Trovarsi inadeguati a parlare di una persona, quando parlare direttamente con la stessa non è mai stata una cosa difficile, credo sia uno dei sintomi più interessanti della scoperta di un maestro.

Quando cioè, la relazione, l’esperienza, sta tranquilla come un vecchio con la pipa nel salotto dell’innominabile, nell’anonimia, allora s’intravede l’evento che è stato quell’incontro, il dipinto sopra il camino fiammeggiante con su scritto: “Non mi dimenticherai mai”.

Ecco, chi per mestiere, per fortuna o per svago, abbia avuto occasione di conoscere Salvatore Oliva, saprà di che cosa sto parlando. Agli altri consegno le mie scarne parole: tentativi di catturare un animale schivo e inafferrabile, come può esserlo una tigre bianca del fumetto.

Salva, così si firmava e voleva essere chiamato, l’ho conosciuto cinque anni fa durante le mie ricerche su Hugo Pratt (era l’argomento della mia tesi di laurea triennale). E l’invito cordiale e affabile che mi arrivò repentino, d’andare a casa sua, dopo nemmeno due telefonate, non mi fece nemmeno sospettare di potermi trovare di fronte ad uno dei più grandi (forse il più grande) conoscitore dell’opera di Pratt di tutta Italia.

Il primo incontro, devo dirlo, fu simpatico: mi fece una specie di test, per vedere quanto davvero ne sapessi del suo ambito. Mi mise di fronte una tavola originale (chissà poi da quale opera secondaria di Pratt, me lo domando ancora), e mi chiese di commentarla. Fu divertente, ci mettemmo a ridere nel suo piccolissimo ufficio bianco, stracolmo di libri ma ben ordinato. Aveva gusto, ecco. Sul salotto erano affisse serigrafie minimal di Corto Maltese. Si vedeva subito che non era uno di quei tipi confusi ed arruffati, nei quali la passione supera la misura. Non capii né che mestiere facesse, né chi fosse.

Quel pomeriggio però ci scambiammo idee, contatti, mi consigliò di andare da un suo amico a Senigallia, da un altro a Vicenza. Facemmo amicizia, insomma. Non ebbe timore di dirmi che era malato, ma lo fece con tatto, come fosse una cosa dolorosa, sì, ma secondaria; parlammo di Stefano Babini. Ci tenemmo in contatto telefonico, e da quel giorno cominciò a spedirmi anche cartoline, inviti a convegni, e soprattutto delle bizzarre buste gialle contenenti libri illustrati e vecchi fumetti. Una cosa d’altri tempi, devo dirlo, splendidamente anacronistica: francobolli, timbri, buste. E che buste: sul fronte spiccavano bricolage di stampe, illustrazioni, disegni, schizzi a biro, definiti e decorati coi pennarelli. Vere opere d’arte postale. Faceva così con gli amici, spediva a tutti buste su buste, tutte decorate singolarmente, che si potrebbe quasi pensare di farne una mostra.

La seconda volta a casa sua gli portai la mia tesi, il libro su Giorgio De Gaspari, ci presentammo le rispettive mogli, bevemmo un thè. Bello, semplice. Continuavano intanto ad arrivare le solite, attese, buste gialle. Ci sentivamo la domenica: chiamate inaspettate, brevi, sempre su Hugo e su quelle che lui continuava a chiamare le mie “strane ricerche”. Sembrava che un pivello come me gli piacesse: ci credeva, voleva che ci credessi anch’io. E alla fine ce l’ha fatta, mi pare.

Questo è quello che so sulla tigre bianca del fumetto: poco, niente.

Quando se n’è andato pochi giorni fa, il 18 luglio 2017, a 58 anni, mi sono venute subito in mente quelle buste, come una cosa dell’altro mondo: piccoli gesti reali di compagnia, un lascito postale. Mi sono anche accorto che non sapevo minimamente con che grande personaggio avevo avuto a che fare: consulente per grandi case editrici, reporter ad Angouleme, fondatore di festival fumettistici, saggista, critico acuto, promotore silenzioso. Avevo conosciuto il volto discreto di uno dei più grandi “gentiluomini di fortuna” che siano mai esistiti. E come me forse si dovevano sentire quei poveretti che la notte incontravano il principe Harun al Rashid, mentre passeggiava per i viottoli della sua città travestito da accattone.

Perché a volte le tigri ti passano accanto e ti fissano un poco, prima di sparire di nuovo nel verde.