Sabato 22 ottobre a Padova “Suor Liduina Story”

liduinaIl Comitato “Beata Liduina Meneguzzi” propone per sabato 22 ottobre alle ore 20.45 nella Chiesa delle Suore Salesie in corso Vittorio Emanuele II, 172, l’evento

Suor Liduina Story

Musica e parole in onore della beata Liduina Meneguzzi.

Lo scopo della serata è ricordare la beata Liduina Meneguzzi con un bassorilievo artistico nell’Ospedale Giustinianeo, proprio perché prima di partire per l’Etiopia, dove morì a 40 anni, frequentò questo ospedale per acquisire i rudimenti dell’arte infermieristica. Suor Liduina è stata innalzata agli onori degli altari da papa Giovanni Paolo II il 20 ottobre 2002.

La sua figura e la sua vita saranno raccontate con parole e musica da alcuni giornalisti e accademici e dai “Vasa Cantorum”, con le voci di Clemens Babetto, Ilaria de Santis, Martina Micaglio, Roberto Simonetto, Raffaella Zago, ospite d’onore la soprano Stefania Miotto.

Il bassorilievo verrà posizionato su una delle pareti esterne del Chiostro del Giustinianeo, in accordo con la direzione e dopo l’approvazione della Sovraintendenza alle Belle Arti.

 

La biografia di suor Liduina sul sito del Vaticano bit.ly/suorLiduina 


Sabato 29 ottobre la presentazione dei cd di Walter Gatti e Michele Gazich

gg-locandinaUn giornalista e critico musicale con la passione del rock e sangue sudista nelle vene. Un violinista di casa negli Usa, dove frequenta i migliori palcoscenici nordamericani, chiamato dai folksinger da New York alla California. L’Associazione culturale Antonio Rosmini è lieta di presentare

sabato 29 ottobre alle 21.00
Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, Padova
via Cesare Battisti, 245

GATTI / GAZICH
faccia a faccia

Un viaggio dagli Appennini al blues

Presentazione Live dei CD “Southland” e “La Via del Sale”
Ingresso: 15€ - Soci Rosmini: 10€

Evento realizzato in collaborazione con Gelateria Giotto dal Carcere di Padova.

Informazioni: mob - 349.5480909 / info@rosminipadova.it / southland.vg@gmail.com

 

Leggi la recensione di “Southland” su Tracce.it di mercoledì 12 ottobre

Leggi la presentazione di “La via del mare” su IlSussidiario.net di venerdì 7 ottobre

 

south3WALTER GATTI, lodigiano trapiantato a Padova, giornalista di musica e di multimedia, ha lavorato a «Il Sabato», «King» e con le testate di Class editori, oltre ad aver collaborato con «Panorama», RadioRai, «Vogue», «Sette» del «Corriere della Sera», «Il Blues». Si occupa di musica da sempre, adora il rock sudista, il gospel e il blues, suona con emotiva partecipazione una Telecaster del 1976. Ha lavorato con Eros Ramazzotti, è tra i fondatori del Centro internazionale della Canzone d’autore dell’Università di Bologna (promosso da Davide Rondoni e Lucio Dalla). Ha pubblicato vari saggi. Il suo blog musicale è www.risonanza.net. Il suo primo cd, “Southland”, sarà disponibile su Amazon e sulle piattaforme digitali dal 10 novembre.

copertina900x1MICHELE GAZICH è musicista, produttore artistico, autore, compositore. Dopo numerose collaborazioni con artisti italiani (tra cui Massimo Bubola), si è fatto apprezzare anche fuori dal nostro paese con ripetuti tour in USA ed Europa a partire dagli anni Novanta, legando il suo lavoro al mondo dei songwriters: da Michelle Shocked a Mary Gauthier, da Eric Andersen a Mark Olson. Il suo sito è www.michelegazich.it. Il suo ultimo cd “La via del sale” è uscito ufficialmente il 29 settembre su etichetta fonoBisanzio con distribuzione IRD.

 


Odilon Redon Il sogno di Calibano

Che sorpresa i Simbolisti italiani. Riflessioni postume intorno alla mostra milanese sul Simbolismo (2)

Odilon Redon Il sogno di Calibanodi Mario Cancelli. A proposito della mostra milanese sul Simbolismo, si diceva della fatalità del bivio ma anche questo sembra insufficiente. Perché se il simbolismo ritrova la vicenda dove il romanticismo l’aveva lasciata, individuando la possibilità di un nuovo coniugio tra natura e pensiero, l’urgenza del simbolismo sembra volatizzare anche questa possibilità.

Per riconoscerla occorre chiudere infatti all’orizzonte del mito, e aprire alle istanze dell’inconscio.

Quando ciò avviene, l’arte abbandona l’orizzonte del simbolico (ben poco eloquente) e ritrova una nuova libertà espressiva. Si cerca allora allora il “gesto” e con esso i modi dell’inconscio, modi nei quali il pensiero del soggetto è agito e non solo rappresentato.[1] I due surrealismi succedutisi dicono di questa metamorfosi del simbolo nell’inconscio ed è nella correttezza o meno della lettura dell’inconscio (contrario al pensiero o capace di dirsi sua vicenda, del pensiero) che si gioca la partita.

Quanto le polveri della mostra siano rimaste bagnate lo dimostra paradossalmente il recupero del cosiddetto simbolismo italiano. L’unico simbolista in Italia fu quel Pascoli, quasi refrattario all’influenza di Baudelaire. Un senso inattaccabile del reale sembra vaccinare gli artisti italiani, i quali non cessano di trarre da essa la loro ispirazione: la sala splendida dedicata a Sartorio ci consegna il senso di una “grande bellezza” che non annoia.

***

Eppure la mostra ha proposto anche cose egregie: “Il sogno di Calibano” di Odilon Redon, che lega Shakespeare alla cultura pittorica eletta, riconducendo simboli, presenze aliene o biologiche a un tessuto narrativo di fiaba, frutto della sua personale analisi.

Un piccolo quadro come questo permette di orientare le esperienze successive, le correnti e le tendenze. Redon non ci conduce all’arcaico di ritratti di famiglie rese archetipi senza vita individua, ad alberi solitari, a incroci immaginari improbabili; in uno stile ricco e privo d’indugi, dà forma e linguaggio ai fantasmi propri e di tutti. Accanto a Redon, Moreau, qui rappresentato da un pregevole dipinto: a quando però qualcuna delle sue Salomè, che regnano su pittura e letteratura?

tmp_4ddad36301ec30939da98e3092c4be971Uniche a comparire senza compromettere il gusto con un gesto più rivelatore che omicida. E poi il colore, la pennellata, la “colata” di Moreau che anticipa l’action painting.

Ne “La Speranza” di Puvis de Chavannes, l’ironia smuove i principi del paesaggio classico, cui ammicca: “La Donna” presidia lo spazio, anzi lo ostruisce, personificazione sardonica di una natura naturata, che promette senza mantenere. La soluzione del rebus non sta più nel registro contemplativo, nello straordinario concerto dai timbri bassi di verdi e bruni, ma in quell’occlusione, nel pensiero dello scacco che questa lacaniana effige incarna: una sciarada, che consegna a quel che verrà una patologia invasiva di ogni cifra stilistica.

bonazzaRiportare alla luce il simbolismo italiano è l’orgoglio della mostra: molti gli artisti finalmente visibili e le opere recuperate. Tutto parla di una capacità di difesa e di un senso di realtà quasi intaccabile.

Bonazza replica con ironia tragicomica al falso Edipo di Knopf (carezzato dalla madre fino al l’estinzione dell’umano) inventando un Orfeo di borgata, ignaro più che artefice dell’incanto operato sulle feroci leonesse. Si confronti questo pizzico di pirandellismo con l’irrepetibile Orfeo di Delville, omaggio a un dio che fu e che torna con imperturbata e irritante melanconia.

delvillePreviati, fra gli italiani forse il più implicato con il simbolismo, innalza “ali” sulle pareti, producendo materia per la scissione divisionista e affogandola in un diapason di luce e di sentimento, come nel “Chiaro di luna” che ci riporta quasi ai medioevo manzoniano, alle orazioni nevrotiche se non deliranti di Ermengarda: qui la luce si fa materia, raggi argentei che gridano le cose strappate dal buio. E infine “Le vergini stolte e le vergini fedeli”, di Sertorio, appena restaurato e che ci ricorda che il Quattrocento non passa mai. Infine un paesaggio dallo straordinario equilibrio, un idillio pucciniano che accarezza una natura tutta lombarda. Non vi dico l’autore, cercatelo nel bel catalogo che accompagna l’esposizione. Non faticherete a trovarlo in questa ricca foresta di simboli. (2. fine)

 

Si ringrazia Patrizia Pizzirani per la revisione e il contributo critico.

 

[1] La tragica fatalità del simbolo è chiarificata da S. Freud: viva ed eloquente nella dinamica onirica del soggetto, debole nell’ elaborazione formale, dove il simbolo acquisisce autonomia.


Il fuorviante Baudelaire. Riflessioni postume intorno alla mostra milanese sul Simbolismo (1)

il-simbolismo-in-mostra-a-milano1di Mario Cancelli. Queste sono riflessioni postume. Fortunatamente, non postume all’autore, ma a una mostra ormai terminata. Dal 3 febbraio al 5 giugno 2016 Milano ha dedicato al Simbolismo un’ampia antologica (curata da Fernando Mazzocca e Claudia Zevi), seducente per l’abbondanza e la novità per il pubblico italiano delle opere, con lo scopo d’invitare alla riflessione su un capitolo del secolo scorso non ancora sufficientemente chiarito. Proprio al fine di districare il ginepraio simbolista, i curatori hanno proposto come chiave interpretativa i “Fleurs du mal” di Baudelaire, quale unità di misura di tutto il movimento simbolista.

Occorre premettere che tale scelta è risultata in realtà limitante e talvolta ha rischiato di impantanare la mostra nella rete delle malie e relative aure.

Infatti, appariva come un’inconsapevole ma eloquente ironia che artisti e capolavori di mezza Europa fossero ospitati a Palazzo Reale, di fronte a quella Cattedrale, il Duomo, che del Simbolismo testimonia un’accezione “forte”. Chi vuol capire qualcosa del simbolismo medievale, deve solo entrare in quella straordinaria fabbrica e percorrerne le navate, “leggere” le vetrate che si susseguono come una “striscia” senza cesure: si sentirà incluso in questa unità, nella quale però l’individualità fatica a trovare il suo momento, pur essendo in teoria tutto edificato per lei. È proprio la scoperta dell’individualità, delle sue leggi psichiche oltre che storiche, a separarci irrimediabilmente da quel mondo: proprio la nostalgia per quel mondo portò Huysmans a individuare ombre terribili tra le colonne gotiche edificate con sublime virtù, aprendo territori che la morale non riusciva (più?) a nominare.

Á Rebours traccia autorevolmente genesi, fenomenologia e apocalisse del decadentismo e quindi del simbolismo: ma, inspiegabilmente, i curatori della mostra hanno snobbato Huysmans, lo scrittore del suo tempo a più alto tasso critico e di pensiero, il quale, non per niente, dal simbolismo seppe fuoruscire.

Dunque non c’è bisogno di richiamare l’opera di Baudelaire e poi quella dei maledetti francesi, e poi quella di Lautreamont (la principale fonte del surrealismo di Breton) e poi Odilon Redon e Felicien Rops, che trasportarono l’arte nel simbolismo più onirico e perturbante, per riconoscere che il simbolismo nasce “malato” e che il senso di questa malattia, che pervade perfino l’atto creativo, è il motivo, lo stigma del movimento.

Uno dei pregi della mostra è nell’offerta della possibilità di individuare un simbolismo che, a volte, semplicemente eredita la temperie romantica (il simbolismo è invenzione romantica) portando a estrema conflittualità le istanze ricevute.

Non poteva sopravvivere a se stesso il medievale revival dei Preraffaelliti; non sopravviverà il simbolismo cui ci riferiamo se non dopo aver consegnato la sua malferma conquista, l’inconscio, a coloro che tenteranno l’avventura del surrealismo. Al simbolo si sostituirà così l’inconscio e sulle diverse interpretazioni dell’inconscio stesso si svilupperà la storia del novecento, da Miro, a Dalì, a Ernst, all’action painting.

I curatori hanno certamente afferrato tale urgenza critica, ma proponendo Baudelaire quale pietra miliare, cui si aggiungono Nietzsche e Jung, ma senza fare chiarezza su tali apporti, hanno corso il rischio di fuorviare il giudizio.

Hodler il boscaioloBasti questo confronto: mentre al già citato Huysmans dobbiamo l’idea della rappresentazione oramai “clinica” della personalità decadente, a Baudelaire dobbiamo la fissazione dello spirito nel misticismo platonico, che apre all’io, alle sue sensazioni e analogie inconsce, per annullarlo. E in pittura avremo l’opposizione tra gli archetipi supremi da Segantini a Hodler, ai francesi, individuabili in madri perverse, oceani ghiacciati, alberi secolari, notturni cimiteriali o claustrali, comunque mistici: l’invenzione di linguaggi nuovi, compreso quell’ossessivo abitare il simbolismo di Moreau, che secerne però un gesto opaco e sintomatico.

Non basta ripetere, come nel video sornione di Philippe Daverio, che gli ultimi decenni del secolo XIX si dividono in un due versanti, quello naturalistico e quello simbolista (il mondo del sogno, dell’intimità, dell’“oltre”).

Il dualismo, il “fatale bivio”, è tutto all’interno del simbolismo.

La facilità con la quale Segantini passa dal realismo della natura al simbolismo delle Madri, dice di una medesima fonte dietro a entrambi, fonte che potremo chiamare “natura”, onnipresente e onnisciente, e che solo l’attenzione a ciò che, per comodità, chiamiamo Psiche (separata da Amore), può aggredire e superare.

La mia tesi può essere confortata da passi liberi e innovatori in quell’“oltre” a tutti i costi che si andò a confinare come un tarlo nel sentimentalismo, in un’isterica teatralità, negli spleen con i quali si patteggia con se stessi più che con la realtà.

138-von-stuck-il-peccato1Ma per offrire questo si sarebbe dovuto avere il coraggio di individuare il destino del simbolo, non più metafisico ma al massimo, psichico.

Un esempio per tutti, il capolavoro di von Stuck, dove un satanismo fuori tempo massimo fa da cornice al corpo ignudo della modella. Cosa resta di teologico, se non un’atmosfera tra il cabaret e la clinica, in questa rappresentazione del corpo certo audace, ma dove il viso appare segnato dall’alcool più che dal peccato?

Il serpente, simbolo stravecchio e defunto, fa appunto da floreale aureola a un collasso psichico più che morale. (1. continua)

 

Si ringrazia Patrizia Pizzirani per la revisione e il contributo critico.

 


Il 5 ottobre il TechSoup Tour 2016 a Padova

slideshow-padova-rshow1Dopo il grande successo dell’edizione 2015, TechSoup Italia dà nuovamente il via al TechSoup Tour 2016, dal titolo “Solidarietà digitale, ecosistema sociale”. L’iniziativa, promossa da Techsoup con il supporto di Microsoft Italia e Fondazione Cariplo, ripropone la formula del roadshow già sperimentata: 10 tappe in 10 città italiane, concentrate questa volta nel Nord Italia, per incontrare le moltissime organizzazioni Non Profit che operano sul territorio nazionale e avvicinarle al tema dell’innovazione tecnologica per il sociale.

Solidarietà digitale, ecosistema sociale - Padova

October 5, 2016 9:30am - 12:30pm

Location

Sede Banca Etica

via Tommaseo 7

Padova

Italy


Arzach o la tensione fallica

moebius_harzakc_heavy-metal-v1n4-july1977-p46di Giovanni Scarpa. “Tutti gli oggetti allungati, come bastoni, tronchi d’albero e ombrelli (il cui aprirsi può paragonarsi all’erezione) possono rappresentare l’organo maschile, e così anche armi acute, come coltelli, pugnali e picche” (Freud)

Non trarrò conclusioni affrettate, promesso. Non terminerò questo breve scritto asserendo che il cappello allungato di Arzach è un chiarissimo emblema del fallo, che il suo pterodelfo è la sublimazione animale della virilità maschile o l’articolazione meccanica compensativa di una infertilità taciuta. O cose del genere, insomma. Il punto, nei meravigliosi racconti per immagini che sanciscono la nascita di questo “antieroe”, è che il fallo, inteso come realtà oggettuale, come mera rappresentazione grafica, esercita un suo proprio e potente centro gravitazionale.

Ora, se dopo aver letto questo paragrafo vi state chiedendo chi è Arzach, se non avete la più pallida idea di che cosa sia uno pterodelfo, avrò raggiunto almeno un certo obiettivo personale invitandovi a rifuggire cotanta ignoranza. Leggere, ma soprattutto guardare, i fumetti di Moebius è dovere civico che compete al folle artista così come all’impiegato meticoloso, all’erudito bibliofilo così come al cannato nazi-vegano.

moebius-harzak1Ad ogni modo, c’è sempre un certo grado di piacere (tiresiano?) nel parlare di peni e vagine: uno pseudo-godimento da rivista settimanale, da Cosmipolitan, Cioè, Donna Moderna. Perciò, chi non legge per conoscenza del suddetto Arzach, leggerà almeno per quella del pene (che da ora in avanti chiameremo P). Dovrà però sapere, prima di iniziare questo breve excursus paratestuale, che nelle sue avventure, l’autore ha voluto cambiare spesso il nome del suo personaggio (nome ironico che gli proviene dalla concrezione di Les Art Appliqué): chiamandolo ora Harzack, ora Harzac, Harzakc o Arzach, Arrzak o Harzak, in una simpatica schizofrenia formale che sembra stabilizzarsi e consolidarsi soltanto nell’ultima avventura, in Arzak.

Ma torniamo a parlare del P.

moebius-arzak4Nella prima avventura dal titolo Arzach comparsa nel primo numero della rivista Metal Hurlant, il Nostro, improvvisatosi voyeur, non esita ad uccidere un temibile guardiano per accaparrarsi le brame di una, ahimè orribile, dama della torre. Anche se il P esplicitamente non compare, soggiace all’intero racconto impregnato di una sessualità autocritica e disillusa.

moebius-harzak5È nella seconda avventura dal titolo Harzak, invece, che già nella quinta tavola P compare imponente: è il membrone di un mostro che il Nostro non mancherà di uccidere per una sosta sicura. La terza avventura, Arzak, ci offre la visione dei misteriosi e sin troppo nudi “uomini verdognoli”, mentre la quarta dal titolo Harzakc ci ripropone un voyeur professionista che si muove tra seni e ruzzoloni. La quinta avventura dal titolo Harzack è infine un divertente affondo nelle conseguenze della “minzione tossica” del nostro eroe. Certo tutto l’ambiente anticonformista della rivista Metal Hurlant pullula di sconcerie paradossali e plateali, si dipana in territori semantici lussuriosi, ma è Arzach senza ombra di dubbio l’uomo fallico, il donnaiolo spudorato che ne fa da padrone, che si ritrova ad essere il cowboy di questo far-west pornografico (in cui persino l’erba assassina disseminata nelle immense verdi praterie, pare assurgere ad emblema erotico). Soltanto nell’ultima avventura, più articolata e sobria (Arzak, l’ispettore), comparsa poco tempo prima della scomparsa dell’autore, Arzach sembra sfoggiare una sin troppo curata galanteria, che sfocia in un inimmaginabile e però necessario rifiuto alle avance della bella Egland!

arzachcp8È lo stesso Moebius a suggerire nel che “Il punto non è la sessualità ma la complessità del pensiero”, a ricordare che il tentativo è quello di “esprimere il livello della conoscenza più profonda, al margine dell’incoscienza”. E tuttavia, o forse proprio per questo, la sua arte tradisce un fallocentrismo ironico, marcato e diffuso, un fascino irrequieto per la sessualità che non a caso ricorda a Enrico Fornaroli un “medioevo futuro” memore dei pornografici trabocchetti boccacceschi. Le sue splash-page distruggono ed esaltano la grammatica del fumetto lasciandosi trasportare dalle potenze sud-ombelicali: sono pagine di una percettibile forza tribale, di una smaliziata complicità che svela all’osservatore l’evidenza carnale e sibaritica del topos eros-thanatos.

Forse aveva ragione Freud, forse Arzach si affaccia senza timore al baratro dell’inconscio, forse questa è, come proponeva Antonio Iannotta, “una sorta di teoria a fumetti della psicanalisi”. Forse i sogni proibiti di Moebius sono la realtà di questo strano ptero-guerriero, forse quel pozzo profondo e scuro che è la nostra mente ha una forma conosciuta, una morfologia pubica.