di Mario Cancelli. «Leggere un giudizio su questa figura mi fa sempre piacere: così per esempio, secondo Herman Grimm, essa sarebbe “l’apice della scultura moderna”. Certo, da nessun’altra scultura sono rimasto più fortemente toccato. Quante volte ho salito la ripida scalinata che porta dall’infelice Via Cavour alla solitaria piazza dove sorge la chiesa abbandonata! e sempre ho cercato di tener testa allo sguardo corrucciato e sprezzante dell’eroe, e mi è capitato qualche volta di svignarmela poi quatto quatto dalla penombra di quell’interno, come se anch’io appartenessi alla marmaglia sulla quale è puntato il suo occhio…» (S. Freud, Il Mosè di Michelangelo, 1914).

Non passava giorno che Sigmund Freud, nei suoi soggiorni romani, non venisse qui, a San Pietro in Vincoli, cercando di scoprire la ragione o il segreto di questa statua.

Oggi i visitatori vi giungono molto più numerosi di allora, e forse qualcuno di essi vive la medesima esperienza del fondatore della psicoanalisi, si scopre attratto cioè da qualcosa che lo riguarda, da una rappresentazione di cui siamo tutti partecipi.

Forse la suggestione dell’opera consiste proprio nel gesto emblematico di Mosè, un gesto che conclude, come ha dimostrato Freud, in una calma imprevista, dopo la prolungata ira, in quel constatare che la fluviale, inverosimile barba è ancora lì, al suo posto: come un politico quando fuoriesce dalla vettura di rappresentanza va con le mani alla propria cravatta le millanta volte, per accertarsi di essere ciò che spera di essere, così Mosè sembra autocertificarsi di se medesimo palpandosi la nilotica barba.

Un Mosè che appare perciò, malgrado la grandiosità, incerto, prudente quasi oltre misura, rassegnato e forse inquieto, sotto sotto ancora minaccioso come tanti dicono; mentre il giovane David vive della sua attenta serenità, della sua mancanza di dubbi, del suo compito di custode della città, cui tutto il suo corpo è teso, INVECE il Mosè ha bisogno della sua barba per sussistere.

Il linguaggio delle opere di Michelangelo, dal troppo finito della Pietà vaticana al non finito delle ultime, manifesta il faticoso andare verso la modernità: se in tutte le sue opere si riflette qualcosa che riguarda le “civiltà”, questo “grande uomo” però, che esce dalla facciata del monumento sepolcrale di papa Giulio II come un antico faraone (il sarcofago del papa è al secondo livello della fabbrica, quindi scarsamente visibile), rinvia a un complesso conflitto, che pone la riflessione sulle origini nella modernità.

Nessun’opera ha mai sopportato giudizi tanto opposti: vi si coglie la terribilità che incute il volto del legislatore, ma anche il timore di Mosè stesso alla vista del suo popolo, c’è determinazione ma c’è angoscia.

Quale l’originalità del Mosè nell’opera di Michelangelo?

La Cappella Sistina è teatro shakespeariano prima di Shakespeare, attira e trascina nel suo vortice figure mitologiche, storiche e anonimi astanti. Tale continuum di terra cielo, alto e basso, crea un moto che rompe gli schemi aprendo all’inconscio; una circolazione che coinvolge forme e sguardo, è quel che cerca l’uomo moderno, il quale ha visto le stelle sfuggirgli di mano e la sua storia quasi perdersi fra leggi che egli crede di dominare e da cui invece è dominato. “Il Giudizio universale” rinvia alla più perfetta delle titolazioni, facendo riferimento a giudizio e universalità, anche se il garante dell’ordine, quel giovane e palestrato Cristo triumphans, sembra patire un dramma analogo a quello delle figure circostanti.

Il suo giudizio salva dal caos, ma quanto APPARE periclitante quel suo gesto che separa salvati e dannati: gli uni non paiono molto più contenti degli altri, sommersi tutti in un fragore tremendo che, siamo sinceri, un po’ ricorda un Dies irae di Karl Orff diretto da André Rieu. Non a caso Ungaretti vide nell’ormai barocco Giudizio di Michelangelo, specchiarsi non la fede ma l’inquietudine.  Così come Longhi vide nella “Decollazione del Battista” di Caravaggio il silenzio di una scena ormai irriconoscibile e Roberto Calasso negli affreschi del Tiepolo, l’inaugurarsi di una forma “leggera”, un tripudio di significanti in festa, senza più remora per i significati, resti indesiderati.

Ma davanti al Mosè si può tornare proprio come avveniva a Freud, con l’aspettativa di un pensiero ancora urgente, che vince la rimozione: tanto che il suo segreto, si è detto, sembra coincidere con quanto di non rimosso opera in ognuno di noi, si tratti di pulsione inconscia o di un passato personale ancora irrisolto.

Il Faraone, il profeta, che nella sintesi iconica michelangiolesco-hollywoodiana ha il volto di Charlton Heston (si ricordi il drammone titaneggiante “Il tormento e l’estasi”, successivo a “I dieci comandamenti” di Huston) non esce da un sacrario di morte, ma sembra offrire a chi guarda la sollecitazione di un pensiero tutto da compiere.

Rimane un’ultima riflessione: non sarà che proprio qui, a Roma, a San Pietro in Vincoli, Freud abbia avuto l’intuizione che gli mancava, e che svilupperà molti anni dopo?

Forse qui è nata l’intuizione, che non ritroviamo nel coevo Totem e Tabù, e che in tutta la sua esplosiva verità occuperà l’ultimo scritto di Freud, “L’uomo Mosè e la religione monoteistica” (1939) dove sarà finalmente “pensato” quel segreto cui si è accennato, che lega la vicenda dell’individuo a quella delle civiltà. Basta fare un semplice confronto fra la barba del Mosè, accarezzata, aurea, fallica e allo stesso tempo fiume dei secoli che la Legge attraversa, e la posticcia barba rituale del Faraone Akhenaton che Freud chiama in giudizio.

Le statue sono cieche, inutile fissarle negli occhi per cercarne le intenzioni.  Nel nuovo (non) sacrario Mosè esce alla luce, va verso gli uomini, con la calma a fatica conquistata, nel perdurante timore di un presagio che attraversa ogni tempo. Questo il vero segreto, che renderebbe umano il faraonico profeta: il presagio di un’imminente nuova ribellione del suo popolo, e della propria morte.

Sì, è possibile che qui a San Pietro in Vincoli a Freud sia venuto quel pensiero del parricidio di Mosè: ciò renderebbe quest’opera una orta di “incunabulum inconscii”, che ci attrae perché ci mette di fronte a ciò che, da sempre, avviene nella storia di ogni individuo.

 

(Mario Cancelli)