di Mario Cancelli. A Meeting concluso, una riflessione sul pensiero che le esposizioni artistiche promosse da Casa Testori hanno offerto e suscitato.

 

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Una premessa rassegnata: anche qui troviamo le inevitabili cornici didattiche (in favore di una res publica semper edificanda atque educanda) tese a divinare o strologare quanto racchiuso nel sacrario dell’opera. Infatti, al Meeting 2017, Casa Testori si è cimentata con il mito virgiliano di Enea in fuga da Troia in fiamme proponendo un obbligato ma non spiacevole percorso propedeutico alle opere: un video strutturato come un trittico.

Nel primo episodio, un padre dei nostri giorni cerca di far entrare nella testa del figlio, con urla e scenate, la storia e i valori fondanti del mitico eroe. Il figlio, che scambia Anchise per Ascanio, cioè il padre per il figlio, non ne può più ed esprime in malo modo il suo disinteresse per il mito. La seconda parte offre l’esemplare scena di un vecchio film in cui si assiste allo sfogo, lucido e freddo, di un giovane che sanziona il padre assicurando che non gli deve nulla e che non vede l’ora che questi sparisca dall’orizzonte. Dopo interessanti testimonianze di Caproni e Pasolini, ritroviamo padre e figlio del primo atto, questa volta on the road; il padre non si regge in piedi, il figlio lo prende sulle spalle e, sotto il peso, riesce a sbagliare per l’ennesima volta i nomi del mito.

Incorreggibile ignoranza delle nuove generazioni? Per nulla. È preferibile pensare a un autentico, bellissimo lapsus, ed è grazie a questo lapsus che la proposta di Casa Testori si qualifica come moderna: testimone del pensiero che si mostra in atto, non Kultura ma atto individuale del colto. Un auspicio: sarebbe interessante vedere l’anno prossimo al Meeting una mostra sulla seconda parte del mito di Enea, quella dei gemelli Romolo e Remo (con annesso fratricidio, una variante del parricidio) beninteso con relativi lapsus.

Le contigue immagini di Julia Krahn (una donna che si è caricata sulle spalle quella che si è portati a ritenere la madre, invero non così senile come Anchise) segnalano forse l’ingresso delle quote rosa nel mito, molto apprezzate da Cristiana Collu alla presentazione della mostra.

Completato il percorso catecumenale delle cornici, si passa alle opere con animo ben disposto e si scopre, a conferma di quanto si diceva, che i miti, quando funzionano, funzionano perché inconsci. Solo così sono acquisibili alla fruizione individuale, altrimenti degradano a meri materiali, fondi di magazzino junghiani.

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“The last supper” (1987), in cui Andy Warhol ripensa “L’ultima cena” di Leonardo da Vinci, è il perno della mostra. Grazie a questi famosi “multipli”, l’arte e la storia del soggetto raffigurato fanno un balzo di secoli: historia artis facit saltus! Balzo difficile da riconoscere ai cultori del bello e del sacro, che continueranno a vedere in Warhol un terrorista nel sacrario dell’arte.

Il guadagno, in effetti, sta proprio nella de-sacralizzazione compiuta dall’operazione estetica di Warhol. Il quale si prende sulle spalle (guarda caso) la suprema icona del Rinascimento italiano, senza farsene schiacciare, perché grazie all’operazione estetica in questione, cioè la famosa moltiplicazione quasi evangelica delle immagini, le permette di uscire dalla caverna delle idee platoniche e di comunicare.

Questa serialità riprende ed esalta la modalità dello schermo televisivo; una ripetizione per nulla ossessiva e che non abbassa il linguaggio, anzi lo rende familiare, quotidiano, insomma laico: ma pare che proprio lì volesse arrivare Leonardo stesso, con quel Cristo gentile il quale, mentre tutti lo fissano ipnotizzati, ma in realtà distratti, lui solo, al centro della tavola, intercetta e offusca il sole, poiché è evidente che non gradisce né accecamento né ipnosi. Un’opera ben poco sacrale, quella di Leonardo, ironica, in definitiva “mentale” e sulla quale si sono incongruamente accaniti negli ultimi anni i ben noti clangori fantareligiosi.

Certo in “The last Supper” ritroviamo la logica che aveva dato origine ai Campbell’s Soup, ma è proprio quella prosaica serialità che apre alla dicibilità di quel fatto di duemila anni fa: la cena dell’every man è resa prossima a quella in cui il Figlio di Dio si offre, in corpo e sangue, superando così il totemismo stesso, causa della sacralità: per grazia di giudizio individuale, siamo infatti fuori dal tempio.

È, quella in oggetto, una duplicazione del modello originario, poi riunificata nella forma quadrata, non imitazione o citazione, ma piuttosto superficie comunicativa, che in altri esemplari si copre di cifre e simboli (come era in Pollock), mentre qui gioca l’assetto orizzontale (quello della tavola e degli apostoli) con quello verticale. Il famoso “Tutto è superficie di Warhol viene citato da Giuseppe Frangi a proposito e permette di evitare, rispetto a Warhol, la svista più facile, quella che consiste nello spiritualizzare quanto è già spirituale.

È così che Warhol vince la sua partita, non contro gli amati padri (Brunelleschi, Leonardo) ma contro coloro che in tale svista cadono in ragione del loro “rimosso”: un’opportuna mappa concettuale vedrebbe Warhol contro Dan Brown: pensiero contro occulto, partecipazione contro idealizzazione.

 

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I “frammenti” raccolti in questa mostra dicono la contraddittorietà dell’arte contemporanea, che vive di essi, e dei quali noi stessi viviamo anche solo per il quotidiano passarvi accanto. Qualcosa però accomuna tali frammenti raccolti per il Meeting da Casa Testori, come già accennato prima, cioè la non rimozione o almeno il suo tentativo.

È da qui che vengono novità o riproposte interessanti, come il bel film in bianco e nero nel quale Antonioni si confronta con il complesso statuario michelangiolesco di San Pietro in Vincoli, che ci riporta non tanto o non solo alle figure di Mosè, di Giulio II e di Maria, ma grazie al silenzio del regista, reso afasico dalla malattia, consegue un proustiano lasciar tornare ciò che sembrava perduto, senza domande, ma con cura di quel che appunto viene al pensiero.

Il video approda visivamente al tragico silenzio dell’ultimo Caravaggio, in quel muto uscire di Antonioni dalla basilica: un lento camminare nella luce verso la luce esterna, come chi porta con sé un’esperienza di soddisfazione.

 

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La condanna che colpisce ogni parola quando viene ridotta a mero significante è rinvenibile a partire dall’esperienza quotidiana. Tale damnatio colpisce a maggior ragione il capolavoro. A questa consapevolezza si deve la poetica della “cancellatura” di Emilio Isgrò, tra le più note ed emblematiche prese d’atto di questa condizione. Sulle pareti della sala a lui dedicata, egli ci offre, umilmente e con l’ironia che sempre lo contraddistingue, il tentativo di salvare gli amati Promessi Sposi dall’annullamento: e, puntualmente, il suo atto suscita la reazione dei custodi del sacrario dell’arte. Abili e bianche cancellature, un verticale “effetto muro” cui la pagina è consegnata, dal quale emergono termini isolati o brevi accostamenti ( “tutto è cancellato”, “Dio”, “ Io”): emozionanti parole chiave da cui ripartire.

Alla medesima logica della cancellazione appartengono i “profondi rossi” di Giovanni Frangi, in cui viene ad essere sommersa e dilavata la più rocciosa, e mantegnesca natura.

Wim Wenders e Julia Krahn sono accomunati da un epos della distruzione che si auto cancella nello stesso cromatismo o negli inani rinvii simbolici, di cui si è detto all’inizio. Poi Dessì, con la ciclopica mano che tiene sospesa l’immensa casa gialla: ma poteva anche essere piccola, delle misure di un gadget, e forse sarebbe stato meglio. Infine, Paci ambienta la sua via crucis fotografica, pirandelliana più che pasoliniana, in un cortile di condominio: spazi per un soggetto in cerca della sua legge.

 

(Mario Cancelli)

 

IL PASSAGGIO DI ENEA. Artisti di oggi a tu per tu con il passato

20-26 agosto 2017, piazza A1 della Fiera di Rimini

A cura di Casa Testori – Davide Dall’Ombra, Luca Fiore, Giuseppe Frangi, Francesca Radaelli