Vita di don Giussani, le immagini dell’incontro

Don Giussani visto da tre persone che non l’hanno mai conosciuto, ma che si sono misurate senza riserve con la sua vita, a partire dalla sua biografia. Con loro, l’autore del testo: uno che su don Giussani aveva promesso (per discrezione) di non scrivere più una riga. Ma che poi ha dovuto riconoscere «l’irrompere del Mistero» in una richiesta che andava in senso esattamente opposto: scrivere un’opera che ha richiesto quasi sei anni di ricerche e di (appassionanti) scoperte.

Le immagini della serata di giovedì 6 gennaio al Centro congressi “A. Luciani” di Padova con Luciano Violante, monsignor Danilo Serena, Antonio Ramenghi e Alberto Savorana. Foto Carola Bruno.


A Padova la testimonianza di padre Aldo Trento

padre_AldoVenerdì 7 febbraio alle 18.30 nell'Aula Magna dell'istituto Romano Bruni in via Fiorazzo 7 ci sarà un incontro-testimonianza con padre Aldo Trento, missionario della Fraternità San Carlo Borromeo in Paraguay.

Il tema dell'incontro è “La gioia di essere cristiani: vivere la fede nelle periferie esistenziali del mondo”.

Padre ALDO TRENTO (1947) entra nel seminario dei Padri Canossiani e nel 1971 è ordinato sacerdote. Nei primi anni di sacerdozio si dedica ai figli dei carcerati della città di Salerno. Viene trasferito a Feltre (BL) ed entra in Comunione e Liberazione, dove ricopre il ruolo di responsabile provinciale per 13 anni. In seguito entra nella Fraternità Sacerdotale di San Carlo Borromeo e nel 1989 viene inviato da mons. Luigi Giussani e mons. Massimo Camisasca in missione in Paraguay, dove è parroco nella chiesa di San Rafael ad Asunción. Da alcuni anni gestisce un centro che sino ad oggi ha assistito quasi 15.000 malati di Aids, per la maggioranza bambini

 

Approfondimenti
Leggi "Que teneis hacer de mì" (Maurizio Vitali, Centro Culturale don Renzo Fumagalli)
Leggi il resoconto di Andrea Babbo da San Donà del Piave


Quel filo rosso da sant’Agostino a papa Francesco… passando per Padova

battesimoL’Osservatore Romano di sabato 18 gennaio propone un notevole articolo di Leonardo Lugaresi, docente di letteratura cristiana antica all’Università Alma Mater di Bologna, dal titolo “Il filo di Agostino tra Ratzinger e Bergoglio... Dalle Confessioni alla Lumen fidei”. Una continuità sotto l’egida della concezione agostiniana della grazia che proprio papa Bergoglio sottolineava nella prefazione a “Il tempo della Chiesa secondo Agostino”, il volume nel quale, come l’allora arcivescovo di Buenos Aires scriveva, «scorrono le appassionate lezioni sull’attualità di sant’Agostino svolte da don Giacomo Tantardini presso l’Università degli Studi di Padova, nel corso di tre anni accademici, dal 2005 al 2008». Lezioni promosse fin dal 1998 dall’Associazione Rosmini.

Nella foto: il battesimo di Agostino nell’affresco di Guariento nella chiesa padovana degli Eremitani.

Qui sotto vi proponiamo l’articolo di Lugaresi sull’Osservatore Romano

Aggiungiamo i link al commento sul sito internet piccolenote.it  e alla prefazione di Jorge Maria Bergoglio alle lezioni che don Giacomo Tantardini.

 

L’Osservatore Romano, venerdì 18 gennaio, p. 5, Il filo di Agostino tra Ratzinger e Bergoglio... Dalle Confessioni alla Lumen fidei (L. Lugaresi)

 

All’inizio della terza parte dell’enciclica Lumen fidei, quella dedicata alla trasmissione della fede, il lettore si imbatte in questa suggestiva immagine: «È una luce che si rispecchia di volto in volto, come Mosé portava in sé il riflesso della gloria di Dio dopo aver parlato con lui (...). La luce di Gesù brilla, come in uno specchio, sul volto dei cristiani e così si diffonde, così arriva fino a noi, perché anche noi possiamo partecipare a questa visione e riflettere ad altri la sua luce» (n. 37).

Colpisce, in queste parole, che proprio il riverbero della luce di Cristo sia indicato dal Papa come la prima forma di trasmissione della fede. «La fede si trasmette, per così dire, nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un’altra fiamma», prosegue lo stesso paragrafo della lettera, lasciandoci capire che questa sorta di osmosi viene prima di ogni attività missionaria organizzata, di ogni presa di posizione pubblica, di ogni progetto culturale, di ogni programma catechetico. Purtroppo noi moderni abbiamo qualche problema con l’immagine della luce, abituati come siamo a declinarla metaforicamente secondo un’accezione sempre un po’ illuministica, e - nell’esistenza quotidiana - a dare per scontato il possesso e il controllo della luce materiale, tanto che anche il più breve blackout ci è insopportabile.

Ci manca l’esperienza della luce come dono e quella dell’ineluttabilità delle tenebre: così, per esempio, quando preghiamo l’antico inno della compieta, Te lucis ante terminum, che spessore di coscienza hanno quelle parole, quando per noi la luce non ha mai termine e nelle nostre città non viene mai propriamente il buio della notte?

«È urgente recuperare il carattere di luce della fede» dice il Papa nell’enciclica (n. 4), ma per farlo occorre dunque comprendere che tale luce non è quella di un’immediata nostra chiarezza di visione su ogni cosa (un po’ come la «formula che mondi possa aprirti» di montaliana memoria), non è la luce di un faro che da noi si proietta sulla realtà permettendoci di conoscerne e spiegarne ogni dettaglio; essa è piuttosto come un raggio che colpisce e illumina innanzitutto il nostro volto. In virtù della fede, dunque, possiamo sì dirci “illuminati”, ma nel senso proprio del participio passato del verbo, non in quello (sempre larvatamente gnostico) di un aggettivo sostantivato che designa i possessori di una luce che dissipa l’oscurità del mondo e rivela segreti inaccessibili a coloro che sono nell’ignoranza.

La portata decisiva di questa distinzione, nell’intendere l’immagine della luce della fede, si coglie maggiormente se ci si riferisce al suo retroterra agostiniano, del resto esplicitamente richiamato dall’enciclica al paragrafo 33: «Nella vita di sant’Agostino - scrive Papa Francesco - troviamo un esempio significativo di questo cammino in cui la ricerca della ragione, con il suo desiderio di verità e di chiarezza, è stata integrata nell’orizzonte della fede. (...) e così ha elaborato una filosofia della luce che accoglie in sé la reciprocità propria della parola e apre uno spazio alla libertà dello sguardo verso la luce. Come alla parola corrisponde una risposta libera, così la luce trova come risposta un’immagine che la riflette».

Le Confessioni di Agostino ci offrono alcuni esempi estremamente significativi di questi diversi modi di intendere l’illuminazione della fede. Ne vogliamo ricordare almeno due: nel quarto libro, ricordando le sue imprese di giovane intellettuale orgoglioso di aver compreso da solo i testi filosofici più ardui e convinto di trovare in essi la chiave per conoscere Dio, Agostino descrive così la sua posizione umana: «Volgevo le spalle alla luce e il viso alle cose da essa illuminate, per cui la mia faccia stessa, con la quale distinguevo le cose illuminate, non era luminosa (dorsum habebam ad lumen et ad ea, quae inluminantur faciem: unde ipsa facies mea, qua inluminata cernebam, non inluminabatur)» (4, 16, 30). Con questa folgorante osservazione egli descrive perfettamente una situazione in cui anche noi rischiamo facilmente di trovarci. Anche noi, infatti, benché convertiti e battezzati, siamo tentati di vivere e di comportarci da “illuminati”, nel senso che usiamo la fede per illuminare le cose e intendiamo la missione come lo sforzo di trasmettere agli altri la nostra visione del mondo, ma «non abbiamo la faccia rivolta al mistero» di Dio che ci illumina, e di conseguenza non ne riflettiamo la luce. Sono due posizioni diametralmente opposte, benché entrambe si dicano cristiane.

Come può avvenire la conversione dall’una all’altra, per cui letteralmente si capovolge l’orientamento della vita?

Agostino ce lo mostra esemplarmente nell’ottavo libro raccontando la vicenda di un altro intellettuale, Mario Vittorino. Questo doctissimus senex, che sa tutto e ha letto tutto, e da tutti è venerato (con tanto di statua nel foro romano. Più di un nostro senatore a vita o un premio Nobel), leggendo la Scrittura e studiando con grande scrupolo omnes christianas litteras si convince della verità del cristianesimo. Ne parla con un prete colto, Simpliciano (ma non in pubblico: sono confidenze che uno come lui può fare, secretius et familiarius, solo tra persone di qualità, che possono capirle) e gli dice: «Sai, io ormai sono cristiano». Ne riceve una risposta brusca, che oggi forse sarebbe da molti riprovata in quanto contraria allo spirito del dialogo: «Non ti credo, e non ti considero cristiano finché non ti vedo nella chiesa di Cristo». La replica, ironica e sferzante come si conviene a un grande retore, è rimasta famosa (e potrebbe essere il motto di tutti i “cristianisti” senza fede): «Sono dunque i muri che fanno i cristiani? (ergo parietes faciunt christianos?)» (8, 2, 4).

Se Vittorino fosse solo interessato al dialogo per il dialogo, la cosa finirebbe qui: il prete e il professore si ripeterebbero quello scambio di battute a ogni incontro (saepe parietum inrisio repetebatur), reciprocamente compiaciuti della propria arguzia.

Ma Vittorino è un uomo seriamente preoccupato del suo destino, che sa - come dice splendidamente Agostino - «arrossire di fronte alla verità», e un giorno si presenta all’amico dicendogli semplicemente: «Andiamo in chiesa, voglio diventare cristiano» (eamus in ecclesiam: christianus volo fieri).

Quel che succede dopo non possiamo qui riferirlo nei dettagli: basti dire che il grande intellettuale declina l’offerta che i preti gli fanno di celebrare il battesimo in forma riservata e la cerimonia si svolge davanti a tutti, come una grande performance della fede, in cui Vittorino semplicemente si mostra, fa vedere il suo volto illuminato dal battesimo. E tutti lo guardano, tutti ripetono il suo nome, e quando fa la sua professione di fede, dice Agostino, «avrebbero voluto rapirselo nel loro cuore» (volebant eum omnes rapere intro in cor suum) (8, 2, 5).

L’attrattiva suscitata da Vittorino, la bellezza che lo rende così desiderabile per quella folla che se lo mangia con gli occhi, è ben diversa dal fascino umano che un maestro dalla forte personalità può avere sul suo uditorio: per intenderci, non è quella che, stando a Porfirio, brillava sul volto di Plotino quando faceva lezione (Porfirio, Vita di Plotino, 13). È la luce divina che brilla, come su uno specchio, sul volto del battezzato, che ha appena ricevuto quel sacramento che l’antichità cristiana, non per nulla, ha tanto spesso preferito chiamare col nome bellissimo di “illuminazione” (fotismos).

Ha scritto il cardinale Bergoglio nella prefazione a un volume su Agostino (Giacomo Tantardini, Il tempo della Chiesa secondo Agostino, Roma, Città Nuova, 2009, pagine 388, euro 22): «Se Agostino è attuale, se ci è contemporaneo (...) lo è soprattutto perché descrive semplicemente come si diventa e si rimane cristiani nel tempo della Chiesa. (...) Qui sta il punto: alcuni credono che la fede e la salvezza vengano col nostro sforzo di guardare, di cercare il Signore. Invece è il contrario: tu sei salvo quando il Signore ti cerca, quando Lui ti guarda e tu ti lasci guardare e cercare. Il Signore ti cerca per primo. E quando tu Lo trovi, capisci che Lui stava là guardandoti, ti aspettava Lui, per primo. Ecco la salvezza: Lui ti ama prima. E tu ti lasci amare. La salvezza è proprio questo incontro dove Lui opera per primo. Se non si dà questo incontro, non siamo salvi. Possiamo fare discorsi sulla salvezza. Inventare sistemi teologici rassicuranti, che trasformano Dio in un notaio e il suo amore gratuito in un atto dovuto a cui Lui sarebbe costretto dalla sua natura. Ma non entriamo mai nel popolo di Dio». Forse è in questa radice agostiniana, come già altri hanno notato, che si trova una delle ragioni più profonde della consonanza di due personalità così diverse come il Papa emerito Benedetto XVI e Papa Francesco, e forse è qui anche la via per non farsi intrappolare in una falsa antitesi tra dottrina ed esperienza come quella che rischia di profilarsi in certi recenti dibattiti intraecclesiali.

 


Robert Capa. Quando la memoria non rimane nostalgia ma diventa provocazione

mostra_capa_07[1]Vi proponiamo un commento dell’architetto bellunese Alberto De Biasio alla mostra ROBERT CAPA. “LA REALTÀ DI FRONTE”, aperta fino al 2 febbraio a Villa Manin di Passariano di Codroipo. Un commento che diventa anche un invito a visitare la mostra e soprattutto a lasciarsi provocare da immagini che non lasciano indifferenti.

 

Il sito internet della mostra

 

“Avevo scattato l’ultima foto dell’ultimo soldato che muore. Nell’ultimo giorno cade sempre qualcuno degli uomini migliori, ma i sopravvissuti faranno presto a dimenticare.” Con queste parole, venate di una certa disincantata malinconia, Robert Capa il più grande corrispondente di guerra del ventesimo secolo, ci invita alla mostra di Villa Manin a Passariano, che chiude i cancelli il 2 febbraio prossimo. Un’occasione imperdibile per non dimenticare quel mattatoio di eventi tragici ed eroici ad un tempo, che hanno segnato il secolo appena trascorso. Gli scatti in bianco e nero che il fotografo di origine ungherese ci regala meritano davvero di essere incontrati.

Capa, come ci ricorda Steinbeck, “...era in grado di fotografare il pensiero, le sue foto catturano un intero mondo.” Andateci se potete con amici, figli e nipoti: la semplicità dell’esposizione e la coinvolgente colonna sonora di sottofondo vi trasporteranno indietro nel tempo al punto che non riuscirete più a rimanere tranquilli spettatori.

Provocato da quanto ho visto mi sono chiesto per giorni da dove nasca la straordinaria capacità evocativa di questi scatti. Non ho trovato altra risposta che quella sua disponibilità a lasciarsi intrappolare dalla realtà dei fatti, partecipandovi fino a morirne. Il corpo di Capa infatti sarà dilaniato in Indocina da una mina antiuomo, mentre segue l’avanzata della fanteria francese tra le risaie del Vietnam (1954).

“Se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non sei abbastanza vicino”. Ecco il semplice criterio che Capa aveva scelto per giudicare il suo lavoro.

Ecco forse anche la cifra della sua poetica, che attraverso semplici immagini ci mette in assoluta empatia con uomini e donne ritratti oltre mezzo secolo fa: lasciarsi ferire da ciò che accade. Questa ferita, prima di aggredire il suo fisico, segnò il fotografo nel profondo dell’animo fino a fargli confessare “...non è facile starsene sempre da una parte senza poter fare nulla, tranne registrare le sofferenze che vedi attorno a te”. Una ferita così profonda da provocare un desiderio paradossale e per questo profondamente autentico: “...poco per volta mi sembra di diventare un avvoltoio ... il più caro augurio di un corrispondente di guerra e di essere disoccupato.”

 

Alberto De Biasio, architetto


Che cos’è la cultura? Un inedito fulminante di Giovanni Testori

b__10[1]Bisogna avere il coraggio di tornare sempre ai maestri. Giovanni Testori (nella foto), pur senza mai proporsi come tale, è tra questi. Del grande scrittore, drammaturgo, pittore e critico d’arte vi proponiamo una pagina straordinaria sul senso di fare cultura oggi, che spoglia questo termine da ogni intellettualismo e la restituisce al suo vero soggetto, il popolo. Altra parola che oggi sembra svuotata di significato: «Cultura è la forma di tutte le ore, di tutti i giorni, i mesi, gli anni della nostra esistenza, sentita come rapporto di comunione, come rapporto totale di uomini che sono chiamati a costruire la loro storia, il tessuto di speranza e non il non senso di lacerazione e di una disperazione».

Chi è Giovanni Testori

Il sito internet dell’Associazione Giovanni Testori

Che cos’è la cultura?

È una parola che si è usata, si usa e della quale si abusa spesso, senza che nessuno abbia più il coraggio di misurare che cosa significhi e che cosa sia oggi fare cultura.

Normalmente si crede che cultura sia, settorialmente, fare scienza, arte, medicina, cinema, filosofia.. queste secondo le definizioni assolutamente parziali della cultura in cui viviamo, per cui ci si sarebbe alcuni privilegiati addotti a proporre agli altri questa loco conoscenza, lo sviluppo di questa conoscenza nei vari settori. Il resto dell’umanità, quello che lavora, studia va in fabbrica, la donna che sta a casa, la madre , il padre, il prete, il maestro, non farebbe cultura. Se cultura fosse ciò, si assisterebbe ad una separazione che è contro il principio stesso di cui di è parlato all’inizio, che vivo, proprio per sua natura, proprio perché Dio vi ha messo il suo sigillo, in ogni uomo.

Cultura è la forma, non in senso estetico ma intesa proprio nel significato biblico, cioè la forma creata, che assume in un determinato momento della storia la conoscenza e la coscienza religiosa, perché non può essere altrimenti che religiosa, dell’uomo

In questa definizione, una madre, un padre che realizzano la propria famiglia, un operaio che lavora, se viene data loro la coscienza o la conoscenza dell’essere madre, padre, operaio, se non si compie su di loro l’azione terroristica di considerarli in uno stato subalterno, creano veramente la forma di vita, fanno cultura, esattamente come un letterato, un giornalista, con la stessa dignità. Non esiste la possibilità di separare, nel peso, nel valore, nella grandezza, la forma che un operaio dà della propria coscienza d’essere operaio e di come svolge questo suo atto di cultura, dalla coscienza che un romanziere ha dello scrivere un romanzo. Nel momento in cui uno dei due si crede determinato in questa forma totale che è la cultura ...dalla coscienza che un romanziere ha dello scrivere un romanzo. Nel momento in cui uno dei due si crede determinato in questa forma totale che è la cultura, si opera una prima lacerazione, un primo atto di terrorismo. Le differenze sono le voci diverse di un unico coro. La definizione di cultura che ho dato può sembrare nuova, inedita credo che sia rivoluzionaria nel senso della speranza. Lo dico non per accontentare tutti, ma perché credo che cultura sia scrivere un libro come crescere i figli, come si va in chiesa o come non si va, come ci si mette davanti alla televisione o come si legge un giornale. Cultura è la forma di tutte le ore, di tutti i giorni, i mesi, gli anni della nostra esistenza, sentita come rapporto di comunione, come rapporto totale di uomini che sono chiamati a costruire la loro storia, il tessuto di speranza e non il non senso di lacerazione e di una disperazione. Ciò che stiamo facendo stasera e la proposta che vi è stata fatta è proprio un atto di cultura in questa direzione, tanto è vero che non si privilegia nessuno. Questo riconsiderare la possibilità di una vita diversa, nuova, pienamente umana di un paese, al di fuori dei modelli imposti dall’altra cultura, è proprio nel senso che ho cercato di dire.

Questa proposta è un atto di cultura di una comunità che si ritrova per dare una forma alla vita del paese, un cui tutte le possibilità di ognuno concorrano dialetticamente, non nella dialettica della materia, ma della totalità del mondo, non in quella del consumo, ma in quella dell’amore, della giustizia, della speranza che sono in ognuno di noi e nella nostra comunità... Io non ho fatto altro che rendere esplicita l’immagine di cultura che già nella vostra proposta è contenuta e che ora comincia a nascere, a balbettare, a muoversi in questa direzione nuova, veramente umana, nel riconoscersi fratelli, dentro il disegno che siamo chiamati ad incarnare, secondo il volere del Padre

Giovanni Testori, Biassono 20 marzo 1980


La Sindone: un mistero che sfida la scienza

414px-Hungarianpraymanuscript1192-1195[1]L’Associazione culturale Rosmini segnala che la Domus Familiae Padre Daniele organizza un ciclo di incontri alla scoperta del tema: “La bellezza che nasce dalle ceneri, salverà il mondo”. Sabato 25 gennaio 2014 ore 21.00 nella sede Domus di via Rolandino 2 – 35030 Sarmeola di Rubano (PD) (tel. 393-9414650) il prof. Giulio Fanti presenta: “La Sindone: un mistero che sfida la scienza”.

Nonostante la Sindone sia l’oggetto di gran lunga più indagato nella storia dell’archeologia, rivela sempre nuove scoperte e anche “la Chiesa affida agli scienziati il compito di continuare ad indagare” (Giovanni Paolo II).

Il Prof. Fanti guiderà l’uditorio in un percorso nel dialogo tra “scienza e fede”, alla scoperta di un oggetto che può essere l’opera di un genio mai riconosciuto, o la testimonianza storica del più importante Mistero Cristiano.

Giulio Fanti è professore associato nel dipartimento di Ingegneria Industriale dell’università di Padova e da anni è un attivissimo sindonologo. Il 20 marzo 2013 è uscito un suo libro (scritto assieme al giornalista Saverio Gaeta): Il mistero della Sindone: Le sorprendenti scoperte scientifiche sull’enigma del telo di Gesù (Rizzoli, 235 p., € 18). In quarta di copertina si legge: “Le ricerche scientifiche che dimostrano l’errore della datazione medievale della Sindone e la riportano all’epoca di Cristo”.


Hannah Arendt, a Padova il film di von Trotta nella Giornata della memoria

hannah_arendt[1]LUNEDI' 27 GENNAIO - ore 18.30 e ore 21.10
e
MARTEDI' 28 GENNAIO - ore 18.30 e ore 21.10
proiezione del film
HANNAH ARENDT
(Germania 2012, 113')
di Margarethe Von Trotta
con Barbara Sukowa (Hannah Arendt), Axel Milberg (Heinrich Blücher), Janet McTeer (Mary McCarthy), Julia Jentsch (Lotte Köhler), Ulrich Noethen (Hans Jonas)

MPX - Multisala Pio X
Via Bonporti, 22 • zona Duomo • 35141 Padova
Evento unico in occasione della Giornata della Memoria
Non si può ricordare qualche cosa a cui non si è pensato e di cui non si è parlato con se stessi (Hannah Arendt).

Scappata dagli orrori della Germania nazista, la filosofa ebreo-tedesca Hannah Arendt nel 1940 trova rifugio insieme al marito e alla madre negli Stati Uniti, grazie all'aiuto del giornalista americano Varian Fry. Qui, dopo aver lavorato come tutor universitario ed essere divenuta attivista della comunità ebraica di New York, comincia a collaborare con alcune testate giornalistiche. Come inviata del New Yorker in Israele, Hannah si ritrova così a seguire da vicino il processo contro il funzionario nazista Adolf Eichmann, da cui prende spunto per scrivere "La banalità del male", un libro che andrà incontro a molte controversie.

Il film sarà proposto in lingua originale (inglese/tedesco/ebraico) con sottotitoli in italiano, per rispettare la veridicità della vicenda, le interpretazioni degli attori e i documenti storici inclusi.

Biglietto intero 8 € - ridotto (convenzioni Nexo): 6 €

Clicca qui per maggiori info sul film

Il film ricostruisce un periodo fondamentale della vita di Hannah Arendt: quello tra il 1960 e il 1964. All'inizio della vicenda, la cinquantenne intellettuale ebrea - tedesca, emigrata negli Stati Uniti nel 1940, vive felicemente a New York con il marito, il poeta e filosofo tedesco Heinrich Blücher. Ha già pubblicato testi fondamentali di teoria filosofica e politica, insegna in una prestigiosa Università e vanta una cerchia di amici intellettuali. Nel 1961, quando il Servizio Segreto israeliano rapisce il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann, nascosto sotto falsa identità a Buenos Aires, la Arendt si sente obbligata a seguire il successivo storico processo che si tiene a Gerusalemme. Nonostante i dubbi di suo marito, la donna, sostenuta dall'amica scrittrice Mary McCarthy, chiede e ottiene di essere inviata in loco come reporter della prestigiosa rivista 'New Yorker'. Hannah nota che Eichman, uno dei gerarchi artefice dello sterminio degli ebrei nei lager, è un mediocre burocrate, che si dichiara semplice esecutore di ordini odiosi e, d'altro canto, si sorprende nell'ascoltare testimonianze di sopravvissuti che mettono in evidenza la condiscendenza dei leader delle comunità ebraiche in Europa, di fronte ai nazisti.
Dai suoi resoconti, e in seguito dal suo libro, "La banalità del male: Eichman a Gerusalemme" (1963), emerge la controversa teoria per cui proprio l'assenza di radici e di memoria e la mancata riflessione sulla responsabilità delle proprie azioni criminali farebbero sì che esseri spesso banali (non persone) si trasformino in autentici agenti del male. L'ebreo Kurt Blumefeld, uno dei suoi più cari amici, non riesce a perdonarla per quegli scritti, mentre lo scandalo si diffonde in Israele e negli USA. La presidenza della sua Università è fortemente contrariata, la stampa la attacca violentemente, ma il marito, la sua devota allieva tedesca Lotte Köhler e molti studenti approvano e sostengono l'essenza, apparentemente paradossale, del suo pensiero.
Già in passato von Trotta ha realizzato film riguardanti donne "eccezionali" e dissidenti: Rosa L., del 1985, ritratto della leader marxista Rosa Luxemurg, interpretata dalla stessa Sukova, e Vision, del 2009, rievocazione di Hildegard von Bingen, mistica cristiana del XII secolo. In questo caso si tratta di un biopic che, delineando il personaggio in termini personali e di teoria filosofica elaborata dallo stesso, intende propriamente (come dichiarato dalla regista) "trasformare il pensiero in un film". Si tratta di un tentativo solo parzialmente riuscito. In effetti l'approccio, pur serio, documentato e scenograficamente preciso, risulta spesso didattico. Non mancano aspetti flemmatici, dialoghi troppo prolungati, faticosi e pomposi. Tuuttavia, nel complesso, la costruzione drammatica è efficace. La messa in scena non è audace, ma neppure piattamente televisiva. Privilegia le sequenze in interni, con suggestivi colori grigi che evocano bene gli anni '60, e riesce a creare un'aspettativa non retorica, né artificiosa.
Ne emerge l'isolamento della protagonista e la sua peculiare fisicità (nella meditazione, nell'eloquio e nell'assiduità a fumare), ma anche la rivendicazione ostinata della libertà di pensiero e la coerenza logica, non priva di una certa arroganza intellettuale. Da segnalare anche l'uso intelligente di footage, con immagine autentiche del processo ad Eichman

(http://www.mymovies.it/film/2012/hannaharendt/)

 


Sabato 7 dicembre a Padova concerto di Natale

concerto_di_nataleIl Gruppo studentesco Musicaviva con il finanziamento dell’Esu di Padova propone un Concerto di Natale per voce solista, ensemble di corni, coro e organo con musiche di Rameau, Bach, Händel, Grossi, Schubert, Gounod, Franck, Piazzolla. Il concerto, a ingresso libero, si terrà sabato 7 dicembre alle 21.00 nella Chiesa di Sant’Andrea, nell'omonima via di Padova (a due passi dal Caffè Pedrocchi). Gli esecutori sono il Waldhorn Ensemble diretto da Gabriele Falcioni, Antonietta Assini all’organo, il Coro Nitida Stella di San Zenone degli Ezzelini (TV) diretto da Daniela Padovan e il mezzosoprano Ilaria Verzucoli.


L’Osteria senza oste

copertinaL’Osteria si erge discreta ma visibile sul Col Vetoraz vicino a Valdobbiadene, tra le vigne del celebre Cartizze. Però, via via, perde la sua fisicità, diventa altro: è simbolo del mondo e della vita. L’Oste c’è anche se non si vede, e nel silenzio ripara, laborioso e preciso, ai nostri disordini. L’Osteria senza oste innalza la libertà responsabile al vertice dei valori, trasmettendo l’esigente messaggio che la coscienza non ha bisogno di un guardiano per essere giusta.

 

L’Associazione Culturale Antonio Rosmini e l’Editrice Santi Quaranta

presentano il romanzo

L’OSTERIA SENZA OSTE

di Alberto Raffaelli

giovedì 28 novembre 2013, ore 18.30

Padova, Caffè Pedrocchi - sala ottagonale

Saranno presenti

Samir SUWEIS presidente dell’Associazione culturale Rosmini

Silvio SCANAGATTA ordinario di Sociologia dell’educazione – Università di Padova

Ferruccio MAZZARIOL editore Santi Quaranta

Interverrà l’AUTORE

Il volume (pp. 184 - € 13.00), oltre ad essere disponibile alla presentazione, è in vendita nelle librerie oppure presso l’editore: www.santiquaranta.com - info@santiquaranta.com - tel. 0422.545440

L’opera, colloquiale e acuta, mostra diverse sfaccettature, personaggi dalla caratterizzazione opposta. Ha il procedere del giallo, porta con sé qualcosa di misterioso e di lievemente inquietante; insegue e scoperchia il Male senza infingimenti; intesse una delicata, improvvisa storia d’amore tra Chiara, giovanissima creatura moderna, e Adam, il vivace e simpatico ragazzone brasiliano. Si impongono le figure di Giovani Zanca, integerrimo vice ispettore di Polizia, e della moglie Elena, contraddistinta da una dolce saggezza.

In L’Osteria senza oste si staglia pervasiva una sublime pecora, che fa da buffo filo conduttore a tutto il romanzo; e sullo sfondo risalta, come cornice affettuosa, un rasserenante paesaggio di colline e vigneti, con il Piave che scorre nella sottostante pianura, a conferire familiarità a questa storia sapienziale e piacevole.

Alberto Raffaelli è nato a Rovereto (TN) nel 1959. Si è laureato in filosofia a Venezia ed ha insegnato per alcuni anni in diversi Istituti superiori del Veneto. Ha poi lavorato in varie aziende private. Oggi è preside della Scuola di Ristorazione di Valdobbiadene (TV) dove unisce l’esperienza di insegnante con quella professionale nel settore turistico-ristorativo.


Dialogo sull'educazione a Ca’ Edimar

DSC04362[1]Un notista politico di primo piano come Antonio Polito presenta il suo libro “Contro i papà” a Ca’ Edimar, il villaggio padovano dell’accoglienza. E apre un dialogo appassionato sull’educazione, vera chiave per uscire dalla crisi. Ecco il resoconto pubblicato sul sito internet dell’Associazione Italiana Centri culturali. Nella foto, Polito durante la serata a Ca’ Edimar.

 

Centriculturali.org, domenica 24 novembre, Dialogo sull’educazione a Ca’ Edimar (E. Andreatta)

 

Cosa ci fa in una serata di tardo autunno una delle firme più prestigiose del giornalismo italiano a Ca’ Edimar, il villaggio padovano che accoglie ragazzi che per tante ragioni non possono stare con la famiglia d’origine? «Io sono qui perché ho conosciuto Mario Dupuis», confessa Antonio Polito. Tempo fa si sono ritrovati insieme a una presentazione di “Contro i papà”, il libro di Polito che punta il dito contro i padri che fanno gli amici, i sindacalisti, i complici, i “mammi” dei loro figli. E l’amicizia è scattata subito. I due sono diversissimi. Ma hanno molte cose in comune. Lo stesso impegno su fronti diversi. Mario nell’accogliere e accompagnare quei ragazzi. Antonio, il riformista per antonomasia, nella sua passione per un Paese apparentemente irriformabile.

È partendo da qui, dall’attività di notista politico, che Polito giunge a una conclusione apparentemente strana: alla radice della crisi di oggi non ci sono anzitutto fattori sociali, economici, politici. Ma umani. C’è un’attesa quasi salvifica nei confronti dello stato che in altri paesi non si riscontra. E un senso di deresponsabilizzazione diffuso. Ma non bisogna aspettarsi che sia il sistema a cambiare. «Dobbiamo essere noi i primi a tirarci su le maniche, a risolvere i problemi». Il volontariato ad esempio sembra al massimo un “di più”, un surplus di generosa disponibilità. «Invece non è qualcosa di aggiunto». Se non altro, perché è utopia il solo pensare a un welfare statale per gli anziani nei prossimi decenni. Polito rincara la dose: «Il Sessantotto nel nostro Paese non è mai finito. Disobbedendo ai padri e obbedendo ai figli, abbiamo diminuito i principio di responsabilità, con la complicità delle varie ideologie». Per questo l’educazione è «la prima emergenza nazionale».

«Tu non fai un’analisi, ma attraverso dati e giudizi, esprimi una ricerca, ci spingi a cercare il punto vero della questione». Mario reagisce così alle affermazioni del giornalista, partendo dalla sua esperienza di educatore: «Una delle frasi che più mi ha colpito del tuo libro è quando dici che “fingiamo di fare il loro bene, ma in realtà facciamo il nostro”. La paternità si è smarrita perché essa è il vertice della gratuità nel rapporto, e non c’è gratuità perché è bloccata l’esperienza dell’uomo nello sperimentare che ciò che hai generato non è tuo. Ti è dato per accompagnarlo al suo destino. Senza questo nascono i disastri di quelli che chiami papà.». Polito annuisce, ascolta con attenzione. Poco prima confessava: «Ho presentato il mio libro a centri culturali, comunità, scuole libere. È stata una bellissima sorpresa vedere che nel nostro paese c’è tanta gente che sente come cruciale il tema dell’educazione». Solo ieri dalla prima pagina del Corriere bacchettava Renzi e Grillo, faceva il contropelo al Cavaliere e a Cuperlo. Ora è qui in periferia a imparare da una piccola opera di carità. Ecco cosa significa davvero essere un riformista