di Mario Cancelli. A quel “nodo” irrisolto che fu l’Action painting americana, l’opera di Mark Tobey, in mostra al Guggenheim veneziano, la prima in Europa di tale portata, appartiene e si dimostra legata, tanto più si cerca di separarla.

Delle “città bianche” di Tobey, dei tralicci dalla luce chiara, delle superfici sature di pigmenti e cesellate dall’attività di un certosino dell’oro bianco, allusive all’Oriente senza ulteriori precisazioni, si venne a conoscenza grazie all’opera critica di Francesco Arcangeli. I filamenti, i deboli grafismi a galla in una materia presente e delicata, e soprattutto una linea che percorreva la superficie quasi senza legge, furono facilmente collegati ai testi dell’espressionismo astratto americano. Il teatro di uno spazio indefinito e di una libera ed espansiva gestualità, erano concetti che permettevano al critico bolognese di unificare esperienze diverse tra loro e di queste le città di Tobey erano da considerarsi sovrani prolegomeni.

Debra Bricker Balken, curatrice della mostra, sembrerebbe, grazie a un prezioso aneddoto, confermare tale lettura: quella di un Pollock folgorato da Tobey.

Agli indiani d’America si sostituiscono i calligrammi cinesi? Niente paura, per i fans del modernismo: anche su Tobey, che iniziò formandosi sul Rinascimento, grava l’ombra di Duchamp. Sta di fatto che l’Oriente fornì al peregrinante eremita un appoggio, non certo una soluzione. Quel che lo muoveva era la vitalità della città, cui sempre tornerà: questa è la filigrana dei suoi colloqui, e i suoi testi rinviano ad essa come le insegne delle strade rinviano ai passanti.

“Luce filante (Threading light)”, del 1942, tempera su carta che dà il titolo alla mostra, rinvia con la sua tecnica detta della “scrittura bianca” ad un Oriente si percorso e amato ma anche parteciparlo da una soggettività che associava ad esso passione per la musica e per la sperimentazione.

Ne risulta un “atto” pittorico fluido e preciso, ritmico e calligrafico assieme, che, come dice il titolo dell’opera, fila, va, si sfila e ti fila, per poi svanire e ritornare come un gesso sulla lavagna che segni senza stridore o come filamento di un incisore di coralli, che suggerisce l’idea di un dripping eseguito lentamente da un mandarino cinese. “Il vuoto divora l’era del gadget”, 1942, che anticipa le Excavations di De Kooning, vira verso una empirica spiritualità. Poi saranno le trame di seta, in competizione con il marmo e il vuoto.

Rimane da chiedersi come mai un artista di straordinaria sensibilità narrativa e vis satirica, come testimonia il bellissimo “Nebbia al mercato” del 1940, si consegni a un lavoro di annullamento dei dati della civiltà, poi recuperarli, attraverso tali atti ripetitivi, quasi baco da seta inesausto, materici e desacralizzanti in fondo.

Che il secernere questo materico e opalescente bianco, come inesausto baco da seta, insegue più che sintesi di civiltà, quel gusto che, ci si perdoni il paragone, richiama non la luce metafisica ma, come sanno i bambini – e saremmo a cavallo fosse così – il sapore dello zucchero filato, piacere che ogni civiltà promette e concede: ma a quale prezzo? Questa partita con la materia (e materia proprio quando essa si accende nella luce), rimise in moto le geometrie di Kandinsky, si veda “Eventuality 44”), per inseguire le gloriose “eventualità della scrittura rinvenuta”. Chi disse di no a tutti, lo fece forse perché aveva intuito come le crisi delle civiltà siano in primis crisi dell’io. Da qui anche le ragioni di un’adesione a un credo monoteistico che tutto omologava. Ma se gli ultimi ed eccelsi atti di Tobey furono l’approdo a un sublime quanto accademico accademismo, cioè ai sacri valori dell’arte, sorge la domanda: in the meantime? Il gran rifiuto che Tobey rivolse alla scuola di Parigi, rimette in gioco infatti l’arte di Tobey, e l’interesse per essa.

Fu un rimanere fedele alle ragioni dell’espressionismo, a un gesto che, imparentato con l’inconscio, non si opponeva per questo al pensiero, come pretendevano gli europei.

L’Action painting conobbe il medesimo destino: da una parte lo “sporco” della materia come istanza dell’io, dall’altra la purezza della perla, lavorata dal maestro di Seattle, con una perizia che non sopporta compromessi.

A seconda di come si risponda a questa domanda, si avrà la chiave di tale pittura, capace di evocare l’universo dopo averlo quasi completamente rimosso, di nominare Grecia e Roma e America e Oriente, dopo averli consumati. Forse le “black paintings” di Pollock iniziano proprio nel punto in cui le “White paintings” di Tobey concludono (recuperando dall’oceano le figure della propria storia personale), è straordinario però ritrovare lungo le sale del Guggenheim, una libertà che, nonostante il sogno di una Lattea galassia, non rinuncia alla sindone del proprio dramma.

(Mario Cancelli)

Bologna, 17-6-2017

 

Mark Tobey. Luce filante

Peggy Guggenheim Museum

6 maggio – 10 settembre 2017

A cura di Debra Bricker Balken

#MarkTobey