembre, prefazione di Toni Capuozzo, Editrice missionaria italiana, pp. 240, euro 17,50) è il titolo del libro che racconta la vita e l’impegno di questa coraggiosa suora ugandese, che sarà a Padova al Centro universitario di via Zabarella il 22 settembre alle 20.45.

Una vicenda che è un grande segno di speranza per l’Africa, spesso rappresentata solo come terra di violenze, mentre Rosemary Nyirumbe è la testimone di una società civile pronta a guidare il Continente africano su una strada di autonomia: sono oltre duemila le ragazze che Rosemary (tramite l’educazione e il lavoro) ha «liberato» dall’Lra, il Lord’s Resistence Army, la milizia del sanguinario Joseph Kony che per decenni ha insanguinato il Nord Uganda e il Sud Sudan.

Proveniente da una famiglia cattolica, Rosemary già quindicenne decide di diventare religiosa per dedicarsi ai poveri. Il noto medico missionario Giuseppe Ambrosoli la vuole come prima assistente in sala parto come ostetrica nell’ospedale di Kalongo, nel distretto ugandese del West Nilo. In seguito Rosemary si laurea e prende un master in Etica dello sviluppo all’Università dei Martiri dell’Uganda.

Nel 2001 ecco la svolta: suor Rosemary prende la guida della scuola di Santa Monica, a Gulu, epicentro delle violenze dell’Lra. Incontrando le ragazze che la frequentano, scoperchia il dramma di migliaia di bambine rapite, schiavizzate come oggetti sessuali dai miliziani, brutalizzate per farle diventare a loro volta soldati efferati attraverso omicidi, atti di violenza inaudita come l’assassinio di genitori e fratelli.

Rosemary inizia da lì un lungo e paziente lavoro di accoglienza, recupero, riscatto personale per queste ragazze: le va a cercare nella savana, mette annunci sulle radio locali, fa girare il passaparola: a Santa Monica c’è posto e accoglienza per quante vogliono ricominciare a vivere. A queste ragazze suor Rosemary insegna l’arte di cucire e di cucinare. La professionalità della scuola di Santa Monica diventa un caso in Uganda e non solo: oggi le borse prodotte a Santa Monica vengono vendute in tutto il mondo come pezzi unici di artigianato di lusso; suor Rosemary fonda la Sister United, azienda per l’esportazione di questi prodotti molto ricercati. Diversi vip di Hollywood (come il Premio Oscar Forest Whitaker o Maria Bello di ER-Medici in prima linea) hanno appoggiato Rosemary Nyirumbe.

Tutto questo non piace a chi vuole usare le giovani per i propri scopi truci: suor Rosemary viene più volte minacciata e la sua vita è in pericolo. Ma indomita continua la sua pacifica «battaglia» che la fa conoscere, anche grazie all’associazione Pros For Africa che l’avvocato americano Reggie Whitten fonda per aiutarla. Grazie a diversi premi ricevuti, la notorietà di suor Rosemary si espande a livello internazionale: viene invitata in diversi Paesi (Canada, Stati Uniti, Svezia…) per portare la sua testimonianza, partecipa a diversi talk show negli Usa (come il The Colbert Report), incontra più volte l’ex presidente Usa Bill Clinton che ne appoggia l’impegno, la figlia Chelsea le fa visita in Uganda.

Il racconto di Cucire la speranza ci restituisce un’incredibile storia di fiducia, compassione e solidarietà di una religiosa che opera e si impegna secondo uno slogan quanto mai efficace: «La fede è meglio praticarla che predicarla».

Il coraggio e l’azione di suor Rosemary sono oggetto del documentario «Seewing Hope» che sarà trasmesso su Tv2000 a settembre.

 

GLI INCONTRI

 

Suor Rosemary Nyirumbe sarà in Italia a settembre su invito dell’Editrice Missionaria Italiana per una serie di incontri pubblici. Ecco le date: 8 settembre Verona, 12 settembre Modena, 13 settembre Torino, 14 settembre Vicenza, 15 settembre Riva del Garda (Tn), 16 settembre Pordenone per Pordenonelegge, 18 settembre alla Fraternità di Romena (Ar), 19/20 settembre Assisi (Pg) per l’incontro Uomini e religioni della Comunità di Sant’Egidio, 21 settembre Verona, 22 settembre Padova.

Informazioni dettagliate su www.emi.it

 

GLI AUTORI

 

Reggie Whitten è un avvocato americano, cofondatore di Pros for Africa, un’associazione no profit che sostiene le attività di suor Rosemary.

 

Nancy Henderson, giornalista, ha scritto per diverse testate statunitensi tra cui The New York Times, The Christian Science Monitor, The Chicago Tribune.

 

 

DICONO DI LEI

 

«Suor Rosemary è indubbiamente la persona
che ha fatto di più per aiutare le vittime dell’Lra»

Chelsea Clinton

 

«Quella di suor Rosemary è una straordinaria avventura umana»

Toni Capuozzo

 

«I traumi che suor Rosemary guarisce sono insondabili,
ma la portata del suo amore è senza limiti»

Forest Whitaker, Premio Oscar per L’ultimo re di Scozia


La città di Padova in uno degli affreschi dell'Oratorio del Redentore a Padova

“Il maestro vetraio”, ecco il testo della presentazione padovana

Il maestro vetraio, romanzo di Alberto Raffaelli

Il primo giugno nel bellissimo Oratorio del Redentore, nella parrocchia di Santa Croce a Padova, l’Associazione Rosmini ha proposto un incontro di presentazione del romanzo “Il maestro vetraio” di Alberto Raffaelli (Itaca edizioni). Vi proponiamo un’ampia sintesi degli interventi del moderatore Eugenio Andreatta, dei relatori Graziano Debellini e Francesco Jori e dell’Autore.


Oratorio del Redentore - Padova, 1 giugno 2016

PRESENTAZIONE DEL ROMANZO “IL MAESTRO VETRAIO”

di Alberto Raffaelli - ed. ITACA

 

EUGENIO ANDREATTA: La bellissima sala affrescata dell’Oratorio del Redentore dove ci troviamo oggi, in qualche modo, ci porta già dentro il romanzo che presentiamo perché anche lì si ha a che fare con una chiesa e con dei brandelli di affreschi parecchio rovinati, molto più rovinati di quelli che vediamo attorno a noi.

Guardando gli affreschi della sala dove siamo adesso possiamo notare che gli sfondi dei paesaggi sono tutti riconducibili al territorio di Padova. Sono tutti scorci della città, dei colli Euganei, delle montagne che si intravedono da Padova. E qui, in qualche modo, i pittori che hanno realizzato questi affreschi, hanno inteso contestualizzare i fatti della Passione di Gesù, nella storia, nella città e nel tessuto urbano del loro tempo. Che è quello che fa il nostro maestro vetraio che costruisce un Giudizio Universale non con una raffigurazione astratta, ma con una modalità che ci consente di entrare profondamente nelle vicende più drammatiche del tempo presente.

Questo è un aspetto bello del libro che mi piace mettere in mostra prima di dare la parola ai nostri relatori: è un libro che, tra le tante cose, è una profonda riflessione sul significato dell’arte sacra nell’epoca contemporanea. Anche se non si propone questo intento però di fatto lo fa e fa capire che l’arte sacra, nella sua vera essenza, non ci estrania dalle vicende dell’oggi, ma ci porta proprio al loro interno. Così come ognuno dei dodici quadri della vetrata del romanzo, ci fa rivivere un aspetto particolare dei drammi del nostro tempo, aprendo ultimamente a una speranza.

 

GRAZIANO DEBELLINI: Il centro del romanzo è la vetrata fatta di dodici quadri che Benedetto Zaccaria sta realizzando in una vecchia fornace di Marghera. Questo ragazzo ha cominciato a fare il mestiere del vetraio seguendo suo padre, un grande maestro vetraio di Venezia. La sua figura è segnata come un sottofondo musicale dalle immagini dei mosaici di San Marco e della Basilica di Torcello e rappresenta il cuore del romanzo. Benedetto è un ragazzo semplice, un giovane schivo, di poche parole, timido, un animo fortemente religioso.

Benedetto attraverso queste vetrate vorrebbe strappare il velo che nasconde la vera realtà per vederne finalmente le forme e i colori, come confessa quasi a se stesso in un passo del romanzo, “ma la realtà si ritraeva, si rendeva impalpabile, sfuggiva. Toccarla una volta, tastarne la scorza, sentirne la consistenza…”

Questo è un tema centrale del romanzo e i quadri della vetrata, che riflettono uno spaccato incredibile della vita, sono il modo in cui Benedetto prova ad entrare nella realtà. La vecchia fornace dove lui lavora diventa nel tempo il centro in cui si incrociano tutte le storie del romanzo. Questo accade quasi senza che Benedetto se ne accorga, perché lui va lì ogni giorno a fare il suo lavoro e per lui è faticoso arrivarci, ogni giorno parte da Venezia, prende l’autobus, deve fare l’ultimo tratto a piedi in una zona degradata, un po’ pericolosa. Via via che il racconto procede, in questa fornace potete incontrare il piccolo Nick, un ragazzino albanese ospitato nella parrocchia di Marghera che Benedetto si è preso come garzone di bottega, suo zio che invece è un trafficante, una sorta di falsario, la mamma che aveva abbandonato Nick fin da piccolo e ad un certo punto va in cerca del figlio e scopre che lui aveva trovato il suo destino nel rapporto con Benedetto, un destino buono. E poi c’è Sonia, la ragazza di cui Benedetto si innamora, c’è il parroco, don Giuseppe, il vice ispettore che svolge le sue inchieste e sua moglie Elena, una figura molto interessante da seguire, infatti il romanzo finisce con una lettera di Elena a Benedetto.

Quando nel corso del romanzo uno dei personaggi si trova di fronte a queste vetrate che Benedetto sta realizzando, il carattere della stampa cambia, si passa al corsivo, comincia la descrizione dei quadri della vetrata e si entra nella storia che vi è rappresentata.

Questi quadri raccontano storie tragiche o commoventi di miseria o di redenzione.

Quando le leggete vi accorgerete sempre di qualche dettaglio bellissimo. Ne cito una: una storia d’amore fra due persone che non vogliono perdonarsi, ma nella scena finale di questo quadro, lui, il padre, si butta in ginocchio davanti alla figlia.

In queste scene si incontra un cristianesimo semplice, che fiorisce e fa capire più di qualsiasi discorso.

In tutto il romanzo la suspense è altissima ed è una suspense che avvolge tutti i personaggi. Sembra che stia sempre per succedere qualcosa. Questo mi ha ricordato un po’ la mostra di Hopper che ho visitato a Bologna nei giorni scorsi. Hopper diceva che i suoi personaggi, queste donne che sono alla finestra, sono in attesa perché tutto può cambiare improvvisamente. I personaggi di Alberto hanno tutti questo accento di qualcosa che sta per accadere.

E in tutte le pagine del romanzo c’è questo riverbero: tutto può cambiare improvvisamente anche in mezzo al dolore, alla desolazione umana, alle intricate e contraddittorie vicende umane di cui trovate qui uno spaccato bellissimo.

Il pensiero più importante che volevo dire è che Alberto con questo romanzo ci porta dentro la durezza della realtà (perché la realtà è tosta, come ci dice sempre qualche amico) per scoprire cosa c’è di positivo. Questo libro all’inizio doveva avere un titolo che era legato al tema del Giudizio Universale. Il titolo poi è cambiato ma il tema del giudizio è rimasto. A pagina 200 si legge: “il giudizio è vedere le cose dal punto di vista di Dio”. Infatti il tema che prende la scena, e che ad un certo punto diventa il centro di tutto il romanzo, dentro i volti e i dettagli dei vari personaggi, è la possibilità di trattare le circostanze di dolore e di male in una prospettiva di bene.

Ma com’è che il male, che resta sempre male, può trasformarsi in una occasione di bene? Questo come può avvenire?

Questo è il grande messaggio che ho colto leggendo un paio di volte questo libro.

Nel romanzo, in tutti i personaggi, anche in quelli più scaltri e più negativi, c’è come un’attesa di bene, piccola o grande. C’è una attesa e un desiderio del bene che segna, in qualche modo, la vita di tutti, disgraziati, farabutti, delinquenti o altro.

Però il bene non arriva per una strada etica, non arriva su una strada in cui uno si mette a posto e fa il bravo. Ad un certo punto, ed è bellissimo questo aspetto che nel romanzo si ripete più volte, ad un certo punto succede una cosa nuova. Il perdono non è l’esito di un nostro percorso etico, di una nostra analisi psicologica. Quando arriva il perdono è un’altra cosa, è una cosa nuova. Sono bellissime le pagine dove si parla di due mendicanti e si trova esplicitata questa idea: è un’altra cosa, non c’è un percorso per cui tu entri in una pedagogia di bene e alla fine c’è il perdono. No, quello che accade ad un certo punto è un’altra cosa.

Cito una frase molto bella a riguardo di questo pensiero: è una frase di don Giussani che dice: “Questa cosa nuova non è fatta di discorsi suggeriti dalla saggezza umana o propositi di bene o progetti o impegni poggiati sulla nostra volontà di vita, oppure sulle nostre energie, sul nostro gusto di lavoro. È una cosa nuova, che ci viene incontro, che accade, che succede.” Continua ancora Giussani. “È una misura che si allarga, è come se la nostra coscienza e la nostra affettività, perciò il nostro io e le persone a cui ci leghiamo, venissero introdotte in un ignoto, in un orizzonte imprevisto, oltre la nostra misura dove tu non avresti mai immaginato”.

In questo romanzo c’è questo profumo, c’è il profumo di questa gioia, di questa scoperta, di questa sorpresa. Infatti nella lettera finale di Elena a Benedetto, nelle ultime righe del romanzo, troviamo questa espressione: “Inizia tutto di nuovo”.

La cosa più bella della vita è quella che arriva potente e gratuita e riempie anche il nostro dolore. Lo riempie di una prospettiva nuova, lo riempie con un pezzo di paradiso.

 

FRANCESCO JORI: Se noi leggiamo il libro di Alberto come se stessimo leggendo un giornale, arriveremmo quasi fino alla fine, pensando che viviamo in un mondo pessimo. Alberto usa la classica dicitura: “Ogni riferimento è puramente casuale”. Il libro invece è intriso di fatti di cronaca che leggiamo quotidianamente sui giornali e il degrado che ne emerge è un degrado reale, queste vicende riflettono purtroppo una consuetudine. Vi è nel romanzo un intreccio che coinvolge tantissime persone, politici, ma anche ufficiali delle forze dell’ordine, magistrati, ecclesiastici della Curia e ci viene dato di quella che dovrebbe essere la classe dirigente della società uno spaccato intriso di veleni.

Ma dicevo “quasi”, “quasi fino alla fine”, perché in realtà il libro mi porta ad una riflessione, come già nel precedente romanzo, “L’Osteria senza oste”, e la riflessione è questa: quanto siamo distanti noi giornalisti dal descrivere la realtà e quanto concorso di colpa abbiamo nella situazione di degrado che si è creata. Dico della situazione di degrado non pensando in primo luogo alle situazioni penali, mi riferisco al nostro vivere civile. Subiamo da tempo un bombardamento di rottura, di riduzione dell’individuo a un piccolo fortino, un piccolo ghetto in cui ognuno si barrica. C’è una chiusura progressiva in noi stessi, che viene da lontano, che viene da una mancata semina di valori che è nata da lontano nel tempo.

Infatti se la realtà è quella che ci raccontano i giornali, che ci racconta la televisione, beh allora siamo rovinati.

La verità è che la realtà non è questa. Non è solo questa. Esiste un’altra realtà, molto più ampia che però non esiste per chi non la sa guardare.

Il 2 giugno festeggiamo la festa della Repubblica. Mi viene in mente quello che dice Calvino ne “Le città invisibili” dove parla dell’inferno in cui viviamo e parla di una città silenziosa che è quella che manda avanti il Paese. La festa della Repubblica è la festa delle persone silenziose che mandano avanti il paese, che in qualsiasi ruolo ogni mattina si alzano, fronteggiano una serie di difficoltà, conoscono una serie di cadute e hanno il coraggio di rialzarsi ogni volta. Se noi pensiamo alla nostra esperienza personale, conosciamo sicuramente una serie di persone che ci stanno intorno che hanno affrontato questo calvario laico. Molti di noi forse hanno dovuto subire questo stesso calvario. Questa vicenda del calvario è paradigmatica perché nel momento in cui uno si trova sotto questo carico pesantissimo di difficoltà ha l’impressione di aver perso la partita, di essere sconfitto per sempre. A me viene in mente la terrificante vicenda di Gesù Cristo stesso, in persona, che nel momento di morire lancia quel grido che non è una domanda, è un’affermazione: “Padre, perché mi hai abbandonato”. Dà per scontato di essere stato abbandonato e si sente tradito nel momento decisivo. Però dopo il venerdì di Passione c’è il sabato di silenzio in cui la vita riparte, riparte dietro la pietra del sepolcro, fino a portare alla Resurrezione. Queste sono esperienze che moltissimi di noi hanno provato. E quando ci capita una disgrazia ci pare che tutto ci crolli addosso, ma ancora una volta ciascuno di noi trova la forza di ripartire.

Questo è il messaggio profondo che viene dal romanzo. Tutto sommato il protagonista, il vice ispettore Giovanni Zanca, che è lo stesso del precedente romanzo, “L’Osteria senza oste”, è tutt’altro che un eroe.

Già nel precedente libro viene cacciato via dalla stazione di Polizia di Valdobbiadene e mandato in castigo in una situazione marginale. E qui, proprio per questo suo stare sottotono e fare quello che ritiene il suo dovere, riesce a riscattare l’intera storia. La storia delle persone che girano attorno a lui è una storia di riscatto, compresa quella del vicesindaco corrotto che il racconto lascia dentro il carcere ma che trova dentro di sé un motivo di riscatto.

Infine una riflessione che chiama in causa tutti noi: noi non dobbiamo cedere alla dannazione quotidiana che raccontano i media.

Vi consiglio una cosa: non comprate i giornali e non accendete la tv. O, se lo fate, perché a volte non se può fare a meno, non credete a quello che dicono. Ragionate con la vostra testa, guardatevi intorno con i vostri occhi perché in mezzo alla città, alle periferie, ci sono queste persone raccontate dal romanzo, che sono tutte positive.

Per questo credo che oggi abbiamo bisogno di andare a scuola di una cosa fondamentale, a scuola di una parola che è di moda, ma che è una parola bellissima: dobbiamo andare a scuola di misericordia. Il papa Francesco ha avuto il grande merito di rilanciare questa parola, ma essa è nell’agenda stessa del messaggio religioso, del messaggio cristiano. Misericordia vuol dire guardare all’altro come a una persona. “Non ti giudico, ti accetto per quello che sei”. È una cosa difficile perché, se ci pensate, le relazioni tra le persone sono basate sulla pressione reciproca. L’insulto, l’attacco, la violenza sono tutte basate sulla paura. Io vivo con la paura: ho paura dell’altro.

Guardate, ne “Il mercante di Venezia” di Shakespeare c’è un’idea avvincente di misericordia, vi consiglio di andare a rileggere il punto in cui Porzia, in tribunale, fa un’arringa in cui c’è un passaggio sulla misericordia che è qualcosa di strepitoso. Ed è un punto di congiunzione per che crede e chi non crede. E dice proprio quanto importante sia guardare all’altro, al diverso, con misericordia.

In fin dei conti c’è tutto dentro la parabola del buon samaritano. Perché il samaritano, nella cultura dell’epoca, era quanto di più distante vi era da Israele. Però lui è l’unico che si ferma, si ferma e riconosce nel diverso il suo prossimo. Il prossimo è la persona più lontana come provenienza, ma che interseca la mia strada. È nell’incontro con lui che riparte una reciproca speranza. Ed è questo il punto che può unire chi crede e chi non crede. Oggi abbiamo bisogno di parlarci, abbiamo bisogno di metterci in confronto tra di noi facendo di questa diversità una ricchezza.

In fin dei conti nel romanzo di Alberto le persone sono straordinariamente diverse una dall’altra, eppure hanno un punto di convergenza.

Ci vuole assolutamente una pedagogia della misericordia che non troverete sicuramente, torno a dire, sui giornali ma che c’è. C’è!

Noi dobbiamo avere il coraggio di guardare alle tante Marghera del mondo come un luogo di riscatto.

Per concludere, il libro è scritto in modo molto avvincente e questi due piani di cui parlava Graziano, quello delle vetrate in corsivo e quello del giallo in tondo mi ricordano molto, per chi l’ha letto, “Il maestro e Margherita” di Bulgakov.

Quindi, in sintesi, invece che guardare la tv o leggere i giornali, leggete il libro di Alberto così non rischiate di essere tentati dal suicidio.

 

ALBERTO RAFFAELLI: Ringrazio Eugenio, Francesco e Graziano per la bontà che hanno avuto di leggere e commentare il mio romanzo.

Io volevo dire solo due brevi cose relativamente all’esperienza che è stata per me scrivere questo romanzo.

Innanzitutto lo spunto iniziale che mi ha mosso a scrivere il romanzo sta nella frase di papa Francesco che è stata riportata in fondo al volume. Il papa, riferendosi al Giudizio Universale, dice: “Quel giudizio finale è già in atto incomincia adesso, nel corso della nostra esistenza. Tale giudizio è pronunciato in ogni istante della vita.”

Mi ha colpito questa affermazione del papa secondo cui il Giudizio Universale accade ogni giorno. È un’esperienza che corrisponde a quello che mi succede spesso alla mattina. Io mi alzo abbastanza presto per andare a Valdobbiadene, e spesso mi ritrovo a chiedermi: “Ma oggi, che cosa è veramente reale? La realtà è la disperazione che si vede in giro e che vedo spesso sulla faccia dei miei studenti e sulla faccia dei loro genitori? C’è qualcos’altro? Che cos’è veramente reale?” Uno capisce che a rispondere al dolore diffuso che ci circonda da ogni parte non è una intenzione, non è un discorso, non è qualcosa di fumoso. In una pagina del romanzo uno dei due mendicanti chiede all’altro: “Chi può abbracciare tutto questo dolore? Chi lo può sostenere? Chi lo può portare sulle spalle tutto questo dolore?” Questo giudizio, su cosa sia reale siamo chiamati a darlo, come dice il papa, in ogni istante. Questa parola ‘istante’ è qualcosa a cui tengo moltissimo perché l’educazione non avviene secondo un percorso omogeneo e graduale di crescita, ma accade in un istante.

Nell’istante si attua il riconoscimento della realtà, si attua la lealtà, o meno, con cui la si riconosce, si attua la libertà. In ogni istante ognuno di noi decide in un verso o in un altro, oppure in uno dei tanti versi possibili perché c’è un’infinità di scelte che possiamo fare in ogni istante. Questa è una dimensione fondamentale della vita che ho voluto evidenziare nel romanzo.

La seconda cosa straordinaria che mi è successa scrivendo questo romanzo è che all’inizio ero partito con l’idea di rappresentare, nei sei quadri dell’Inferno, il male, il male dei nostri giorni, e, nei sei quadri del Paradiso, il bene, la possibilità di bene che abbiamo.

Ma mentre scrivevo i quadri dell’inferno, arrivato ad un certo punto, queste descrizioni mi erano diventate insopportabili. Era diventato insopportabile andare avanti. Io non capivo perché. Sono rimasto in questo impasse diverse settimane. Finché un giorno, in un contesto assolutamente casuale, mi è stata citata la frase di don Giussani in cui afferma che “la realtà non è mai veramente affermata, se non è affermata l'esistenza del suo significato». Allora ho capito che nemmeno il male può essere affermato, raccontato, senza che sia ‘guardato’ da qualcuno che lo abbraccia, che lo ama, che ne ha pietà. È impressionante questo, ma è così. E mi è venuto in mente che durante i miei studi di filosofia all’Università avevo incrociato la teoria di sant’Agostino sulla questione del male, che allora non avevo capito, in particolare là dove afferma che in qualche modo il male coincide con il non essere. È qualcosa che non ha ‘essere’. Per quanto possa apparire paradossale, è esattamente così. Ho capito allora perché il male non si può nemmeno raccontare. Di questo facciamo esperienza nelle nostre giornate, quando siamo inviluppati nell’astio verso qualcuno, magari con tutte le ragioni del mondo, ed è come se pian piano ci venisse a mancare il respiro, ci venisse a mancare il terreno sotto i piedi. Quando viviamo in una logica di male è come se la vita, fin nella radice delle cellule, si andasse affievolendo e venisse a mancare. È come se gli atomi cominciassero a rattrappirsi. Probabilmente succede qualcosa del genere alla radice dell’essere, qualcosa che vien meno.

Allora ho riscritto tutti i quadri raccontando le stesse scene attraverso lo sguardo di qualcuno che aveva pietà del male che veniva raccontato.

Dunque se il male è guardato attraverso lo sguardo di qualcuno che lo abbraccia, che ne ha pietà, non solo può essere raccontato, ma si rivela come una occasione di bene.

Nella figura di un personaggio del romanzo, il Barba, a cui tengo molto, si trova il tema del perdono e della misericordia. Perché è vero come dice Giussani che la parola ‘perdono’ o la parola ‘misericordia’ andrebbe strappata dal vocabolario umano perché all’uomo è impossibile perdonare veramente, e uno può non perdonare per tutta la vita, eppure può riconoscere che c’è Qualcuno che ci perdona. E a fronte di questo riconoscimento uno può anche tenersi dentro la sua incapacità a perdonare, non importa più il suo sforzo, importa questo riconoscimento, che c’è Qualcuno che ci perdona, che ha perdonato noi e ha perdonato il mondo.

Grazie.


Armonie giottesche, le immagini del concerto

Un grande successo il concerto-evento “Armonie Giottesche” con Marcelo Cesena, venerdì 10 giugno 2016 all’Auditorium Pollini di Padova. Vi proponiamo le prime foto dell’evento realizzate da Antonio Naia: una prima recensione è comparsa sul blog di Eugenio Andreatta: Armonie Giottesche, un percorso dello sguardo e del cuore.


La nostra visita alla Padova ebraica

La visita dell'Associazione culturale Antonio Rosmini alla sinagoga di Padova

Un cimitero del XIV secolo nel cuore del centro, una sinagoga realizzata all’interno di un palazzo signorile rinascimentale e un museo fresco di inaugurazione ospitato nella vecchia sinagoga azkenazita, ricostruita dopo l’incendio doloso del ‘43.

Questi i luoghi attraverso i quali una guida d’eccezione, Gadi Luzzato, professore di storia alla Boston University ed esponente di spicco della comunità ebraica di Padova, domenica 29 maggio ha raccontato la storia della sua gente lungo i secoli, dal Duecento ad oggi, le sue relazioni proficue e talvolta drammatiche con la società circostante, fino a definire il ghetto come luogo naturale di scambio e di protezione di un’identità.

Venticinque soci Rosmini hanno potuto godere di questa straordinaria storia e incontrarne attraverso la memoria i personaggi più significativi. E questo è solo il primo passo in un rapporto tra l’Associazione Rosmini e la comunità ebraica di Padova: sono allo studio nuove iniziative in collaborazione.


Il 1 giugno a Padova la prima presentazione pubblica de “Il maestro vetraio”

chagall-vetrata[1]L’omicidio di una misteriosa donna, le losche vicende di corruzione nei palazzi di Venezia, una ragazza moldava clandestina sparita nel nulla. Da queste vicende prende le mosse “Il maestro vetraio”, il secondo romanzo dello scrittore veneto Alberto Raffaelli. L’Associazione Rosmini vi invita alla prima presentazione pubblica del romanzo, che si terrà mercoledì 1 giugno alle 18.45 a Padova nell’Oratorio del Redentore, a fianco della chiesa di Santa Croce in corso Vittorio Emanuele 178 .

Presentazione del romanzo

IL MAESTRO VETRAIO

di ALBERTO RAFFAELLI

autore di “L’Osteria senza l’oste”

locandina invito Il maestro vetraio di Alberto RAffaelliInterverranno:

Graziano Debellini imprenditore e presidente dell’Associazione Santa Lucia onlus

Francesco Jori editorialista de Il Mattino di Padova

Coordina:

Eugenio Andreatta giornalista

Sarà presente l’autore.

 

Scarica la locandina dell'evento

Leggi la scheda del volume su www.itacaedizioni.it/il-maestro-vetraio

 


Sui nani di Biancaneve e la gloria dell’imprevisto

biancanevedi Giovanni Scarpa. Ritengo inevitabile come prima cosa scusarmi con i lettori per quell’indefinito e inesprimibile camouflage parapornografico che un titolo come Sui nani di Biancaneve… suggerisce, almeno nel sottoscritto. A parte questo, il breve scritto che segue si propone di affrontare non uno, ma bensì due “grandi problemi” legati al classico Disney e alla sua origine letteraria. Il primo, lo vedremo subito, ossessiona il sottoscritto da oltre due anni e riguarda, per così dire, la classificazione naturale dei nanetti della fiaba, il loro concretizzarsi all’interno di una specifica area semantico-istituzionale. Sicuramente è una domanda che risulterà pura idiozia per alcuni, ma turba profondamente chi scrive: i nani in questione, i famosi “Sette nani”, sono esseri umani affetti da nanismo o nani appartenenti al regno Fantasy?

sette nani (2)Il problema nasce innanzitutto dalla diffusa e inevitabile commistione delle due categorie nell’iconografia immaginifica del volgo. I tratti dei nani fantasy non possono che ispirarsi a quelli dei nani reali! Tanto più che un’affascinante ricerca di Barthels vede in Biancaneve certa Maria Sophia Margaretha Catherina von Erthal, e nei sette nani gli operai impiegati per lavorare nelle antiche miniere nei pressi di Lohr (spesso affetti da nanismo o ragazzi). Il classico Disney del 1937 e le precedenti realizzazioni artistiche non aiutano a risolvere l’arcano: vi scorgiamo una saggia tendenza a non sbilanciarsi troppo, a caratterizzare umanamente i personaggi e al contempo rassomigliarli esternamente ai più classici gnomi. La “confusione” aumenta quando osserviamo i consueti “sette nani da giardino” presentarsi sotto mentite spoglie di gnomi, troppo bassi per essere umani, troppo bassi anche per essere nani fantasy. L’analisi lessicale per ora non ha fornito grosse rivelazioni presentandomi semplici ambivalenze (anche se un linguista tedesco potrebbe forse meglio spiegarmi la differenza tra Dwarf e Zwerge). Insomma, a voi la patata bollente: attendo utili consigli.

sette nani (4)Il secondo problema, di ordine più squisitamente filologico, riguarda il “finale” della fiaba. Rimane assodato che la memorabile scena del bacio disneyano ha saputo influenzare vecchie e nuove generazioni, ma la scena risolutrice della fiaba dei Grimm rimane per il sottoscritto di una poeticità scandalosa (letteralmente parlando). Si legge infatti verso la fine: «Ma un bel giorno un principe capitò nel bosco e si recò a pernottare nella casa dei nani. Vide la bara di Biancaneve sul monte e lesse ciò che vi era scritto a caratteri d’oro. Allora disse ai nani: -Lasciatemi la bara; vi darò ciò che vorrete in compenso-. Ma i nani risposero: -Non la cediamo per tutto l’oro del mondo-. -Allora regalatemela- disse egli -non posso vivere senza vedere Biancaneve: voglio onorarla e ossequiarla come colei che mi è più cara al mondo-. A queste parole i buoni nani si impietosirono e gli diedero la bara. Il principe ordinò ai suoi servi di portarla sulle spalle. Ora avvenne che essi inciamparono in uno sterpo e per l’urto, il pezzo di mela avvelenata che Biancaneve aveva inghiottito le uscì dalla gola. Ella tornò in vita, si mise a sedere e disse: -Ah Dio! dove sono?-. -Sei con me!- rispose il principe pieno di gioia, le raccontò ciò che era avvenuto e aggiunse: -Ti amo al di sopra di ogni altra cosa al mondo; vieni con me nel castello di mio padre, sarai la mia sposa-».

sette nani (1)Ai più questa scioccante farsa dell’inciampo sembrerà l’assassinio del romanticismo, la prosaica versione stupida dei Grimm. A me pare invece brillare di una profonda verità: certo la magia di un bacio non ha alcun paragone, ma che bello pensare che l’evento più importante della nostra vita possa provenire da un inciampo, da un errore, da una svista. I baci si possono dare, gli imprevisti si possono solo ricevere. E poi che bella la risposta del principe a Biancaneve: Dove sono? Sei con me! Come a dire: non importa il luogo, ma il fatto che tu sei qui, ora, al mio fianco. Tutto grazie a quei servi sbadati, tutto grazie a quegli sterpi insidiosi. Insomma: «un imprevisto è la sola speranza» direbbe Montale, e Biancaneve ne è uno splendido esempio.


A lezione di libertà, incontro con Brett Scharffs

Brett Scharffs 4Cosa rende la religione un fattore di libertà per tutti? Se lo è chiesto Brett Scharffs, professore di diritto alla Brigham Young University dello Utah (Stati Uniti) e neo-direttore dell’International Center for Law & Religion Studies (icrls.org), il più grande network di studiosi e contatti sulla libertà religiosa nel mondo. L’associazione Antonio Rosmini venerdì 6 maggio ha organizzato una cena/conversazione con l’importante studioso, il quale ha presentato i risultati di una ricerca tanto necessaria quanto sorprendente, sul ruolo che la religione svolge nel favorire o reprimere la libertà religiosa.

Scharffs ha utilizzato i dati forniti dal Pew Research Center (www.pewresearch.org), uno dei più importanti istituti di ricerca in campo sociale. I dati del Pew parlano chiaro - e quasi impietosamente - sul rapporto tra libertà religiosa e maggioranze religiose: nei Paesi in cui c’è una forte presenza di una sola confessione religiosa, le minoranze sono normalmente oppresse o comunque osteggiate, sia attraverso la legge, sia nella pratica sociale. Un argomento che intristisce lo stesso Scharffs, personalmente credente, che si trova ad ammettere che la religione non è sempre una risorsa di libertà.

Brett Scharffs 1Ma, ancora dati alla mano, lo studioso mostra che a questa tendenza diffusa delle maggioranze religiose a schiacciare le minoranze esiste un’enorme eccezione: la Chiesa cattolica. In nessun Paese in cui il cattolicesimo è maggioranza le minoranze sono conculcate.

Cosa rende possibile questo? Da qui la ricerca di Scharffs si immerge nella cultura cattolica e nella sua dottrina sulla libertà religiosa: un’impresa eccezionale per profondità, genuina curiosità e capacità d’immedesimazione dello studioso, che cattolico non è e proprio per questo ha cercato di apprendere cosa, nelle sue parole, abbia trasformato il cattolicesimo da “maggiore oppositore a più strenuo difensore della libertà religiosa”.

Brett Scharffs 5Il percorso che Scharffs descrive traccia un arco temporale di due secoli, nel corso dei quali la Chiesa cattolica ha sviluppato i semi della dichiarazione Dignitatis Humanae (1965) sulla libertà religiosa. È un percorso tortuoso ma entusiasmante, attraverso il quale Scharffs indica che la religiosità ha la capacità di evolvere e maturare e mostra cosa la renda un bene per tutti.

Per chi volesse leggere il testo (in inglese): http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2776352, Il lavoro è ricco di mappe e diagrammi che facilitano la comprensione ed esaltano l’importanza della ricerca: davvero una testimonianza encomiabile di un genuino interesse ad imparare da parte del suo autore, e di come l’intreccio tra libertà e verità sia un tesoro da conquistare e un fattore di bene per tutti.

 

Guarda le slides della presentazione di Brett G. Scharffs “Religious Majorities and Restrictions on Religion” http://www.rosminipadova.it/wp-content/uploads/2016/05/Religious-Minorities-Notre-Dame-Presentation-2015-11-02.ppsx

 

Andrea Pin
Associazione culturale Antonio Rosmini


Incontro con Grégoire, l’uomo che da oltre 30 anni libera i fratelli africani dalle catene

160521 Gregoire locandinaSabato 21 maggio alle 18.00 nel polo educativo Scuole Romano Bruni di Padova in via Fiorazzo, 7 (loc. Ponte di Brenta) si terrà un incontro-testimonianza con Grégoire Ahongbonon, l’uomo che da oltre 30 anni libera i fratelli africani dalle catene. L’incontro è promosso dall’Associazione culturale Rosmini in collaborazione con l’Associazione di Solidarietà internazionale Jobel, l’Associazione Santa Lucia per la cooperazione e lo sviluppo tra i popoli onlus e l’Istituto Romano Bruni.

Grégoire Ahongbonon nasce a Ketoukpe, un piccolo villaggio del Benin al confine con la Nigeria, il 10 gennaio del 1953, da una famiglia di contadini. Da piccolo viene battezzato e trascorre la sua infanzia nel villaggio natale. Nel 1971 emigra in Costa d’Avorio per lavorare come riparatore di pneumatici.

Conosce, negli anni successivi, un periodo di prosperità economica che lo porta a diventare proprietario di alcuni taxi.

In questo tempo abbandona completamente la Chiesa Cattolica ritornando alle pratiche feticiste ed abbracciando uno stile di vita libertino. Verso la fine degli anni settanta conosce gravi disavventure finanziarie che lo porteranno al fallimento economico e personale fino a condurlo sull’orlo del suicidio.

54417508[1]E’ in questo periodo che Grégoire sperimenta un incontro profondo con Dio e si riavvicina alla Chiesa Cattolica partecipando, nel 1982, ad un pellegrinaggio a Gerusalemme nel corso del quale una frase pronunciata dal sacerdote lo toccherà profondamente: “ogni cristiano deve posare una pietra per costruire la Chiesa”.

Questa frase, in un animo sensibile e reso ancor più consapevole dalla grave crisi personale, cambia letteralmente la sua vita. Grégoire, infatti, rientrato a Bouaké, si accorge di una persona che vaga nuda per strada alla ricerca di cibo, le si avvicina e si rende conto che è un uomo malato di mente che a causa della sua condizione è stato emarginato dalla società. Comincia così ad interessarsi alla causa delle persone affette da disturbi psichici, scopre le condizioni disumane in cui vivono in Africa Occidentale dove si crede siano colpiti da stregoneria. Si rende conto che l’incatenamento e l’abbandono nelle strade di questi individui sono pratiche diffuse ed accettate dalle comunità locali. Grégoire decide così di dedicare la sua vita alle persone affette da disturbi psichici e agli emarginati dalla società ed inizia a liberare dalle catene ed a raccogliere dalle strade le persone con problemi mentali.

Ritornato a Bouaké, in Costa d’Avorio, avvia un gruppo di preghiera che ben presto si trasformerà in un gruppo di carità per i malati bisognosi di cure: è l’Associazione S. Camillo di Bouaké. Grégoire è sposato ed è oggi padre di 6 figli, vive a Bouaké in Costa d’Avorio.

 

Per saperne di più visita il sito www.gregoire.it.