di Mario Cancelli. “Milano 0” (1968) di William Congdon, grazie a un atto donativo della William Congdon Foundational al Museo del Novecento, è tornato là da dove idealmente era venuto, quella piazza Duomo sulla quale il museo affaccia le sue vetrate. Proprio il giudizio della commissione che ha accolto la donazione invita a un approccio critico che riconduca l’opera di Congdon alla storia milanese e italiana.

Il quadro potrebbe essere inteso come sfogo o testo apologetico di un personale “disagio della civiltà”, un saluto spiritoso ma imputante rivolto a chi viveva il vortice di quell’anno post boom. Di invettive, peraltro, non si trova nemmeno l’ombra, piuttosto si coglie un che di confidenziale nel convocare, su una scena che si è portati a identificare in piazza Duomo, i riconoscibili archetipi e miti di quegli anni. Un’onirica, partecipata condensazione trasforma in salotto una piazza colma di voci e di presenze: grattacieli come il Pirellone e la Torre Velasca, figure e corpi in abbandono di carni e pensieri, graffiti ante litteram, compongono un tenero e ironico commento dell’angoscia di tutti. Verrebbe da pensare alle “Tragedie da ridere” di Franca Valeri, quei monologhi cari a Giovanni Testori, in cui tutta la città è chiamata in causa.

Invano si cercherebbero in quest’opera insofferenza e irritazione, perché qui, nel gesto pittorico, Congdon si affeziona alle vite degli altri, ne condivide il dramma, si sente fra i suoi simili. Una narrazione rapida e gestuale proietta su un grattacielo, Taj Mahal senza più sacralità, una luce che scivola, portando con sé cenere e bitume, “resti” materici che non permettono più metafisiche accensioni; una materia che desacralizza è infatti l’esito di questo mischiare cenere ai colori ad olio, simbolo architettonico e palcoscenico.

Va poi detto che il titolo non allude certo al punto zero del linguaggio letterario, che pure imperversava in quegli anni, perché al contrario sono tanti i codici linguistici che l’opera parla . Che si tratti dello zero inteso come neorealismo testoriano, come messa a nudo che smaschera l’avanspettacolo della nostrana metropoli sui Navigli, quasi divertente per Congdon che aveva attraversato la Black City? Ed è proprio l’ironia (Congdon ha sempre giocato ottimi scherzi al “tragico”) se non addirittura un quasi fumetto, a tenere insieme i tanti codici, unificando divertito scandalo personale e giudizio storico: insomma ci troviamo più prossimi alla satira di Maccari che a nordici espressionismi.

I rosa, i gialli rossetto delle carni, immortalano le “Lollofrigide” dopo averle fatte scendere dai cartelloni pubblicitario, accompagnandole con grazia sulla ribalta; “Allegria” “morte, “Gina”, lampeggiano nell’arena coi toni coatti ed esclamativi della pubblicità. Congdon non sta certo lanciando vernice sulle pellicce delle signore alla prima della Scala, piuttosto il suo giudizio dice di sé, del suo non accettare il mondo: anche qui, come sempre in Congdon, a consentire la sortita dagli idoli e dalle censure, è l’atto creativo. In “Milano 0” ciò che è personale e privato trova il modo per divenire pubblico: non è questa la via di “Guernica”? Non si assisteva, in Picasso, a un deciso, elaborato virare da un fatto d’historia al “romanzo personale” o meglio, “familiare”? Da allora, come non ritrovare il campo di battaglia nel proprio atelier, come non sentirsi ogni giorno sotto le bombe? Già il “Quarto stato” di Pellizza da Volpedo aveva rappresentato il manifesto di una mobilitazione pubblica che si muta in un lutto privato, permettendo di assistere, proprio qui al Museo del Novecento, a un’ascesa (o a una discesa) dell’arte nei territori ormai indagati dell’io.

Una parte significativa dell’eredità di Congdon sta proprio nel non dimettere mai la consapevolezza della propria “scissione”, nel non annullarla mai in sublimi assoluti. Le “Basse”, frutto di una scelta spirituale radicatasi come scelta di vita in un territorio preciso, trasportano l’“action” dai romantici e consumati tralicci delle “City” newyorkesi a nuovi e coltivati campi, tralicci dove rifiorisce il seme, dove cioè il gesto può riaffermarsi.

Occorre però sottolineare che si tratta appunto di gesto e non di anima effusa misticamente sulla tela, come la critica ha spesso accreditato: basti osservare le ultime prove di questo poema benedettino, che riconducono ali di luce a materici solchi di un lavoro mai concluso e sempre da verificare. Colori a olio impastati a cenere, si è detto: non barocchismo sperimentale, ma partecipazione a un dramma di tutti in cui non manca mai il proprio. Solo così è dato “uscire” dal mito. E mito soprattutto era l’anno, il mitico ’68 , che azzerava tutto in nome di una immaginazione separata da “ogni” potere.

Quel che avvenne e si produsse attorno a quegli anni porta i segni, anche fascinosi, di quella scissione. Gli sforzi compiuti verso la sintesi in quegli anni cruciali rimangono pietre miliari nei rispettivi ambiti artistici: è lì che occorre guardare, alla letteratura e al cinema di quegli anni, per trovare i compagni di cordata di questo Congdon milanese. Nel Pasticciaccio di Gadda, il commissariato si trasferisce tour court nel salotto di Liliana Balducci: un mélange linguistico ineguagliato narra una poliziesca quête nella quale il commissario è al tempo colui che indaga e l’indagato (Liliana, donna o madre?). La cognizione del dolore, che dipana la matassa in chiave tutta psichica, non parte da qui? E Teorema di Pier Paolo Pasolini, non si sviluppa grazie a un teorema per il quale la schizofrenia del capitalismo si “compie nel totemico suicidio del padre, il denudato Massimo Girotti?

“Dì quel che pensi” (principio della clinica freudiana che può valere come metro di giudizio per qualsiasi poetica) si potrebbe dire, a conclusione di queste ipotesi di ragionamento. Dì quel che pensi e recupererai qualcosa di te e della storia degli altri.

 

“Milano 0”, anno 1968, olio e cenere su faesite

Museo del Novecento. Milano.

 

(Mario Cancelli)