Ma chi è davvero Peter Pan?

peter pan 002di Giovanni Scarpa. Ciò che farò in questa prima riga sarà scusarmi preventivamente coi lettori per l’ingenuità del criterio che soggiace al breve scritto che segue. Quello cioè, profondamente freudiano, che vede nascosta nella remota biografia di un autore la sorgente, la cagione d’essere dei suoi personaggi letterari. E tuttavia nessuno più di Peter Pan mi ha spinto, o per meglio dire condotto a volo, verso il suo creatore.

I reali motivi che hanno fatto nascere, nella mente e nella penna dello scozzese James Matthew Barrie l’impavido capo dei bimbi sperduti, rimarranno naturalmente celati agli occhi dei comuni mortali come l’orologio nel ventre del coccodrillo; eppure quattro suggestivi spunti dalla vita di questo autore mi hanno aiutato ad avvicinarmi a Peter, a poterlo sbirciare di nascosto. E se alcuni di essi paiono pieni di gioia come sorrisi dai denti da latte, altri sono invece tristi da far morire una fata:

peter pan 0071) C’è un velo delicato di tristezza che spesso accompagna Peter, e lo si trova in frasi soffuse come questa: «si diceva ad esempio che vivesse con le fate o che, quando un bambino moriva, lui lo accompagnava un po’ affinché non avesse paura».

peter pan 008Anche la vita dell’autore ci mostra spesso tracce di una sofferenza discreta, ma decisiva. Un lutto in particolare, avviene quando James ha 7 anni: suo fratello maggiore David muore improvvisamente lasciando nel cuore della madre un vuoto incolmabile. La mamma non fa altro che pensare al figlio defunto, pare aver dimenticato gli altri, pare aver dimentica anche lui, il più piccolo. Ricorda Barrie di quel periodo: «Mia sorella mi disse di andare nella stanza di mia madre e di dirle che aveva anche un altro bambino. Entrai eccitato, ma la stanza era buia [...]. Udii una voce sconsolata, mai prima d’allora così sconsolata, che mi disse, “Sei tu?” credo che il tono mi ferì perché non risposi. Poi la voce, ancora più ansiosamente, ripeté “Sei tu?” pensai che stesse rivolgendosi al ragazzo morto e dissi con vocina derelitta, “No, non è lui, sono solo io” allora udii uno scoppio di lacrime».

peter pan 004Un ricordo sconfortante, indelebile, che non può non dar testimonianza al contraddittorio rapporto che Peter Pan intrattiene con la figura materna: la cerca disperatamente per sé e i compagni in Wendy, la odia dal più profondo del cuore per averlo sostituito con un altro bimbo, per averlo escluso dalla sua vita sbarrando la finestra di casa (straordinario è a proposito il capitolo L’ora di Chiusura in Peter Pan nei giardino di Kensington). Sia Peter che Berrie sono quindi bambini dimenticati, sperduti, e l’eterna giovinezza del primo rappresenta forse quella eternamente mancata del secondo: un’assenza che prende finalmente corpo, che ora può godere nella fantasia la sua libertà selvaggia, la sua radiosa spensieratezza.

peter pan 0012) A 35 anni finalmente James sposa l’attrice Mary Ansell, dalla quale però non riesce ad avere figli.

È forse per questo che mi è parso di vedere in personaggi come Peter, come i bambini sperduti, i luoghi di una speciale paternità che, come vedremo, troverà misteriosamente compimento.

3) Due anni dopo infatti, conosce Sylvia Llewlyn Davies, “la più bella creatura che io abbia mai visto” e, nonostante il felice matrimonio di lei e i suoi cinque figli, se ne innamora teneramente. È dall’amicizia profonda nata tra lui e questi bambini che sembra davvero prendere forma il volto di Peter. Scrive infatti nel 1928 a proposito di questi nuovi piccoli amici: “Ho creato Peter Pan strofinandovi violentemente insieme, come fanno i selvaggi che producono una fiamma”. Nonostante il complesso rapporto con i genitori (la gelosia del marito di Sylvia soprattutto), Barrie nutre un grandissimo affetto per loro: li porta a spasso per i giardini di Londra, li accudisce come può. E quando all’inizio del Novecento Sylvia e il marito muoiono improvvisamente, non mancherà di adottarli e crescerli come un buon padre.

peter pan 0034) Nel 1912, quando Berrie decide di realizzare una statua di Peter Pan da mettere nei giardini di Kensington, consegna allo scultore Frampton alcune foto del piccolo Michael Llewlin Davies in posa. Eccoci allora di fronte al volto reale del bimbo sperduto, al volto del Peter Pan a cui Barrie ha riaperto la finestra, che ha adottato dopo la morte dei genitori. Ogni serio appassionato dell’Isola che non c’è, ogni piccolo ammiratore di Capitan Uncino, di Spugna, Trilli o Giglio Tigrato, dovrebbe conoscere questo volto di ragazzo, questo volto deciso, segnato dalla tragedia, salvato dall’amore di un nuovo papà.

peter pan 006Luce e ombra dunque convivono in Peter Pan: la gioia della paternità, la bellezza dell’infanzia, come l’assenza di una maternità piena, il dramma della crescita. Questa nebulosa di sentimenti contrastanti mi ha ricordato per molti aspetti il famoso tema del “nido” pascoliano: la tenerezza della famiglia, la tragedia, lo struggimento, la bellezza della natura.

Forse anche perché è proprio un “nido” a condurre spesso sopra le acque il piccolo Peter, ma lascio al lettore il piacere di scoprire come e dove.

E forse proprio perché ogni volta che crediamo di conoscerlo, ci ritroviamo in mano solo la sua ombra, Peter Pan è l’immagine più riuscita della nostra infanzia, l’accadere sempre lieto di un ricordo prezioso. Conoscerlo o riscoprirlo, leggendo le pagine di Bpeter pan 005arrie, è un po’ come aprire di sera la finestra della nostra stanza e fissare a lungo una stella: la seconda a destra.

 

P.S. Consiglio vivamente l’edizione edita da Lavieri, Peter Pan, Barrie-Frezzato, di cui sono riportate qui alcune immagini.


Schiele e Van Gogh, camere da letto a confronto

van-gogh-ritratto-reddi Giovanni Scarpa. Chi tra noi non ha mai visto, nel salotto dell’amica delle medie o nella sala d’attesa del dentista borghese, una stampa della famosa Camera da letto di Van Gogh? Qualche appassionato lettore potrà pure vantare una visita al famoso museo di Amsterdam dove ancora vibrano le pennellate dense del pittore dall’orecchio mozzato: beato lui (il visitatore s’intende).

Avrei voluto per questa occasione contare le parole dedicate, sui saggi, i libri e le riviste che ingombrano la mia libreria, al fatidico dipinto e a lui soltanto - anche se sono tre le versioni pittoriche - ma l’ardua impresa avrebbe probabilmente occupato lo spazio di qualche settimana se non più e consumato parimenti le mie già scarse facoltà intellettive, nonché ritardato la mia dilungata carriera universitaria.

Egon-Schiele-ritratto dettaglioOra si dà il caso che a me piaccia assai più di Van Gogh, il pittore viennese Egon Schiele. Sarà perché disegna delle splendide donne nude, sarà perché queste donne nude possiedono una dignità e una tensione figurativa inarrivabile, sarà per il tratto sacrale e drammatico col quale le trasmuta sulla carta, certo è che questo scritto non dovrebbe parlare di donne nude e sono già andato fuori tema (mannaggia a te Schiele e a quei tuoi tre giorni di carcere per atti osceni!)

van gogh roomInsomma, quello a cui volevo arrivare, o da cui volevo partire, è che, dopo aver visto il celebre dipinto Camera da letto dell’artista ad Arles nel 1908, anche il giovane Egon Schiele decide di dipingere la sua, di stanza. Come a sottolineare quella profonda “simpatia” tra i due artisti, quel profondo amore alla vita e quello struggente sentore di morte che domina il loro sguardo, che permea i loro dipinti tra girasoli e volti: physis e thanatos. Due vite intense, brevi, fugaci, luminose come comete: Vincent muore a 37 anni con più di 900 dipinti e mille disegni alle spalle, Egon a 28, con 380 dipinti e 2800 disegni.

Egon-Schiele-Schiele_s-Room-in-NeulengbachTra questa miriade di opere, due stanze d’artista, dunque, due camere da letto che custodiscono quiete e tormento. Perché se i colori caldi, azzurro e marrone, del curato olandese potevano blandire gli occhi e smorzare un poco quel senso d’inquietudine dato dalle prospettive sghembe, i colori freddi, nero e bianco, del viennese, la tendenza chiara alla bidimensionalità, paiono atterrire del tutto l’umore dell’osservatore. Eppure questa a Nuelengbach, è una camera che assomiglia molto a quella di Arles: un letto sulla destra, due sedie, un comodino ingombro; e tuttavia non ci sono porte né finestre: nessuna apertura, nessuna via di fuga. Il giallo epatico del pavimento occupa i tre quarti dello spazio visivo, la prospettiva è rialzata, tutto si verticalizza, cade come i dipinti sull’angolo in alto a sinistra. I profili s’assottigliano: le gambe del comò sono sbarre da galera, il letto scuro una lama, una bara.

Forse per questo, forse perché inquieta troppo, la camera di Egon non finisce nei salotti luminosi, nelle sale d’attesa dei dentisti.

Forse, ecco, se i dipinti di Van Gogh assomigliano ad un vago prurito, quelli di Egon Schiele costituiscono una perfetta, scomoda, carie!


La Rana padovana o le sorprese della Street Art.

rana padovana (1)di Giovanni Scarpa.

Mentre il mondo dei writers incontra un incredibile assenso generale (la mostra a Bologna, la più vicina esposizione di Tony Gallo allo spazio Tindaci di Padova) e affronta i primi ostacoli morali (Blu che decide di cancellare le sue opere, i graffiti di Banksy staccati dalle pareti di Londra e acquistati dai collezionisti), eccoci a presentare al pubblico una chicca patavina. Se infatti molti già conoscono il pregiato lavoro dello schivo Kenny Random, del più consueto Alessio B, della new entry Tony Gallo, o del più scialbo Red, pochi forse si sono accorti della bella “Rana padovana” (nome dato dal sottoscritto naturalmente) nata dal rana padovana (4)gruppo pseudo vandalico BeiControi Padova (BT/PD), che ha invaso il centro storico (ne ho contate quasi un centinaio) col suo tacito gracidare, e che incarna i vecchi bei valori rebel, un poco mainstream, degli artisti di strada: ribellione alle autorità civili, odio per le istituzioni e così via.

Insomma, una street art che non ha paura di sporcarsi le mani e che non cerca di tutelare se stessa.

rana padovana (3)E che egregio risultato, oserei dire: un logo sintetico, dal design minimal e simpatico: ormai quasi la cerco con lo sguardo tra le pareti dimesse e le cassette elettriche della città! Come si fa a non voler bene ad una rana così, beffarda, incurante del giudizio altrui, sempre pronta a spuntare fuori improvvisa col suo ghigno spavaldo, le sopracciglia arcuate da finta saccente. È questa la street art che mi piace: quella lasciata per strada da gente balzana che ha voglia di turbare lo status quo, quella abbandonata sui cassonetti e sui cupi viali, quella dei teppisti e dei vandali a cui nessuno bada.

rana padovanaChe sia finita l’epoca in cui il genio artistico si nascondeva sotto le mentite spoglie di un graffittaro strafatto e un poco tamarro? Che sia giunto il momento in cui i writers già cercano avvocati per legalizzare le loro illegali scorribande? Chissà. Per ora a me basta sperare di incrociare lungo la strada consueta, l’improvviso sorriso arricciato di una nuova rana o chissà quale sorpresa inaspettata.


Di chi ha paura la Paura: i disegni di papà Mortensen

foto 5di Giovanni Scarpa. Divenuti ben presto un fenomeno virale (più nel web che nell’editoria), i disegni di John Kenn Mortensen hanno fatto il giro del mondo in men che non si dica e riscontrato un meritato successo. Non tanto per lo stile, memore di Edward Gorey e delle atmosfere macabre á la Tim Burton, ma per il peculiare retroscena. Il nostro infatti è un papà come gli altri e scrive nell’introduzione al piccolo volume che lo presenta: “Sono nato in foto 4Danimarca nel 1978. Scrivo e dirigo programmi per bambini, sono padre di due gemelli e non ho molo tempo per altre cose. Quando ce l’ho, disegno mostri sui post-it. È la mia finestra aperta su un altro mondo, fatto di carta per ufficio”.

foto 3Non è un lavoro il suo, ma un passatempo. Uno strano passatempo di natura catartica, apotropaica per certi versi: mostri scuri su sfondi itterici, tra noir e horror che tuttavia sembrano celare una verità straordinaria. Perché se è vero che il nostro papà-artista ama disegnare mostri, è anche vero che assieme ad essi compare spesso la figura del bambino. E la dinamica bambino-mostro, si risolve (tacitamente) in una maniera che ricorda molto il film d’animazione Monster & Co. della Pixar: foto 2è il mostro a temere i bambini, è la Paura ad avere terrore di ciò che non conosce.

Mi ha ricordato alcuni vecchi racconti su orchi spaventati e streghe terrorizzate, sullo stupore grande dei bambini che, come nei Goonies, sanno fare amicizia coi “mostri” offrendo cioccolato. È un padre buono dopotutto, questo danese, e nella sua tranquilla quotidianità, attraverso le carte giallognole del suo ufficio, ci ricorda come sia misterioso l’incontro con il terribile, come possa essere buffa la Paura. foto 1E mentre gli harrypotteriani staranno già gongolando, pensando a quanto possa essere vero un “Molliccio”, a me tornano in mente certe belle pagine dei libri di padre Gabriele Amorth, nelle quali spesso si ricorda che il Nemico ha una fifa terribile di chi (e chi più dei bambini?) è in stato di grazia.

 


Lupin Terzo: ritorno alle origini

foto 4di Giovanni Scarpa

Scrivere su un mito intramontabile e vivo come quello di Lupin Terzo è un compito che per fortuna non compete direttamente a questo breve scritto.

Piuttosto esso vorrebbe affrontare quel problema legato alla cosiddetta (dal sottoscritto) “secolarizzazione mediatica”: il fenomeno cioè attraverso il quale rivisitazioni o reinterpretazioni contemporanee faticano a cogliere le idiosincrasie stilistiche e contenutistiche dell’opera d’arte (narrativa, poetica, pittorica...) cui fanno riferimento.

foto 5Perché se è vero che l’opera fumettistica del giapponese Monkey Punch ha visto un autorevole e magico interprete nel celebre Miyazaki, è anche vero che ultimamente si è vista in tv una, più che discutibile “avventura italiana” del ladro gentiluomo. Cambi di rotta nella grafica, nelle più intransigenti leggi dell’inconscio (soprattutto nell’ossessione di Lupin per Fujiko, surclassata, pare, da una più scialba “sposa” italiana), una generale deriva negli storyboard, ci spingono a suggerire un, se non necessario, quantomeno consigliabile ritorno alle origini. Siamo infatti convinti che, come recita il motto veneziano “Unde origo inde salus”, spesso, soprattutto per quanto riguarda i miti più celebri, una sbirciatina alla versione originale risulta più che salutare.

foto 3Basta infatti dare un’occhiata alla versione italiana delle storie giapponesi uscita nella collana “Mitico” per godere pienamente e con gusto la reale figura di Lupin: linee fluide sgorgate dal pennino acerbo ma brioso di Kazuhiko (nella foto). Tratti scattosi, animaleschi (è lo stesso autore ad aver confermato il parallelismo tra Lupin e una scimmia) suggeriscono una fuga continua, un’arguzia e un’allegria spontanee, sprezzanti. E poi ancora fisionomie grottesche, esagerate: uno stile ben lontano dalla stabilità figurativa delle serie tv. Chi nutre una, anche minima passione per questo bizzarro furfante dovrebbe, e dico dovrebbe, per lo meno provare a leggere uno degli splendidi 26 piccoli volumi usciti negli anni Novanta. Qui si trova l’anima profonda di Lupin, il vero sapore salace e aspro del suo carattere (compreso l’erotismo spinto spesso censurato nelle serie animate!).

foto 2E certamente sta qui la conferma del fatto che se i vecchi tratti neri dei primi fumetti sapranno sempre rubarci un sorriso, il Mercato odierno con le sue nuove edizioni e le mal riuscite avventure, non saprà mai truffare Lupin, né tantomeno rubargli qualcosa.


La luce, in Italia, è la madre degli alluci

di Giovanni Scarpa.

Cattura[1]L’arte, tutta letteraria, della descrizione, del dire “su” o “di”, ha certamente avuto nella penisola italica il suo più grande interprete in Carlo Emilio Gadda con buona pace, o almeno si spera, dell’agguerrito Calvino. Paradossale sorte della letteratura dunque, trovare in un ingegnere il degno erede al suo alto trono (esegesi forse magistrale della saga aladdinesca ed arturiana nonché topos, che dir si voglia, del povero-re). Ora, se c’è una branca della “descrizione” che da tempo si era perduta (e penso ad Omero o al Vasari, tra scudi d’Achille e Cristi di Donatello) è quella dell’Ekphrasis: la descrizione dell’opera d’arte. Ingrato compito, nonché ardito, quello di “dipingere con la lettera”, questo fenomeno ha spesso trovato nella cosiddetta “filosofia dell’arte” un confortevole refugium peccatorum, una più placida tenzone narrativa (senza offesa a Panofsky o Gombrich...).

Che senso ha più oggidì cimentarsi in questa assurda impresa, quando basta chiedere al signor Google? Quando la signora Jpg ci può far vedere subito tutto ciò che vogliamo?

Eppure ecco, per grazia, una splendida e raffinata Ekphrasis contemporanea, che mi capita di leggere tra le pagine del famoso Pasticciaccio gaddiano. Un sofisticato ma brioso elogio al potere del Logos, al bonario e rassicurante dominio della Parola, che senza indugio ora consegno agli innumerevoli lettori di questo blog:

 

Michelangelo_Buonarroti_Tondo_Doni[1]- La luce, in Italia, è madre agli alluci: e se uno è un pittore italiano non ischerza, bah, come non ischerzò il Manieroni alli Du Santi, né con la luce né con gli alluci. Il metatarso di San Giuseppe s’è peduncolato di inimitabile alluce nel tondo michelangiolano della Palatina (Sacra Famiglia): il qual ditone, per una porzione minima invero, ha tegumento pittorico dal ditoncello della Sposa: una luce livida e pressoché surreale, o escatologica forse, propone l’Idea-Pollice, altamente incarnandola vale a dire ossificandola, a’ primi piani del contingente: e la recupera subito a’ metafisici livori dell’eternità. Il metatarso medesimo protubera pollice pedagno rivale del michelangiolano e palatino (a signiferare il miracolo, o meglio l’audicolo della castità virile) nei Sacri Sponsali dell’Urbinate oggi a Brera. E il dito mastro, pur disunito da’ ditonzoli, alla radice l’è speronato e nocchiuto: e di poi converge all’indentro quasi obbligato dalla gotta o dalla costrizione abituale d’una calzatura momentaneamente dimessa, o direi domum relapsa come troppo fetida per l’ora delle nozze. -

 

La descrizione continua per diverse pagine in una sorta di divertissement che pare una bulimica evacuazione verbale, smodata ma accurata al limite dell’erudizione (c’est Gadda). Pagine ricche di letteratura, di creatività, che meriterebbero un posto speciale in qualche bizzarro libro d’arte.


Quando Bing Bong ci insegna ad amare

di Giovanni Scarpa.

foto 2Il penultimo film di animazione Pixar Inside out ha suscitato una serie innumerevole di articoli molto belli. E ora che si sono un po’ calmate le acque, ora che giornalisti e critici hanno fatto il loro dovere, vorrei gettare il mio piccolo sassolino.

foto 5Si, perché pochi, troppo pochi hanno posato lo sguardo su quello che per me è stato, tra tutti, il personaggio più commovente della storia dei film Pixar. Più dei toccanti otto minuti in cui si dipana l’avventura amorosa degli sposi in Up, più del rapporto d’amicizia profonda che lega Dory a Marlin, più della dedizione semplice e toccante di Crichetto, più della tensione paradossalmente umana di Wall-e, Bing Bong centra il bersaglio, ferisce il cuore con la sua allegria e il suo “eroismo affettivo”.

foto 3Bing Bong è l’amico immaginario della protagonista, il morbidoso compagno dei primi anni, dei lunghi interminabili giochi. Si trova libero e solo, ormai, nella parte più profonda della mente di Riley e anche se dimenticato, anche se apparentemente inutile, lo incontriamo e lo vediamo proprio mentre raccoglie i ricordi più belli di lei, quelli più preziosi, mentre li mette da parte in una strana saccoccia prima che gli “addetti” li eliminino per sempre. E poi l’avventura, la compagnia alle disperse emozioni, la caduta nel baratro, il sacrificio! Scene di una sconcertante drammaticità che mai ci si sarebbe aspettati dalla Disney (che un tempo avrebbe forse evitato, modificandole come la fine reale della Sirenetta di Andersen) e che pare anzi, dovessero essere ancora più esasperate, ancora più toccanti.

how-inside-out-expertly-fits-into-the-pixar-theory-like-it-s-not-even-trying-449964[1]Ecco, in questo periodo di attentati e guerra, in questo mondo in subbuglio, il personaggio creato da Pete Docter salva per noi nella sua saccoccia, una preziosa sfera dimenticata che dice: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).

Nessun personaggio dei cartoni, neanche la principessa Anna in Frozen o Flynn Rider in Rapunzel (che col loro gesto tornano infine alla vita), ha saputo dare se stesso in modo così gratuito, così totale, così dimentico di sé!

foto 1Bing Bong si dona e basta, non visto, non ricordato, come i veri eroi del quotidiano. Mi ha ricordato alcuni passi del diario di Santa Teresina o quel bel frammento di Pavese che dice: “È una vecchia sapienza, ma fa piacere averla riscoperta. Credi solo all’attaccamento che costa sacrificio: tutto l’altro è, nel migliore dei casi, retorica. Del resto Cristo – il nostro divino modello – non pretendeva di meno dagli uomini”.

foto 5Quale marito non vorrebbe poter amare così, quale fidanzato non vorrebbe potersi dare così per la sua amata. È un “amore al Destino dell’altro”, direbbe un grande educatore del diciannovesimo secolo come Giussani, che permette questa realizzazione.

Solo allora potremmo sussurrare come Bing Bong, consegnando alla Gioia chi ci sta a cuore: “Portala sulla luna per me”.


I misteriosi disegni di Chiara Bautista

di Giovanni Scarpa.

foto 4Quella della giovane messicana Chiara Bautista è un’arte che ricorda le inquietanti figure di Jaw Cooper, le leggiadre fate di Man Arenas, e che certamente riecheggia lo stile di qualche abile mangaka. Eppure nessuno come lei ha saputo attrarre per l’oscurità dei referenti e la misteriosità dei contenuti. Credo che questa illustratrice abbia rilasciato sinora solo un paio di interviste, meno del reticente Banksy, e nessuna inerente i dettagli dei suoi disegni. Perciò il sottoscritto non ha nemmeno tentato di contattarla, si è permesso di fare soltanto delle supposizioni presumibilmente intelligenti.

Innanzitutto si potrebbe dire che le sue illustrazioni (soprattutto nell’ultimo periodo) si stanno facendo sempre più monotematiche, e che sempre due personaggi, a volte un terzo, dialogano tra loro in uno sfondo fiabesco, forestale, un Wonderland. Diamogli un’occhiata.

foto 21) La donna-rabbit

Una sorta di pallida ninfa (forse emblema, simbolo dell’illustratrice), si aggira tra i boschi con una curiosa maschera da coniglietto. Non può non ricordare le intriganti pagine di Lewis Carrol, suggerire una sintonia con un arte giapponese di vaga ispirazione Miyazakiana. Cattura con grazia la tenerezza, la leggerezza, la rapidità del glauco roditore.

foto 12) Il lupo stellare

Un grande lupo nero che racchiude in se l’oscurità della notte e il bagliore delle stelle. Un ritaglio di cielo, una concrezione dell’universo. A volte sembra costituire una controparte maschile alla nostra protagonista fatata, ma più probabilmente ne è compagno fedele, amico sincero. Il classico topos dell’animale feroce, amabile compagno di un inaspettato protagonista.

foto 33) l’uomo dal teschio d’uccello

Compare più raramente, in vesti esplicitamente maschili, ed è colui per il quale la donna-rabbit sembra soffrire, gemere. È l’atteso, colui che permane nella lontananza. Noir, pulp, cyberpunk, molteplici e vaghe le sue inclinazioni semantiche.

Bautista non ha mai detto nulla a riguardo. Nonostante la ripetitività delle sue opere, l’insistenza dei fans, non ha mai svelato anche solo il canovaccio di quella che si presenta come una splendida e travagliata avventura amorosa.

foto 5Eppure la presentazione figurativa si sta dimostrando vincente, le sue misteriose immagini stanno facendo impazzire di curiosità gli osservatori di tutto il globo. Intriganti come la nebbia, misteriose come le galassie racchiuse tra le fauci dello scuro lupo, le sue illustrazioni spopolano nel web, dilagano nella Tattoo Art. Ho cercato delle possibili ispirazioni grafiche in manga come Tokyo Ghoul o Inuyasha, ma la sintesi dei vari elementi sembra frutto di un’alchimia genuina, di una personalissima visione altra della realtà.

Tocca a voi ora inseguire le ninfe, scegliere la pillola rossa, suggerire interpretazioni, pensare a vie di fuga: attendo con gioia nuove ingerenze, alternative letture.

 

(Giovanni Scarpa)

 


Donne al telefono

CIMG8071Ne ho conosciuti alcuni. Di quelli che quando alzavano la cornetta per rispondere o chiamare, staccavano per un po’ il cervello. In quei momenti (ormai estinti dal meteorite che è stato il cellulare) il loro braccio pareva avere una vita propria e presa in mano la matita, si mettevano a disegnare. Stelle, quadrati, casette, figure amorfe o complicate, se ne vedevano davvero di tutti i colori germogliare dall’inconscio liberato, su fogli, foglietti, quaderni, rubriche.

foto 4 (1)Mai avrei pensato che Lele Vianello fosse uno di loro.

Fumettista di fama internazionale, Lele è un uomo sanguigno e simpatico che sa fare delle pastasciutte straordinarie. Vive a Malamocco tra la voce della laguna e il canto del mare, in una casa che dal salotto allo studio è foderata di libri, fogli, maschere, modellini di barche a vela: alla Dylan Dog per capirci. Ma soprattutto libri, libri illustrati: Frazetta, Rockwell, Rembrandt, N.C. Whyeth… e Hugo Pratt, naturalmente.

CIMG8073Si, perché di quella vasta combriccola che gravita attorno alla figura di Hugo (Manara, Babini, Cossi, Ongaro, Frisenda, Pellejero…), Lele è certamente il più autorevole e tenace interprete: ha saputo trarre dal “fumettaro” le linee, i tratti (anche caratteriali) più intimi, maneggia le chine e le matite allo stesso modo, e anche nella cadenza inestirpabile di veneziano, riecheggia spesso la voce del maestro. Nelle sue avventure a fumetti si respira quella che ultimamente Juan Diaz Canales ha definito “l’atmosfera Pratt” e giustamente, data la sua ventennale convivenza con il padre di Corto.

CIMG8068 - CopiaOra, nella sua rubrica telefonica (dalla copertina di cuoio logora e sgualcita) c’era qualcosa di diverso dal solito: un’arte spontanea, leggera, sfuggente.

Forse proprio perché non ricercate, non “studiate”, non volute, quelle donne sdraiate sui numeri telefonici, aggrappate ai contatti di amici e parenti, volgari e spudorate, emanavano una splendente aurea a luci rosse, spandevano nell’aria dello studio il loro sordido e suadente profumo di vita.

CIMG8072Certo ricordavano le amanti prattiane, quelle con nome e cognome che avevano illustrato le poesie del Baffo, quei nudi sparsi nelle pagine di Tango o Corte sconta, ma molto più ardite, molto più frivole. “Guarda questa” diceva mentre mi mostrava un simpatico ménage à trois “ero al telefono con Babini”.

Vedevo nudi variegati, a volte appena abbozzati, altre volte curati, sontuosi, acquerellati, che lasciavano trasparire l’anima profondamente erotica del Vianello solitario. Se fossero state poi semplici esercizi anatomici, selvatiche inflorescenze pornografiche, io non saprei dire, e forse neanche Lele. L’unica cosa certa era che quei nudi sgorgavano da una mente libera, dal vago o vivido ricordo di un amore che aveva preso possesso del suo braccio durante l’arco di una telefonata. E pensare, dissi tra me, che anche l’arte di Hugo era ricominciata in Italia (dopo il suo ritorno dall’Argentina, quando ancora Corto non era nato) proprio con una telefonata: Ring Ring è stata la sua prima mostra veneziana.

CIMG8070“Le disegno così, mentre telefono. Ormai saranno trent’anni che scarabocchio su questa vecchia rubrica”. E non solo sulla rubrica. Continuava raccontandomi di come spesso si ritrovasse a disegnare su fogli sparsi, sul retro delle tavole su cui stava lavorando. Queste donne erano, paradossalmente, una pausa nel suo mestiere di disegnatore. “Il prossimo anno spero di riuscire a raccoglierle tutte in un libro, uno sketchbook, che intitolerò Dietro la striscia”.

“È una rubrica da galera”, mi ha detto poi mettendosi a ridere, stavamo bevendo una vecchia bottiglia di Tio Pepe “vedi a me piace molto Egon Schiele”. Allora ci siamo messi a sbirciare quei nudi scabri ed essenziali, quelle linee autentiche che alla fine avevano davvero fatto finire il pittore tedesco in gatta buia. “Non preoccuparti Lele”, mi misi a dirgli, “te la compro io la rubrica”, e lo avrei fatto davvero. Solo dopo aver finito il bicchiere in un sorso, mi disse guardingo “e dopo come faccio io coi numeri di telefono?!”. Ci mettemmo a ridere: in effetti sarebbe stato un problema.

 

Il sito internet di Lele Vianello www.lelevianello.it.

 

(Giovanni Scarpa)

 


I topi del Leopardi finiscono in America

mouseguard-panini-620x350Sono pochi, purtroppo, a conoscere quel meraviglioso testo leopardiano intitolato Batracomiomachia ovvero la battaglia dei topi e delle rane. Questa traduzione da testo greco, che impegnò Giacomo per lunghi anni (sono tre le versioni rivedute nel tempo), si propone non solo come squisito esempio di perizia filologica, ma soprattutto come eccellente manifesto della sua curiosa ironia. Il testo scherzosamente epico, gli piacque così tanto che non mancò di scriverne un sequel: i Paralipomeni alla Batracomiomachia. In quella che ora potrebbe essere chiamata “sottocultura furry”, topi vestiti con elmi di noci e spade di spilli, guerreggiavano contro rane bardate di giunchi e conchiglie. Gloriosi scontri omerici, raffinate descrizioni al limite del grottesco, visioni degne di una rivisitazione Cartoon.

lv1-preview-1Strano ma vero, nel 2007 un disegnatore americano, certamente senza aver letto l’opera del Leopardi, comincia una serie di splendide graphic novel intitolate “Mouse Guard”, “La Guardia dei Topi”.

Una storia da poco giunta in Italia e che pare sgorgare direttamente dalla stessa sorgente figurativa del giovane recanatese (e dove persino i granchi, elemento chiave della Batracomiomachia, fanno il loro breve intervento).

GuardiaDeiTopiGranchiÈ toccato quindi ad allo statunitense David Petersen, e senza nemmeno saperlo, riprendere per primo in mano una faccenda ormai relegata ai salotti intellettuali, e rubarla per così dire ai soporiferi convegni filologici. Un compito che avrebbe probabilmente scoraggiato qualsiasi colto illustratore, trova invece nell’innocente fumettista americano un degno erede: segno che a volte l’ignoranza può davvero portare buoni frutti!

Davvero sorprendente la sintonia, la bizzarra e per certi versi incredibile somiglianza tra le due lontane opere.

lv1-preview-2L’intera vicenda editoriale, ancora in fase di sviluppo (e ne siamo lieti), è affiancata da un sito web www.mouseguard.net, dove il Nostro raccoglie varie bozze, disegni, schizzi.

La Guardia dei Topi racconta la piccola avventura (piccola solo nelle dimensioni s’intende) delle topesche guardie armate che difendono il popolo dei ratti. Scontri, tradimenti, armi leggendarie: tutto riecheggia con intelligente sprezzatura le grandi gesta cavalleresche delle Chanson de geste, degli antichi poemi cavallereschi. Tutto a statura di topo.

blackaxe2E se non me la sento di consigliarne la lettura al pubblico adulto, vorrei certo obbligare tutti i papà del mondo a comperare ai loro figli quantomeno il primo volume.

Pensate soltanto che Giacomo Leopardi lo avrebbe certamente scritturato.

 

(Giovanni Scarpa)