Un ostinato e comunicativo ottimismo. Chase a Ca’ Pesaro

di Mario Cancelli. Figlie (o figli): così comincia e così chiude la bellissima mostra William Merritt Chase (1849-1916): un pittore tra New York e Venezia alla Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro. Le opere dell’“impressionista americano” si sono potute ammirare dall’11 febbraio al 28 maggio.

William Merrit Chase ci accoglie con “La giovane orfana” (1884): una fanciulla afflitta dai capelli rossi che le incorniciano il volto, abbandonata sul divano. Un ritratto bellissimo: alla domanda se per lei ci sarà un domani risponde lo sfondo rosso, caldo e rassicurante, e ci si accorge che un ottimismo impavido accarezza l’infelice ma non troppo, garantendole l’abbraccio di una ricchezza che sarà forse anche interiore, ma di certo esteriore lo è. Qualcuno pagherà la retta del collegio e le vacanze, la ragazza non è senza dote.

Si può già anticipare che realismo, ottimismo, entusiasmo e una fiducia quasi esaltata nelle forze della natura (umana) sono il passepartout di William Merrit Chase, della cui produzione Ca’ Pesaro ci ha offerto per la prima volta un’ampia antologica.

Un uomo della frontiera, Chase, ma la sua personale frontiera diceva ineluttabilmente Europa, e lui la percorse in lungo e in largo, con incrollabile volontà d’imparare. Egli prese tanto dall’Europa, dai fiamminghi e dai veneziani del Rinascimento, ma vi portò qualcosa che l’Europa non aveva più.

L’orfana di Chase è costitutivamente lontanissima dalla fanciulla malata di Munch: per lei è possibile immaginare una guarigione dopo la prova della vita, la nevrosi sembrerebbe di là da venire e soprattutto non appare tema socialmente interessante. E come accanto a Manet possiamo pensare - immaginare Mallarmè, il realista che “sfiora” con astuzia narrativa l’inconscio, Chase sembra invece rimandare a novellatori come London, a patto di accorgersi che i suoi personaggi si muovono non più nello spazio pseudo naturale da conquistare, ma nelle già conquistate uptown, nell’habitat di quelle dinastie borghesi dalle quali egli ottenne il riconoscimento delle sue innegabili e non servili virtù pittoriche.

E oltre che ai tardo romantici, Chase fa pensare a Henry James, a quella colonia di americani, stranieri in patria e naturalizzati europei, che peraltro mai si radicarono veramente nei drammi del vecchio mondo. Forse per tale benevola estraneità la ricchezza americana di questo periodo è qualcosa che ancora oggi fatichiamo a comprendere.

Ma se Chase si permette l’impossibile (colloca leggiadre signore e signorine in una natura americana che di nome fa Long Island, desublimizzata e addomesticata in vista degli “ozi estivi”), tale azzardo è reso possibile dalla sua ingenua dovizie di mezzi e di speranze: non si tratta certo di una scommessa pascaliana o di un goethiano patto con il demonio, egli permette alle figure di attraversare il mar dell’essere senza temere naufragi.

Tra questi quadri, si è portati a considerare quanto dovesse essere piacevole stargli vicino o divenire suoi discepoli nelle tante scuole che fondò o nelle quali insegnò. L’Armory show, cioè l’evento che rese legittime le avanguardie europee negli Stati Uniti (1913) dichiarerà la fecondità della tranquilla lotta di questo alfiere della modernità, tre anni prima della sua morte.

In ogni suo iter o tour formativo, Chase si appropria immancabilmente qualche piccolo capitale pittorico che frutterà in futuro. Le sue nature morte di scuola fiamminga sono prove di forza che sfiancano più l’osservatore, che l’autore: le bianche e smisurate razze eredi di Chardin s’impongono con autorità sulla concorrenza e le brocche di rame rivaleggiano sul tavolo con anfore antiche di perduti templi ellenici, mentre civettuoli bicchieri cercano spazio davanti al candido latte. Il gigantismo dell’oggetto non spegne anzi aiuta piacevoli triangolazioni tra frutti dalla tenera materia e sontuosi grappoli d’uva che debordano dal piatto. Una prova di forza, quella che Chase ingaggia con i maestri, che sul momento non ha futuro, ma che anticipa quella dei decenni successivi, quando si imporrà la totemica energia dell’espressionismo astratto.

A quest’autore le mode non stanno mai strette, né soccombe del tutto alla loro forza seduttiva. Il giapponesismo gli offre panneggi e vesti in cui dimostrare la sua puntigliosa e calvinistica vis descrittiva, cosicché per le signore immortalate la “posa” ambita diviene più test di successo sociale che celebrazione estetica. In fondo, Merritt Chase non anticipa lo Warhol dei ritratti, pittorici e fotografici, che offrirà agli svagati interpreti del successo mondano una gloria nella quale effimero ed eternità non sono più distinguibili?

Quando poi qualche ricca signora si sottrae all’ebetismo sistemico dello sguardo tipico delle dame di Chase, allora si arriva a pensare che le presentazioni sarebbero state un vero piacere. Questa è pittura di civiltà, con tutti i suoi pregi e difetti, non certo il dramma storico di una ritornante barbarie che s’incastona nel bizantino e sublimato oro dei ritratti del contemporaneo Klimt. Qui, è un ostinato e comunicativo ottimismo a rendere felice per un istante l’universo.

Ma anche per Chase verrà il momento in cui le istanze messe in campo perverranno al loro esito inevitabile. Sono lontani i cappellini delle signore di Monet, come tracce di rossetto sulle guance della Natura: tolte le sue luminose figure, ci si rende conto che in Chase i cieli incombono freddi e totalitari, le nuvole non parlano di romantici abbandoni, ma preannunciano le fortezze volanti delle catene dei significanti lacaniani in cui tutto presto precipiterà. Il secolo delle avanguardie abbandonerà infatti l’en plein air per un’autonomia formale (in quanto psichica) da ciò che può insidiare il primato dell’io.

Nella sua vicenda personale e privata, sempre trasferita con immediatezza sulla tela, Chase giunge inconsapevolmente a una dirimente soglia. Infatti Chase non può che tacere dei genitori dell’orfana che apre la mostra, e tace ovviamente dei loro disastri: ma in “Nascondino” (“Hide and seek”, 1888) dove raffigura le sue figlie bambine, egli raggiunge per un istante la scena di quel dramma familiare che sarà paradigma del Novecento.

(Mario Cancelli)

 

WILLIAM MERRITT CHASE (1849-1916) un pittore tra New York e Venezia

Ca’ Pesaro – Galleria Internazionale d’Arte Moderna

11 febbraio – 28 maggio 2017


Motherwell alla Galleria d’Arte Maggiore di Bologna

di Mario Cancelli. La storica bolognese Galleria d’arte Maggiore, posta all’inizio di via d’Azeglio e che riassume le memorie di un passato che giunge fino al Duecento, offre con sorpresa una significativa scelta di opere dell’artista americano Robert Motherwell. La prima, forse, dopo il confronto con Jackson Pollock, promosso dai curatori del Guggenheim veneziano, un vis-a-vis irripetibile per l’immensità delle due tele, sorpassata forse solo da Guernica, che le genera e in loro si rigenera. Nella sala primaziale del museo, infatti, più che a un match si compie la definitiva spartizione delle due anime, se così si può dire, dell’espressionismo astratto o, secondo la definizione che noi preferiamo, dell’Action painting. Di questo parleremo più avanti.

La piccola ma selezionata mostra bolognese testimonia le tappe di una carriera che fin dall’inizio si trovò implicata e poi perennemente in bilico fra le istanze opposte di un surrealismo che lasciava ai suoi adepti totale carta bianca, senza peraltro risolvere il quesito fondamentale che lo giustifica: l’inconscio. La lezione di Matta segnò certamente il modus recipientis (ed operandi) di Motherwell: un surrealismo che guarda a Bataille più che a Breton, cioè a un capovolgimento ad oltranza dei valori. Presupposti cui il maestro cileno associa una dimensione etnica, fantastica e totemica, che Motherwell non poté mai fare sua, fedele sempre e comunque a un lirismo sentito come essenza dell’arte e dell’io.

Che non sia una questione di formalismo lo proclama la lunga pratica di Motherwell del collage, prima “maniera” dell’avanguardia europeo; ingenua e potente esperienza nel rinnovamento del canone e sincera dedizione al principio primo di Breton, quello del primato dell’inconscio, comunque esso sia concepito. Collage come ultimo stadio della rivoluzione romantica, che iniziò con il concetto di geroglifico, concrezione da liberare nel linguaggio, dissolvimento che non si arresterà nemmeno davanti al non sense. Le ragioni del lirismo romantico sono qui. Una liberazione senza tregua dalle leggi, fino a giungere a un intangibile punto zero, a ciò che è significato perché lo incarna oltre ogni possibile “senso”: il simbolo, senso a se stesso.

I successi di Motherwell su questa strada sono noti. Peggy Guggenheim promosse e pretese un discepolato in questo senso che Motherwell ottemperò con dedizione ed entusiasmo. Forse è proprio qui da verificare se Motherwell abbia operato uno scarto rispetto a questa costituzione simbolica, vista l’abilità nel giocare i “materiali” con particolare attenzione al dato sperimentale e al mondo della memoria. Il Proust del collage, potremmo dire, per l’utilizzo di carte e lettere, in una superficie chiara, tutta da aprire, da leggere. L’occasione bolognese ci offre un testo in cui tutto ciò sembra riassumersi: quella “Star of David” (1976) in cui il simbolo sembra resisterà all’azione corrosiva dei significanti, farsi piccolo, quasi marchio o sigillo di una memoria in atto. Si tratta di una “resistenza” ma anche di un compito, liberare il simbolo senza rimuoverne l’istanza che lo nomina, istanza e legge in Motherwell sempre della forma.

Lo si coglie proprio quando Motherwell, grazie all’Action painting, si autorizzerà al “gesto”, dando vita a macchie di pigmento gettato sulla superficie della tela, per le quali è giustamente riconosciuto, sua cifra psichica e poetica; esse però vivono e convivono con il loro opposto, il nuovo patrimonio di sagome rispetto al quale sembrano come schizzi di calamaio caduti dal pennino. D’altronde ben altro mondo è quello dei “neri” di Klein, posti come travi o tavole bibliche dell’inconscio e del gesto; o le stesse “black paintings” di Pollock, nelle quali la memoria irrompe con i suoi fantasmi in una lirica tessitura astratta.

L’evento del Guggenheim: il fronteggiatesi o meglio il guardarsi di sottocchio dei due teleri. Tra “Mural” di Pollock e l’“Elegy” di Motherwell non sembra esserci occasione di colloquio, tanto essi incarnano due modi, come si dice all’inizio, di concepire l’inconscio. Il primo riconducendo la storia collettiva alla vicenda individuale (sono i passi dell’individuo quelli che Pollock, senza più filtri rappresentativi, agisce sulla tela) e quella opposta, il tentativo di Motherwell di comporre e sedare il proprio conflitto, psichico e quindi poetico, con ulteriori eventualità. Non a caso “Elegy” è ispirato alla di Spagna, guerra civile mondiale si potrebbe dire. In tal modo riaffiora quell’esterno, quel "primato del sociale" che in Guernica veniva invece ad essere riassorbito nel “romanzo familiare” di Picasso, torero egli stesso, primo torero, piuttosto che militante.

Freud contro Lacan, visto che la partita sembra oggi restringersi alle due opzioni accennate: primato della struttura linguistico sociale o recupero dell’elaborazione autonoma dell’individuo, nella patologia o nella sanità.

Felicità dell’elegia, e debolezza, perché incompiuta e consolatoria, dell’ideologia, questa in causa, politica o anche altre, addirittura mistiche.

Cosi sembra definirsi l’ambivalenza di Motherwell. La mostra bolognese conferma come l’elegia si faccia veramente libera quando il dualismo si scioglie dal suo guscio protettivo. Piccoli gioielli, quelli selezionati da Alessia Calarota, come la serie degli “Untitled” o i ricapitolativi “Automatism” , “Black image with ochre”, i quali giustificano con dolcezza e impeto una visita alla galleria nella inesauribile, quanto a bellezza, via d’Azeglio.

 

Robert Motherwell, GALLERIA D’ARTE MAGGIORE, fino al 28 maggio.


Il potere dei senza potere: una testimonianza dal Venezuela

Incontro con Alejandro Marius, presidente di Trabajo y persona

Domenica 14 maggio ore 18,00, alle scuole Romano Bruni (via Fiorazzo 5, Ponte di Brenta)

Cosa può mai offrire un Paese con duecentomila omicidi l’anno e altrettanti emigranti su trenta milioni di abitanti, un’inflazione prevista quest’anno al 1.600 per cento (avete letto bene), che ha ridotto a due i giorni lavorativi della settimana per risparmiare elettricità, senza farina nelle panetterie e farmaci negli ospedali? Che speranza potrà nutrire un popolo governato da un autocrate capace di esautorare il Parlamento (dove teoricamente governerebbe l’opposizione), isolato la nazione dal resto del mondo e in cui le proteste di massa sono soffocate nel sangue, mentre vengono arrestati i componenti delle forze dell’ordine che non vogliono partecipare ai massacri?

Una Nazione può essere tanto stremata, eppure avere qualcosa da offrire, oltre alla più grande riserva petrolifera del mondo, resa ugualmente inservibile dal regime? Qual è la cosa migliore che ci si può attendere, se non la sua liberazione politica attraverso una sanguinosa guerra civile, peraltro già all’orizzonte?

Eppure, il suo tesoro non sembra essere metri sottoterra, ma avere braccia e gambe, idee e voce. Un volto incontrabile.

È questo il volto di Alejandro Marius. Alejandro, nato e cresciuto nel Paese che prese il nome dalla suggestione del navigatore Amerigo Vespucci, il quale trovò così somiglianti le palafitte della laguna di Maracaibo a Venezia al punto da battezzarle Veneziola, ci conduce per mano in un’altra dimensione della difficile vita venezuelana, che egli vive nella carne insieme alla famiglia. Una dimensione fatta di libertà e perdono.

In un suo recente articolo, Alejandro, presidente dell’associazione Trabajo y persona, ammette la tentazione: «di fronte al dramma che stiamo vivendo in Venezuela sembra che per alcuni il momento di perdonare non sia ora, che il fine giustichi i mezzi e che sia possibile cominciare a perdonare dopo una montagna di morti». Alejandro la vede diversamente: le proteste pacifiche sono un diritto ma devono accompagnarsi a proposte; la libertà esige la responsabilità di ricostruire insieme; la speranza ha la forma di un processo di rinnovamento, lento e faticoso.

In cosa consiste la responsabilità di chi è impotente di fronte alle vicende del suo Paese? Perché Alejandro, da cittadino qualunque, è disposto ad accollarsi le fatiche e l’impegno che spetterebbero al regime? Dove si celano la soddisfazione, la fiducia e la speranza che gli consentono la pazienza e il perdono? Queste domande non riguardano solo chi vive ad un oceano di distanza ma ciascuno di noi; allo scoprire che per la nostra città passa chi sembra averle affrontate, suscita la nostra curiosità; poterlo incontrare e udirne la voce, smuove il nostro torpore.

Siamo dunque onorati di questa visita, che restituisce alla vicenda del martoriato Paese non solo la dignità che le spetta, ma un valore paradigmatico - rende il suo Calvario qualcosa cui prestare attenzione per ragioni molto personali. Dove si cela il vero potere, in ciascuno di noi?