Quel marpione di Renè, meglio noto come Rainer Maria

di Giovanni Scarpa.

«Non si riesce a immaginare Platone e Aristotele se non con gran vesti di pedanti. Erano invece delle persone comuni e ridevano, come gli altri, con i loro amici; e quando si sono divertiti a scrivere le Leggi e la Politica l’hanno fatto per divertirsi; questa era la parte meno filosofica e meno seria della loro vita, mentre la più filosofica era di vivere semplicemente e tranquillamente» Pascal, pensiero n.331

 

Ci sono dei testi che per loro natura ci spingono ad immaginare i volti e le vite di chi li ha prodotti come una sorta di corollario alla loro esistenza. C’è allora chi vede George Martin picchiato da bambino, chi la Rowling chiusa in uno sgabuzzino, ognuno si figura il proprio autore a seconda dei libri che ha scritto. A volte ci si azzecca pure, a volte, come nel caso di Rike, un po’ meno.

Rilke. Di solito chi pronuncia questo cognome lo fa in contesti culturali di un certo spessore: il tono di voce si abbassa, le sopracciglia si piegano in modo innaturale, lo sguardo si fa penetrante e serissimo. Non si fanno battute su Rilke, non si scherza con Rilke, si mostrano solo foto che lo ritraggano esile, tisico, imperscrutabile e possibilmente in posa da pensatore professionista: era pur sempre tedesco (boemo per l’esattezza)!

Chi mai sospetterebbe che dietro la facciata luminosa della fenice della poesia mondiale si nasconda un furbissimo porcellino d’india? Che dietro immagini sobrie e parche si nasconda un tipo così porco? (ok, mi fermo con le battute brutte!).

Donne gravitano attorno a lui come api attorno ad un unico fiore, ovunque: amanti, corrispondenti, mecenati ereditiere, pittrici, “amiche”, poetesse: Lou Andreas-Salomè, la Principessa Marie von Thurn und Taxis, Adelmina Romanelli, Baladine Klossowska, Erika Mitterer, Marga Wertheimer, Loulou Albert-Lasard, Magda von Hattingberg, Clara, sono solo alcuni dei nomi di quelle che Rilke intrattiene con missive che per potenza evocativa superano di gran lunga le pagine di Cinquanta sfumature di grigio.

Perché il punto è non parlare mai di sesso. L’arte dell’abbindolamento e della conquista emerge chiaramente dalle lettere del poeta come arte del “non detto”, del segreto sussurrato, del gesto accennato, del profumo inebriante e delicato, della metafora floreale e vaga. Le donne in brodo di giuggiole gli rispondono tutte insieme e egli, come scrive alla pittrice Klossowska il 16 dicembre del 1920, si ritrova a dover rispondere a ben 115 lettere al giorno.

Esempio imprescindibile della maestria rimorchiativa del poeta apparentemente “sfigato” rimane senza ombra di dubbio l’esperienza con l’intellettuale Lou Salomè.

Questa dama rientra a pieno titolo in quella vasta categoria delle cosiddette “profumaie” che tanto palesano la loro disponibilità quanto esecrano coloro che provano a trarne profitto.

Molto determinata, corpo attraente, stravagante, labbra “quasi religiose”, una sfinge misteriosa: gli uomini più importanti e attraenti della Monaco bene le cadevano ai piedi come peri cotti ma lei, niente! Nietzsche ci prova e lei, niente! Freud ci prova, e niente! Persino il teologo Hendrik Gillot ci prova, ma niente! Nessuno, per l’evidente bassezza intellettuale nei suoi confronti, riesce a catturarla. Nemmeno al marito di lei, tale Friedrich Carl Andreas, è concesso il previlegio di consumare un matrimonio di facciata. La vergine melliflua ed intoccabile procede a passo lento come una Marilyn ante-litteram: Maddalena e Madonna.

È il 12 maggio del 1897 quando il poeta incontra lei assieme alla fedele amica per le strade della città: lui ha 22 anni, lei 36. Reagisce, prestante e per nulla intimidito dalla sua presenza, alle provocazioni intellettuali paccosissime su tematiche teologico-religiose e nel giugno dello stesso anno i due (assieme all’amica sfigata di prima, Frieda von Bulow) stanno già amoreggiando nello chalet di famiglia nella valle dell’Isar.

Camminano a piedi nudi, si recitano poesie d’amore, discutono di filosofia, s’imboscano. E mentre lei gli cambia il nome “René” in “Rainer” (che più si avvicina all’idea di purezza, pensa un po’), questi conquista ciò che nessun uomo prima di lui era stato in grado di conquistare: il corpo di lei. Eminenti studiosi come H.F. Peters e E.M. Butler discuto ancora circa il primato rilkiano sulla patata dell’intellettuale, ma, nonostante le diatribe, la storia risulta emblematica circa la marpioneria del poeta che si presenta ad essere uno dei più colti toy-boy della storia mondiale.

Con ciò non si vuole certo sminuire la portata rivoluzionaria che opere come le Elegie Duinesi o i Sonetti ad Orfeo hanno avuto per la poesia, ma portare un po’ d’aria fresca, ecco, pulsante ed erotica, all’interno di una stanza sulla quale spesso la “critica letteraria” di facciata ha saputo depositare strati e strati di polvere stantia.

Bukowski apprezzerebbe, così come quel donnaiolo di Victor Hugo, ne sono certo. Perché il poeta mingherlino, l’orfico e taciturno scrittore sempre in viaggio, sa benissimo che se è pur vera la frase “carmina non dant panem” altrettanto vera è quella per cui spesso “dant” qualcos’altro: egli più di altri ha compreso il potere conturbante della lettera, dello scrivere, quel suo farsi carezza e talamo.

È la lettera che ferisce più della spada, con essa si conquistano castelli, fortezze, e se si è bravi come Rilke, persino donne inespugnabili.


Il passaggio di Enea, riflessioni post Meeting di Rimini

di Mario Cancelli. A Meeting concluso, una riflessione sul pensiero che le esposizioni artistiche promosse da Casa Testori hanno offerto e suscitato.

 

1

Una premessa rassegnata: anche qui troviamo le inevitabili cornici didattiche (in favore di una res publica semper edificanda atque educanda) tese a divinare o strologare quanto racchiuso nel sacrario dell’opera. Infatti, al Meeting 2017, Casa Testori si è cimentata con il mito virgiliano di Enea in fuga da Troia in fiamme proponendo un obbligato ma non spiacevole percorso propedeutico alle opere: un video strutturato come un trittico.

Nel primo episodio, un padre dei nostri giorni cerca di far entrare nella testa del figlio, con urla e scenate, la storia e i valori fondanti del mitico eroe. Il figlio, che scambia Anchise per Ascanio, cioè il padre per il figlio, non ne può più ed esprime in malo modo il suo disinteresse per il mito. La seconda parte offre l’esemplare scena di un vecchio film in cui si assiste allo sfogo, lucido e freddo, di un giovane che sanziona il padre assicurando che non gli deve nulla e che non vede l’ora che questi sparisca dall’orizzonte. Dopo interessanti testimonianze di Caproni e Pasolini, ritroviamo padre e figlio del primo atto, questa volta on the road; il padre non si regge in piedi, il figlio lo prende sulle spalle e, sotto il peso, riesce a sbagliare per l’ennesima volta i nomi del mito.

Incorreggibile ignoranza delle nuove generazioni? Per nulla. È preferibile pensare a un autentico, bellissimo lapsus, ed è grazie a questo lapsus che la proposta di Casa Testori si qualifica come moderna: testimone del pensiero che si mostra in atto, non Kultura ma atto individuale del colto. Un auspicio: sarebbe interessante vedere l’anno prossimo al Meeting una mostra sulla seconda parte del mito di Enea, quella dei gemelli Romolo e Remo (con annesso fratricidio, una variante del parricidio) beninteso con relativi lapsus.

Le contigue immagini di Julia Krahn (una donna che si è caricata sulle spalle quella che si è portati a ritenere la madre, invero non così senile come Anchise) segnalano forse l’ingresso delle quote rosa nel mito, molto apprezzate da Cristiana Collu alla presentazione della mostra.

Completato il percorso catecumenale delle cornici, si passa alle opere con animo ben disposto e si scopre, a conferma di quanto si diceva, che i miti, quando funzionano, funzionano perché inconsci. Solo così sono acquisibili alla fruizione individuale, altrimenti degradano a meri materiali, fondi di magazzino junghiani.

2

“The last supper” (1987), in cui Andy Warhol ripensa “L’ultima cena” di Leonardo da Vinci, è il perno della mostra. Grazie a questi famosi “multipli”, l’arte e la storia del soggetto raffigurato fanno un balzo di secoli: historia artis facit saltus! Balzo difficile da riconoscere ai cultori del bello e del sacro, che continueranno a vedere in Warhol un terrorista nel sacrario dell’arte.

Il guadagno, in effetti, sta proprio nella de-sacralizzazione compiuta dall’operazione estetica di Warhol. Il quale si prende sulle spalle (guarda caso) la suprema icona del Rinascimento italiano, senza farsene schiacciare, perché grazie all’operazione estetica in questione, cioè la famosa moltiplicazione quasi evangelica delle immagini, le permette di uscire dalla caverna delle idee platoniche e di comunicare.

Questa serialità riprende ed esalta la modalità dello schermo televisivo; una ripetizione per nulla ossessiva e che non abbassa il linguaggio, anzi lo rende familiare, quotidiano, insomma laico: ma pare che proprio lì volesse arrivare Leonardo stesso, con quel Cristo gentile il quale, mentre tutti lo fissano ipnotizzati, ma in realtà distratti, lui solo, al centro della tavola, intercetta e offusca il sole, poiché è evidente che non gradisce né accecamento né ipnosi. Un’opera ben poco sacrale, quella di Leonardo, ironica, in definitiva “mentale” e sulla quale si sono incongruamente accaniti negli ultimi anni i ben noti clangori fantareligiosi.

Certo in “The last Supper” ritroviamo la logica che aveva dato origine ai Campbell’s Soup, ma è proprio quella prosaica serialità che apre alla dicibilità di quel fatto di duemila anni fa: la cena dell’every man è resa prossima a quella in cui il Figlio di Dio si offre, in corpo e sangue, superando così il totemismo stesso, causa della sacralità: per grazia di giudizio individuale, siamo infatti fuori dal tempio.

È, quella in oggetto, una duplicazione del modello originario, poi riunificata nella forma quadrata, non imitazione o citazione, ma piuttosto superficie comunicativa, che in altri esemplari si copre di cifre e simboli (come era in Pollock), mentre qui gioca l’assetto orizzontale (quello della tavola e degli apostoli) con quello verticale. Il famoso “Tutto è superficie di Warhol viene citato da Giuseppe Frangi a proposito e permette di evitare, rispetto a Warhol, la svista più facile, quella che consiste nello spiritualizzare quanto è già spirituale.

È così che Warhol vince la sua partita, non contro gli amati padri (Brunelleschi, Leonardo) ma contro coloro che in tale svista cadono in ragione del loro “rimosso”: un’opportuna mappa concettuale vedrebbe Warhol contro Dan Brown: pensiero contro occulto, partecipazione contro idealizzazione.

 

3

I “frammenti” raccolti in questa mostra dicono la contraddittorietà dell’arte contemporanea, che vive di essi, e dei quali noi stessi viviamo anche solo per il quotidiano passarvi accanto. Qualcosa però accomuna tali frammenti raccolti per il Meeting da Casa Testori, come già accennato prima, cioè la non rimozione o almeno il suo tentativo.

È da qui che vengono novità o riproposte interessanti, come il bel film in bianco e nero nel quale Antonioni si confronta con il complesso statuario michelangiolesco di San Pietro in Vincoli, che ci riporta non tanto o non solo alle figure di Mosè, di Giulio II e di Maria, ma grazie al silenzio del regista, reso afasico dalla malattia, consegue un proustiano lasciar tornare ciò che sembrava perduto, senza domande, ma con cura di quel che appunto viene al pensiero.

Il video approda visivamente al tragico silenzio dell’ultimo Caravaggio, in quel muto uscire di Antonioni dalla basilica: un lento camminare nella luce verso la luce esterna, come chi porta con sé un’esperienza di soddisfazione.

 

4

La condanna che colpisce ogni parola quando viene ridotta a mero significante è rinvenibile a partire dall’esperienza quotidiana. Tale damnatio colpisce a maggior ragione il capolavoro. A questa consapevolezza si deve la poetica della “cancellatura” di Emilio Isgrò, tra le più note ed emblematiche prese d’atto di questa condizione. Sulle pareti della sala a lui dedicata, egli ci offre, umilmente e con l’ironia che sempre lo contraddistingue, il tentativo di salvare gli amati Promessi Sposi dall’annullamento: e, puntualmente, il suo atto suscita la reazione dei custodi del sacrario dell’arte. Abili e bianche cancellature, un verticale “effetto muro” cui la pagina è consegnata, dal quale emergono termini isolati o brevi accostamenti ( “tutto è cancellato”, “Dio”, “ Io”): emozionanti parole chiave da cui ripartire.

Alla medesima logica della cancellazione appartengono i “profondi rossi” di Giovanni Frangi, in cui viene ad essere sommersa e dilavata la più rocciosa, e mantegnesca natura.

Wim Wenders e Julia Krahn sono accomunati da un epos della distruzione che si auto cancella nello stesso cromatismo o negli inani rinvii simbolici, di cui si è detto all’inizio. Poi Dessì, con la ciclopica mano che tiene sospesa l’immensa casa gialla: ma poteva anche essere piccola, delle misure di un gadget, e forse sarebbe stato meglio. Infine, Paci ambienta la sua via crucis fotografica, pirandelliana più che pasoliniana, in un cortile di condominio: spazi per un soggetto in cerca della sua legge.

 

(Mario Cancelli)

 

IL PASSAGGIO DI ENEA. Artisti di oggi a tu per tu con il passato

20-26 agosto 2017, piazza A1 della Fiera di Rimini

A cura di Casa Testori - Davide Dall’Ombra, Luca Fiore, Giuseppe Frangi, Francesca Radaelli


Evocare l’universo dopo averlo rimosso. Mark Tobey alla Guggenheim

di Mario Cancelli. A quel “nodo” irrisolto che fu l’Action painting americana, l’opera di Mark Tobey, in mostra al Guggenheim veneziano, la prima in Europa di tale portata, appartiene e si dimostra legata, tanto più si cerca di separarla.

Delle “città bianche” di Tobey, dei tralicci dalla luce chiara, delle superfici sature di pigmenti e cesellate dall’attività di un certosino dell’oro bianco, allusive all’Oriente senza ulteriori precisazioni, si venne a conoscenza grazie all’opera critica di Francesco Arcangeli. I filamenti, i deboli grafismi a galla in una materia presente e delicata, e soprattutto una linea che percorreva la superficie quasi senza legge, furono facilmente collegati ai testi dell’espressionismo astratto americano. Il teatro di uno spazio indefinito e di una libera ed espansiva gestualità, erano concetti che permettevano al critico bolognese di unificare esperienze diverse tra loro e di queste le città di Tobey erano da considerarsi sovrani prolegomeni.

Debra Bricker Balken, curatrice della mostra, sembrerebbe, grazie a un prezioso aneddoto, confermare tale lettura: quella di un Pollock folgorato da Tobey.

Agli indiani d’America si sostituiscono i calligrammi cinesi? Niente paura, per i fans del modernismo: anche su Tobey, che iniziò formandosi sul Rinascimento, grava l’ombra di Duchamp. Sta di fatto che l’Oriente fornì al peregrinante eremita un appoggio, non certo una soluzione. Quel che lo muoveva era la vitalità della città, cui sempre tornerà: questa è la filigrana dei suoi colloqui, e i suoi testi rinviano ad essa come le insegne delle strade rinviano ai passanti.

“Luce filante (Threading light)”, del 1942, tempera su carta che dà il titolo alla mostra, rinvia con la sua tecnica detta della “scrittura bianca” ad un Oriente si percorso e amato ma anche parteciparlo da una soggettività che associava ad esso passione per la musica e per la sperimentazione.

Ne risulta un “atto” pittorico fluido e preciso, ritmico e calligrafico assieme, che, come dice il titolo dell’opera, fila, va, si sfila e ti fila, per poi svanire e ritornare come un gesso sulla lavagna che segni senza stridore o come filamento di un incisore di coralli, che suggerisce l’idea di un dripping eseguito lentamente da un mandarino cinese. “Il vuoto divora l’era del gadget”, 1942, che anticipa le Excavations di De Kooning, vira verso una empirica spiritualità. Poi saranno le trame di seta, in competizione con il marmo e il vuoto.

Rimane da chiedersi come mai un artista di straordinaria sensibilità narrativa e vis satirica, come testimonia il bellissimo “Nebbia al mercato” del 1940, si consegni a un lavoro di annullamento dei dati della civiltà, poi recuperarli, attraverso tali atti ripetitivi, quasi baco da seta inesausto, materici e desacralizzanti in fondo.

Che il secernere questo materico e opalescente bianco, come inesausto baco da seta, insegue più che sintesi di civiltà, quel gusto che, ci si perdoni il paragone, richiama non la luce metafisica ma, come sanno i bambini - e saremmo a cavallo fosse così - il sapore dello zucchero filato, piacere che ogni civiltà promette e concede: ma a quale prezzo? Questa partita con la materia (e materia proprio quando essa si accende nella luce), rimise in moto le geometrie di Kandinsky, si veda “Eventuality 44”), per inseguire le gloriose “eventualità della scrittura rinvenuta”. Chi disse di no a tutti, lo fece forse perché aveva intuito come le crisi delle civiltà siano in primis crisi dell’io. Da qui anche le ragioni di un’adesione a un credo monoteistico che tutto omologava. Ma se gli ultimi ed eccelsi atti di Tobey furono l’approdo a un sublime quanto accademico accademismo, cioè ai sacri valori dell’arte, sorge la domanda: in the meantime? Il gran rifiuto che Tobey rivolse alla scuola di Parigi, rimette in gioco infatti l’arte di Tobey, e l’interesse per essa.

Fu un rimanere fedele alle ragioni dell’espressionismo, a un gesto che, imparentato con l’inconscio, non si opponeva per questo al pensiero, come pretendevano gli europei.

L’Action painting conobbe il medesimo destino: da una parte lo “sporco” della materia come istanza dell’io, dall’altra la purezza della perla, lavorata dal maestro di Seattle, con una perizia che non sopporta compromessi.

A seconda di come si risponda a questa domanda, si avrà la chiave di tale pittura, capace di evocare l’universo dopo averlo quasi completamente rimosso, di nominare Grecia e Roma e America e Oriente, dopo averli consumati. Forse le “black paintings” di Pollock iniziano proprio nel punto in cui le “White paintings” di Tobey concludono (recuperando dall’oceano le figure della propria storia personale), è straordinario però ritrovare lungo le sale del Guggenheim, una libertà che, nonostante il sogno di una Lattea galassia, non rinuncia alla sindone del proprio dramma.

(Mario Cancelli)

Bologna, 17-6-2017

 

Mark Tobey. Luce filante

Peggy Guggenheim Museum

6 maggio - 10 settembre 2017

A cura di Debra Bricker Balken

#MarkTobey


La barba di Mosè, Akhenaton e il timore di un presagio

di Mario Cancelli. «Leggere un giudizio su questa figura mi fa sempre piacere: così per esempio, secondo Herman Grimm, essa sarebbe “l’apice della scultura moderna”. Certo, da nessun’altra scultura sono rimasto più fortemente toccato. Quante volte ho salito la ripida scalinata che porta dall’infelice Via Cavour alla solitaria piazza dove sorge la chiesa abbandonata! e sempre ho cercato di tener testa allo sguardo corrucciato e sprezzante dell’eroe, e mi è capitato qualche volta di svignarmela poi quatto quatto dalla penombra di quell’interno, come se anch’io appartenessi alla marmaglia sulla quale è puntato il suo occhio…» (S. Freud, Il Mosè di Michelangelo, 1914).

Non passava giorno che Sigmund Freud, nei suoi soggiorni romani, non venisse qui, a San Pietro in Vincoli, cercando di scoprire la ragione o il segreto di questa statua.

Oggi i visitatori vi giungono molto più numerosi di allora, e forse qualcuno di essi vive la medesima esperienza del fondatore della psicoanalisi, si scopre attratto cioè da qualcosa che lo riguarda, da una rappresentazione di cui siamo tutti partecipi.

Forse la suggestione dell’opera consiste proprio nel gesto emblematico di Mosè, un gesto che conclude, come ha dimostrato Freud, in una calma imprevista, dopo la prolungata ira, in quel constatare che la fluviale, inverosimile barba è ancora lì, al suo posto: come un politico quando fuoriesce dalla vettura di rappresentanza va con le mani alla propria cravatta le millanta volte, per accertarsi di essere ciò che spera di essere, così Mosè sembra autocertificarsi di se medesimo palpandosi la nilotica barba.

Un Mosè che appare perciò, malgrado la grandiosità, incerto, prudente quasi oltre misura, rassegnato e forse inquieto, sotto sotto ancora minaccioso come tanti dicono; mentre il giovane David vive della sua attenta serenità, della sua mancanza di dubbi, del suo compito di custode della città, cui tutto il suo corpo è teso, INVECE il Mosè ha bisogno della sua barba per sussistere.

Il linguaggio delle opere di Michelangelo, dal troppo finito della Pietà vaticana al non finito delle ultime, manifesta il faticoso andare verso la modernità: se in tutte le sue opere si riflette qualcosa che riguarda le “civiltà”, questo “grande uomo” però, che esce dalla facciata del monumento sepolcrale di papa Giulio II come un antico faraone (il sarcofago del papa è al secondo livello della fabbrica, quindi scarsamente visibile), rinvia a un complesso conflitto, che pone la riflessione sulle origini nella modernità.

Nessun’opera ha mai sopportato giudizi tanto opposti: vi si coglie la terribilità che incute il volto del legislatore, ma anche il timore di Mosè stesso alla vista del suo popolo, c’è determinazione ma c’è angoscia.

Quale l’originalità del Mosè nell’opera di Michelangelo?

La Cappella Sistina è teatro shakespeariano prima di Shakespeare, attira e trascina nel suo vortice figure mitologiche, storiche e anonimi astanti. Tale continuum di terra cielo, alto e basso, crea un moto che rompe gli schemi aprendo all’inconscio; una circolazione che coinvolge forme e sguardo, è quel che cerca l’uomo moderno, il quale ha visto le stelle sfuggirgli di mano e la sua storia quasi perdersi fra leggi che egli crede di dominare e da cui invece è dominato. “Il Giudizio universale” rinvia alla più perfetta delle titolazioni, facendo riferimento a giudizio e universalità, anche se il garante dell’ordine, quel giovane e palestrato Cristo triumphans, sembra patire un dramma analogo a quello delle figure circostanti.

Il suo giudizio salva dal caos, ma quanto APPARE periclitante quel suo gesto che separa salvati e dannati: gli uni non paiono molto più contenti degli altri, sommersi tutti in un fragore tremendo che, siamo sinceri, un po’ ricorda un Dies irae di Karl Orff diretto da André Rieu. Non a caso Ungaretti vide nell’ormai barocco Giudizio di Michelangelo, specchiarsi non la fede ma l’inquietudine.  Così come Longhi vide nella “Decollazione del Battista” di Caravaggio il silenzio di una scena ormai irriconoscibile e Roberto Calasso negli affreschi del Tiepolo, l’inaugurarsi di una forma “leggera”, un tripudio di significanti in festa, senza più remora per i significati, resti indesiderati.

Ma davanti al Mosè si può tornare proprio come avveniva a Freud, con l’aspettativa di un pensiero ancora urgente, che vince la rimozione: tanto che il suo segreto, si è detto, sembra coincidere con quanto di non rimosso opera in ognuno di noi, si tratti di pulsione inconscia o di un passato personale ancora irrisolto.

Il Faraone, il profeta, che nella sintesi iconica michelangiolesco-hollywoodiana ha il volto di Charlton Heston (si ricordi il drammone titaneggiante “Il tormento e l’estasi”, successivo a “I dieci comandamenti” di Huston) non esce da un sacrario di morte, ma sembra offrire a chi guarda la sollecitazione di un pensiero tutto da compiere.

Rimane un’ultima riflessione: non sarà che proprio qui, a Roma, a San Pietro in Vincoli, Freud abbia avuto l’intuizione che gli mancava, e che svilupperà molti anni dopo?

Forse qui è nata l’intuizione, che non ritroviamo nel coevo Totem e Tabù, e che in tutta la sua esplosiva verità occuperà l’ultimo scritto di Freud, “L’uomo Mosè e la religione monoteistica” (1939) dove sarà finalmente “pensato” quel segreto cui si è accennato, che lega la vicenda dell’individuo a quella delle civiltà. Basta fare un semplice confronto fra la barba del Mosè, accarezzata, aurea, fallica e allo stesso tempo fiume dei secoli che la Legge attraversa, e la posticcia barba rituale del Faraone Akhenaton che Freud chiama in giudizio.

Le statue sono cieche, inutile fissarle negli occhi per cercarne le intenzioni.  Nel nuovo (non) sacrario Mosè esce alla luce, va verso gli uomini, con la calma a fatica conquistata, nel perdurante timore di un presagio che attraversa ogni tempo. Questo il vero segreto, che renderebbe umano il faraonico profeta: il presagio di un’imminente nuova ribellione del suo popolo, e della propria morte.

Sì, è possibile che qui a San Pietro in Vincoli a Freud sia venuto quel pensiero del parricidio di Mosè: ciò renderebbe quest’opera una orta di “incunabulum inconscii”, che ci attrae perché ci mette di fronte a ciò che, da sempre, avviene nella storia di ogni individuo.

 

(Mario Cancelli)


Come rimuovere l’universo per poterlo evocare. Mark Tobey alla Guggenheim

di Mario Cancelli. L’opera di Mark Tobey, in mostra al Guggenheim veneziano, appartiene e si dimostra legata a quel nodo in parte irrisolto che fu l’action painting americana e tanto più vi appartiene quanto più si cerca di separarla.

Fu Francesco Arcangeli a portare a conoscenza dell’Europa le “città bianche” di Tobey, i tralicci dalla luce chiara, le superfici sature di pigmenti e il cesello certosino di quel bianco aureo, allusivo a un imprecisato Oriente. I filamenti, i deboli grafismi che sembrano galleggiare in una materia diffusa e delicata e soprattutto quella linea che percorre la superficie quasi senza legge, furono da Arcangeli collegati all’espressionismo astratto.  Al critico bolognese dovette sembrare, quello, il teatro di uno spazio indefinito e di una libera ed espansiva gestualità, testo esemplare che gli permetteva di unificare esperienze diverse tra loro di cui le città di Tobey parevano i necessari prolegomeni.

Debra Bricker Balken, curatrice della mostra, sembrerebbe confermare tale lettura: quella di un Pollock folgorato da Tobey. Dunque alla suggestione iniziatica suscitata in Pollock dagli indiani d’America si dovrebbero sostituire i calligrammi cinesi?

Niente paura, per i fans del modernismo e dello spiazzamento generalizzato: anche su Tobey, che aveva iniziato studiando il Rinascimento, mai si protende l’ombra di Duchamp, sotto forma di un’astrazione gravida di implicazioni psichiche.

Va detto infatti che anche l’Oriente fornì a Tobey un passaggio, non certo una soluzione, perché è evidente che la costante del moto pittorico di Tobey è la vitalità della città, luogo pulsionale e gestuale per eccellenza, cui egli farà sempre ritorno: anzi, a ben guardare, la città appare come la filigrana delle sue opere. “Luce filante (Threading light)”, del 1942, tempera su carta che dà il titolo alla mostra, richiama con la sua tecnica detta della “scrittura bianca” un Oriente percorso e amato ma anche partecipato da una soggettività che associa passione per la musica e per la sperimentazione.

Ne risulta un “atto” pittorico fluido e preciso, ritmico e calligrafico assieme che, come dice il titolo dell’opera, fila, va, si sfila e ti fila, per poi svanire e ritornare come un gesso su una lavagna che riceva segni senza stridori o come filamento tracciato da un incisore di coralli: quasi un dripping eseguito accuratamente da un mandarino cinese, con paradossali esiti di incoercibile autocontrollo.

“Il vuoto divora l’era del gadget”, 1942, che anticipa le Excavations di De Kooning, vira verso un’empirica spiritualità, poi saranno le trame di seta, in competizione con il marmo e il vuoto.

Molto si può dire e apprezzare di Tobey, ma troppo spesso si elude l’indagine sul perché un artista di sensibilità narrativa e vis satirica (come testimonia il bellissimo “Nebbia al mercato” del 1940) si sia consegnato a un sistematico lavoro di annullamento dei dati della civiltà, per poi recuperarli, attraverso tali atti ripetitivi, quasi baco da seta inesausto, avendoli peraltro matericamente desacralizzati.

A ben guardare, c’è motivo di pensare che a secernere questo materia bianca e opalescente, più che l’intuizione di una nuova sintesi di civiltà, sia quel gusto per nulla metafisico, che come sanno i bambini, dà il sapore dello zucchero filato: insomma pare che a muovere qui l’autore sia il pensiero di quel piacere che ogni civiltà promette e concede, ma a quale prezzo.

Questa partita con la materia (tanto più materia proprio quando essa si accende nella luce), rimette in moto le geometrie di Kandinsky, si veda “Eventuality 44”), per inseguire le gloriose “eventualità” della scrittura rinvenuta.

Colui che aveva rifiutato qualsiasi identificazione con le scuole pittoriche americane ed europee, aveva pronunciato forse quel rifiuto perché aveva intuito come le crisi delle civiltà siano, in primis, crisi dell’io? Da qui forse anche le ragioni di un’adesione a quel credo baj che tutto omologa, come una rinuncia alla sovranità individuale che tutto giudica. Ma se gli ultimi ed eccelsi atti di Tobey furono l’approdo a un sublime quanto freddo accademismo, cioè ai sacri valori dell’arte, non dimentichiamo che occorre sempre fare l’anamnesi del gran rifiuto iniziale, quello della scuola di Parigi: tale indagine rimetterebbe in gioco infatti l’arte di Tobey, e l’interesse per essa.

Quel rifiuto fu forse un modo per restare fedele alle ragioni dell’espressionismo, a un gesto che, proprio perché imparentato con l’inconscio, non si opponeva per questo al pensiero, come invece pretendevano gli europei? L’Action painting conobbe il medesimo destino: da una parte lo “sporco” della materia come istanza dell’io, dall’altra la purezza della perla, lavorata dal maestro di Seattle con una perizia che non sopporta compromessi.

La risposta alla domanda capitale offrirà la chiave di questa pittura, capace di evocare l’universo dopo averlo quasi completamente rimosso, di nominare Grecia e Roma e America e Oriente, dopo averli consumati. Forse le “black paintings” di Pollock iniziano proprio nel punto in cui le “White paintings” di Tobey concludono, recuperando dall’oceano le figure della propria storia personale: ma a quello che Kafka definiva “il punto di Archimede”, Tobey non arrivò.

È però occasione straordinaria ritrovare, nelle sale del Guggenheim, gli esiti di una libertà che, nonostante la rêverie di una galassia lattea, non rinuncia alla sindone del proprio dramma.

(Mario Cancelli)

 

Bologna, 17-6-2017

Mark Tobey. Luce filante

Peggy Guggenheim Museum

6 maggio - 10 settembre 2017

A cura di Debra Bricker Balken

#MarkTobey