di Giovanni Scarpa. Mi sembrava lecito, nonché doveroso, inaugurare questo 2017 con una massiccia dose di ignoranza.
E sì, perché per la prima volta mi ritrovo a scrivere di un argomento su cui non ho la minima preparazione bibliografica. Un argomento tra l’altro, come la Cappella Sistina, sul quale esiste una vastità fenomenale di riferimenti e interpretazioni. Ecco insomma, per entrare nel merito, succede che il mese scorso vado a Roma e tra le altre cose vedo la Cappella. Ma con occhi incredibilmente vergini, poiché nulla come l’ignoranza preserva la castità oculare. La grandiosa fama del luogo era ed è direttamente proporzionale all’insipienza del sottoscritto. E ho pure riflettuto a lungo su questo punto, e quasi cedevo alla tentazione di informarmi. Ho pensato ecco che questa cosa della “veduta ignorante” ha anche un suo perché storico-critico: la sfilza di splendidi dipinti impressionisti, da Monet a Renoir, non fa altro che inseguire l’apparenza delle cose nel tentativo stacanovista di aver cura della propria superficialità. Per questa ragione prima di compiere il tremendo abominio di informarmi ho deciso di scrivere le mie “prime impressioni”.
Questo capolavoro michelangiolesco l’ho trovato esuberante, diciamo, eccessivo per l’occhio umano: i muscoli del mio nervo ottico hanno di certo rischiato un crampo. E non parlo di sindrome di Stendhal o di elevazione spirituale, ma proprio di fatica fisica, pragmatica, calorica. E la cosa che più di tutte mi ha turbato è proprio la quantità. Ancor prima della qualità del lavoro. Insomma ci saranno migliaia di corpi nudi dipinti ovunque, censurati dai pudibondi ecclesiastici dei tempi andati. Un’orgia di corpi muscolosi che si protrae imperterrita nel caos ordinato del progetto sistino. Non vi nascondo di aver pensato, diabolicamente, ad una sorta di monumentale palestra anatomica nella quale l’artista si è allenato a scolpire col pennello bicipiti e pettorali e deltoidi e via dicendo, inebriato dal suo genio femminino. La carnalità della sistina ha colpito i miei bulbi oculari con la brutalità di Schwarzenegger così profondamente che persino la Vergine (indubitabilmente per questioni di “modello”) sembrava appena uscita da una palestra. Pareva incredibile che la stessa persona avesse scolpito le delicate parvenze della Deposizione. Perché tutto vi era nella sistina tranne che la grazia femminile. Giudizio crudele si dirà, e sprovveduto certo, eppure queste ingiuriose premesse mi hanno ricordato quella frase del Terzo Uomo di Orson Welles quando dice: “In Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo Da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù”.
Ecco, pensavo, forse quest’ammasso laocoontiano di corpi rappresenta lo spettro umano dell’Italia. Forse anzi, si può delineare nella storia dei soffitti delle chiese l’intero ciclo storico del popolo italiano: il rigido e splendente simbolismo medievale nei cieli stellati di Galla Placidia e degli Scrovegni, gli intrighi e quel ritorno al corpo tipici dell’umanesimo rinascimentale, il decorativismo vacuo nei barocchi soffitti a cassettoni, il decadentismo secolare nei soffitti ridipinti, negli affreschi rimbiancati delle chiese parrocchiali, il contemporaneo rinverdirsi della fede nei mosaici di Rupnik.
È stata una visita romana per certi versi inquietante, e allo stesso tempo gloriosa. Pensare al lavoro di quest’uomo solo, dal pennello consunto, dalle vesti imbrattate. Ecco insomma, l’unica cosa certa è che non ho capito un cavolo, ma ho guardato molto in un luogo in cui c’è troppo da guardare e troppo da capire.
Mi sa che dovrò leggere qualcosa, mi sa. E tornarci, tornarci ancora.