di Mario Cancelli. La storica bolognese Galleria d’arte Maggiore, posta all’inizio di via d’Azeglio e che riassume le memorie di un passato che giunge fino al Duecento, offre con sorpresa una significativa scelta di opere dell’artista americano Robert Motherwell. La prima, forse, dopo il confronto con Jackson Pollock, promosso dai curatori del Guggenheim veneziano, un vis-a-vis irripetibile per l’immensità delle due tele, sorpassata forse solo da Guernica, che le genera e in loro si rigenera. Nella sala primaziale del museo, infatti, più che a un match si compie la definitiva spartizione delle due anime, se così si può dire, dell’espressionismo astratto o, secondo la definizione che noi preferiamo, dell’Action painting. Di questo parleremo più avanti.

La piccola ma selezionata mostra bolognese testimonia le tappe di una carriera che fin dall’inizio si trovò implicata e poi perennemente in bilico fra le istanze opposte di un surrealismo che lasciava ai suoi adepti totale carta bianca, senza peraltro risolvere il quesito fondamentale che lo giustifica: l’inconscio. La lezione di Matta segnò certamente il modus recipientis (ed operandi) di Motherwell: un surrealismo che guarda a Bataille più che a Breton, cioè a un capovolgimento ad oltranza dei valori. Presupposti cui il maestro cileno associa una dimensione etnica, fantastica e totemica, che Motherwell non poté mai fare sua, fedele sempre e comunque a un lirismo sentito come essenza dell’arte e dell’io.

Che non sia una questione di formalismo lo proclama la lunga pratica di Motherwell del collage, prima “maniera” dell’avanguardia europeo; ingenua e potente esperienza nel rinnovamento del canone e sincera dedizione al principio primo di Breton, quello del primato dell’inconscio, comunque esso sia concepito. Collage come ultimo stadio della rivoluzione romantica, che iniziò con il concetto di geroglifico, concrezione da liberare nel linguaggio, dissolvimento che non si arresterà nemmeno davanti al non sense. Le ragioni del lirismo romantico sono qui. Una liberazione senza tregua dalle leggi, fino a giungere a un intangibile punto zero, a ciò che è significato perché lo incarna oltre ogni possibile “senso”: il simbolo, senso a se stesso.

I successi di Motherwell su questa strada sono noti. Peggy Guggenheim promosse e pretese un discepolato in questo senso che Motherwell ottemperò con dedizione ed entusiasmo. Forse è proprio qui da verificare se Motherwell abbia operato uno scarto rispetto a questa costituzione simbolica, vista l’abilità nel giocare i “materiali” con particolare attenzione al dato sperimentale e al mondo della memoria. Il Proust del collage, potremmo dire, per l’utilizzo di carte e lettere, in una superficie chiara, tutta da aprire, da leggere. L’occasione bolognese ci offre un testo in cui tutto ciò sembra riassumersi: quella “Star of David” (1976) in cui il simbolo sembra resisterà all’azione corrosiva dei significanti, farsi piccolo, quasi marchio o sigillo di una memoria in atto. Si tratta di una “resistenza” ma anche di un compito, liberare il simbolo senza rimuoverne l’istanza che lo nomina, istanza e legge in Motherwell sempre della forma.

Lo si coglie proprio quando Motherwell, grazie all’Action painting, si autorizzerà al “gesto”, dando vita a macchie di pigmento gettato sulla superficie della tela, per le quali è giustamente riconosciuto, sua cifra psichica e poetica; esse però vivono e convivono con il loro opposto, il nuovo patrimonio di sagome rispetto al quale sembrano come schizzi di calamaio caduti dal pennino. D’altronde ben altro mondo è quello dei “neri” di Klein, posti come travi o tavole bibliche dell’inconscio e del gesto; o le stesse “black paintings” di Pollock, nelle quali la memoria irrompe con i suoi fantasmi in una lirica tessitura astratta.

L’evento del Guggenheim: il fronteggiatesi o meglio il guardarsi di sottocchio dei due teleri. Tra “Mural” di Pollock e l’“Elegy” di Motherwell non sembra esserci occasione di colloquio, tanto essi incarnano due modi, come si dice all’inizio, di concepire l’inconscio. Il primo riconducendo la storia collettiva alla vicenda individuale (sono i passi dell’individuo quelli che Pollock, senza più filtri rappresentativi, agisce sulla tela) e quella opposta, il tentativo di Motherwell di comporre e sedare il proprio conflitto, psichico e quindi poetico, con ulteriori eventualità. Non a caso “Elegy” è ispirato alla di Spagna, guerra civile mondiale si potrebbe dire. In tal modo riaffiora quell’esterno, quel “primato del sociale” che in Guernica veniva invece ad essere riassorbito nel “romanzo familiare” di Picasso, torero egli stesso, primo torero, piuttosto che militante.

Freud contro Lacan, visto che la partita sembra oggi restringersi alle due opzioni accennate: primato della struttura linguistico sociale o recupero dell’elaborazione autonoma dell’individuo, nella patologia o nella sanità.

Felicità dell’elegia, e debolezza, perché incompiuta e consolatoria, dell’ideologia, questa in causa, politica o anche altre, addirittura mistiche.

Cosi sembra definirsi l’ambivalenza di Motherwell. La mostra bolognese conferma come l’elegia si faccia veramente libera quando il dualismo si scioglie dal suo guscio protettivo. Piccoli gioielli, quelli selezionati da Alessia Calarota, come la serie degli “Untitled” o i ricapitolativi “Automatism” , “Black image with ochre”, i quali giustificano con dolcezza e impeto una visita alla galleria nella inesauribile, quanto a bellezza, via d’Azeglio.

 

Robert Motherwell, GALLERIA D’ARTE MAGGIORE, fino al 28 maggio.