il-simbolismo-in-mostra-a-milano1di Mario Cancelli. Queste sono riflessioni postume. Fortunatamente, non postume all’autore, ma a una mostra ormai terminata. Dal 3 febbraio al 5 giugno 2016 Milano ha dedicato al Simbolismo un’ampia antologica (curata da Fernando Mazzocca e Claudia Zevi), seducente per l’abbondanza e la novità per il pubblico italiano delle opere, con lo scopo d’invitare alla riflessione su un capitolo del secolo scorso non ancora sufficientemente chiarito. Proprio al fine di districare il ginepraio simbolista, i curatori hanno proposto come chiave interpretativa i “Fleurs du mal” di Baudelaire, quale unità di misura di tutto il movimento simbolista.

Occorre premettere che tale scelta è risultata in realtà limitante e talvolta ha rischiato di impantanare la mostra nella rete delle malie e relative aure.

Infatti, appariva come un’inconsapevole ma eloquente ironia che artisti e capolavori di mezza Europa fossero ospitati a Palazzo Reale, di fronte a quella Cattedrale, il Duomo, che del Simbolismo testimonia un’accezione “forte”. Chi vuol capire qualcosa del simbolismo medievale, deve solo entrare in quella straordinaria fabbrica e percorrerne le navate, “leggere” le vetrate che si susseguono come una “striscia” senza cesure: si sentirà incluso in questa unità, nella quale però l’individualità fatica a trovare il suo momento, pur essendo in teoria tutto edificato per lei. È proprio la scoperta dell’individualità, delle sue leggi psichiche oltre che storiche, a separarci irrimediabilmente da quel mondo: proprio la nostalgia per quel mondo portò Huysmans a individuare ombre terribili tra le colonne gotiche edificate con sublime virtù, aprendo territori che la morale non riusciva (più?) a nominare.

Á Rebours traccia autorevolmente genesi, fenomenologia e apocalisse del decadentismo e quindi del simbolismo: ma, inspiegabilmente, i curatori della mostra hanno snobbato Huysmans, lo scrittore del suo tempo a più alto tasso critico e di pensiero, il quale, non per niente, dal simbolismo seppe fuoruscire.

Dunque non c’è bisogno di richiamare l’opera di Baudelaire e poi quella dei maledetti francesi, e poi quella di Lautreamont (la principale fonte del surrealismo di Breton) e poi Odilon Redon e Felicien Rops, che trasportarono l’arte nel simbolismo più onirico e perturbante, per riconoscere che il simbolismo nasce “malato” e che il senso di questa malattia, che pervade perfino l’atto creativo, è il motivo, lo stigma del movimento.

Uno dei pregi della mostra è nell’offerta della possibilità di individuare un simbolismo che, a volte, semplicemente eredita la temperie romantica (il simbolismo è invenzione romantica) portando a estrema conflittualità le istanze ricevute.

Non poteva sopravvivere a se stesso il medievale revival dei Preraffaelliti; non sopravviverà il simbolismo cui ci riferiamo se non dopo aver consegnato la sua malferma conquista, l’inconscio, a coloro che tenteranno l’avventura del surrealismo. Al simbolo si sostituirà così l’inconscio e sulle diverse interpretazioni dell’inconscio stesso si svilupperà la storia del novecento, da Miro, a Dalì, a Ernst, all’action painting.

I curatori hanno certamente afferrato tale urgenza critica, ma proponendo Baudelaire quale pietra miliare, cui si aggiungono Nietzsche e Jung, ma senza fare chiarezza su tali apporti, hanno corso il rischio di fuorviare il giudizio.

Hodler il boscaioloBasti questo confronto: mentre al già citato Huysmans dobbiamo l’idea della rappresentazione oramai “clinica” della personalità decadente, a Baudelaire dobbiamo la fissazione dello spirito nel misticismo platonico, che apre all’io, alle sue sensazioni e analogie inconsce, per annullarlo. E in pittura avremo l’opposizione tra gli archetipi supremi da Segantini a Hodler, ai francesi, individuabili in madri perverse, oceani ghiacciati, alberi secolari, notturni cimiteriali o claustrali, comunque mistici: l’invenzione di linguaggi nuovi, compreso quell’ossessivo abitare il simbolismo di Moreau, che secerne però un gesto opaco e sintomatico.

Non basta ripetere, come nel video sornione di Philippe Daverio, che gli ultimi decenni del secolo XIX si dividono in un due versanti, quello naturalistico e quello simbolista (il mondo del sogno, dell’intimità, dell’“oltre”).

Il dualismo, il “fatale bivio”, è tutto all’interno del simbolismo.

La facilità con la quale Segantini passa dal realismo della natura al simbolismo delle Madri, dice di una medesima fonte dietro a entrambi, fonte che potremo chiamare “natura”, onnipresente e onnisciente, e che solo l’attenzione a ciò che, per comodità, chiamiamo Psiche (separata da Amore), può aggredire e superare.

La mia tesi può essere confortata da passi liberi e innovatori in quell’“oltre” a tutti i costi che si andò a confinare come un tarlo nel sentimentalismo, in un’isterica teatralità, negli spleen con i quali si patteggia con se stessi più che con la realtà.

138-von-stuck-il-peccato1Ma per offrire questo si sarebbe dovuto avere il coraggio di individuare il destino del simbolo, non più metafisico ma al massimo, psichico.

Un esempio per tutti, il capolavoro di von Stuck, dove un satanismo fuori tempo massimo fa da cornice al corpo ignudo della modella. Cosa resta di teologico, se non un’atmosfera tra il cabaret e la clinica, in questa rappresentazione del corpo certo audace, ma dove il viso appare segnato dall’alcool più che dal peccato?

Il serpente, simbolo stravecchio e defunto, fa appunto da floreale aureola a un collasso psichico più che morale. (1. continua)

 

Si ringrazia Patrizia Pizzirani per la revisione e il contributo critico.