“Ti ho ricordata quando le lance s’abbeveravano di me e le bianche lame d’India stillavano il mio sangue. E ho amato il bacio delle spade, perché brillavano come i denti tuoi nel sorriso” (Antara Ibn Shaddād)

di Giovanni Scarpa. C’è un momento, un momento preciso in battaglia, nelle guerre di ieri come in quelle d’oggi, durante il quale il pensiero va alla cosa più cara. Torna a casa, dalla madre, dalla moglie. Torna alle piccole cose. Un momento durante il quale si procede come Eldred nel poema guerresco di Chesterton che pur “avanzando con furia distruttiva […] ripeteva la nenia di una preghiera infantile cadenzata come il suono lontano di campane, in cui si lodava Dio per il cibo buono, per le messi e per il tempo di pace”. Un momento nel quale, come nelle belle scene de Il Gladiatore, il tempo si dilata e fa emergere l’odore del grano, il rumore degli zoccoli dei cavalli sul terreno battuto, il sorriso di una donna.

Ora se esiste uno spazio, un luogo artistico nel quale questa tensione è racchiusa e rappresentata, si tratta certamente dello Tsuba.

Tsuba è il termine tecnico giapponese con il quale si identifica la guardia della spada (Katana). È un elemento perciò protettivo e spesso secondario nel complesso di cose che danno vita ad un guerriero, o nel nostro caso ad un samurai, ma come pochi altri (e penso in particolare al Netsuke giapponese) testimonia quel ritorno, quella nostalgia suprema che è il cuore del nostro discorso. Occorre anzitutto ammettere che anche l’oplologia occidentale ha dato un proprio personale contributo all’“estetica delle guardie”, e si pensi soprattutto a quelle a crociera, a quelle a tazza spagnole, o a quelle delle schiavone veneziane. E tuttavia il Bushido giapponese, la via del guerriero, non solo è riuscito a costituire nei secoli un imponente corpus materiale e storico di tsuba (dando luogo a vere e proprie scuole, genealogie di maestri, officine specializzate); ma è riuscito ad instillare, a cesellare in questa piccola lamina di metallo i tratti tangibili e pulsanti di un affetto, di una familiarità con il reale, di una cura per le cose tipici della “filosofia” e delle religioni orientali.

Non si tratta insomma di un mero indicatore d’appartenenza come potrebbero essere le incisioni nei calci delle colt per i cowboy o le stravaganti immagini dipinte sulle carlinghe degli aerei da caccia: è un atto memoriale che lo tsuba racchiude, un gesto per così dire anamnestico.

Non è difficile allora immaginare quale particolare commozione dovesse provare un samurai, intravvedendo per un istante durante un combattimento o sogguardando a lungo nel corso di una passeggiata, le carpe del proprio stagno incise nella guardia della spada al suo fianco; o ancora l’immagine d’un pozzo, delle foglie di bambù, dello stemma della sua casata. Quale pace scorgesse nelle onde del mare in rilievo sul suo tsuba scuro, quale forza traesse dalla tigre in bronzo che vi si affacciava, dal dragone d’oro che vi s’insinuava tra le nubi. Piccoli capolavori di metallurgia che sanno spesso coniugare in leggerezza la materia pesante del ferro, in morbidezza la natura inflessibile dell’acciaio.

È in particolare durante il governo degli shogun Tokugawa (1603-1868) che gli tsuba giungono al massimo splendore artistico, al raggiungimento dell’assoluta armonia tra l’utilità pratica e la pulsione decorativa, all’eleganza raffinata e austera della nobiltà. E impossibile a riguardo è non ricordare il lavoro di Kano Natsuo, maestro indiscusso e celebre nell’arte di raffigurare proprio il quotidiano.

Certo questi piccoli “reperti” artistici (il diametro medio si aggira intorno ai 6 cm) sfiorano le note profonde e luminose di un sentire comune, trasformano con ineguagliabile tatto e leggerezza la normalità del quotidiano nella sacralità del vivere e ricordano al sottoscritto (così come gli Haiku) le brevi e tese poesie dell’Ungaretti. Perché nel cuore del poeta come in quello dei samurai doveva vibrare una voce comune in battaglia e diceva: “Non sono mai stato/ tanto/attaccato alla vita”.

 

 

P.S.

Uno dei primi e più importanti studiosi internazionali nel settore è stato senza dubbio Sasano Masayuki che ha contribuito alla catalogazione allo studio di questi “reperti” nelle poche preziosissime pubblicazioni a riguardo, mentre la storia italiana riserva una piacevole sorpresa. Il museo Stibbert a Firenze vanta infatti una imponente collezione (850 tsuba) presentata per la prima volta negli anni Settanta da un orientalista d’eccezione, Fosco Maraini (in F. Maraini, Note sull’elsa della spada giapponese) e ripresentata poi agli inizi del secondo millennio da Francesco Civita (in F. Civita, Le tsuba della sezione Giapponese del museo Stibbert).