Il primo giugno nel bellissimo Oratorio del Redentore, nella parrocchia di Santa Croce a Padova, l’Associazione Rosmini ha proposto un incontro di presentazione del romanzo “Il maestro vetraio” di Alberto Raffaelli (Itaca edizioni). Vi proponiamo un’ampia sintesi degli interventi del moderatore Eugenio Andreatta, dei relatori Graziano Debellini e Francesco Jori e dell’Autore.
Oratorio del Redentore – Padova, 1 giugno 2016
PRESENTAZIONE DEL ROMANZO “IL MAESTRO VETRAIO”
di Alberto Raffaelli – ed. ITACA
EUGENIO ANDREATTA: La bellissima sala affrescata dell’Oratorio del Redentore dove ci troviamo oggi, in qualche modo, ci porta già dentro il romanzo che presentiamo perché anche lì si ha a che fare con una chiesa e con dei brandelli di affreschi parecchio rovinati, molto più rovinati di quelli che vediamo attorno a noi.
Guardando gli affreschi della sala dove siamo adesso possiamo notare che gli sfondi dei paesaggi sono tutti riconducibili al territorio di Padova. Sono tutti scorci della città, dei colli Euganei, delle montagne che si intravedono da Padova. E qui, in qualche modo, i pittori che hanno realizzato questi affreschi, hanno inteso contestualizzare i fatti della Passione di Gesù, nella storia, nella città e nel tessuto urbano del loro tempo. Che è quello che fa il nostro maestro vetraio che costruisce un Giudizio Universale non con una raffigurazione astratta, ma con una modalità che ci consente di entrare profondamente nelle vicende più drammatiche del tempo presente.
Questo è un aspetto bello del libro che mi piace mettere in mostra prima di dare la parola ai nostri relatori: è un libro che, tra le tante cose, è una profonda riflessione sul significato dell’arte sacra nell’epoca contemporanea. Anche se non si propone questo intento però di fatto lo fa e fa capire che l’arte sacra, nella sua vera essenza, non ci estrania dalle vicende dell’oggi, ma ci porta proprio al loro interno. Così come ognuno dei dodici quadri della vetrata del romanzo, ci fa rivivere un aspetto particolare dei drammi del nostro tempo, aprendo ultimamente a una speranza.
GRAZIANO DEBELLINI: Il centro del romanzo è la vetrata fatta di dodici quadri che Benedetto Zaccaria sta realizzando in una vecchia fornace di Marghera. Questo ragazzo ha cominciato a fare il mestiere del vetraio seguendo suo padre, un grande maestro vetraio di Venezia. La sua figura è segnata come un sottofondo musicale dalle immagini dei mosaici di San Marco e della Basilica di Torcello e rappresenta il cuore del romanzo. Benedetto è un ragazzo semplice, un giovane schivo, di poche parole, timido, un animo fortemente religioso.
Benedetto attraverso queste vetrate vorrebbe strappare il velo che nasconde la vera realtà per vederne finalmente le forme e i colori, come confessa quasi a se stesso in un passo del romanzo, “ma la realtà si ritraeva, si rendeva impalpabile, sfuggiva. Toccarla una volta, tastarne la scorza, sentirne la consistenza…”
Questo è un tema centrale del romanzo e i quadri della vetrata, che riflettono uno spaccato incredibile della vita, sono il modo in cui Benedetto prova ad entrare nella realtà. La vecchia fornace dove lui lavora diventa nel tempo il centro in cui si incrociano tutte le storie del romanzo. Questo accade quasi senza che Benedetto se ne accorga, perché lui va lì ogni giorno a fare il suo lavoro e per lui è faticoso arrivarci, ogni giorno parte da Venezia, prende l’autobus, deve fare l’ultimo tratto a piedi in una zona degradata, un po’ pericolosa. Via via che il racconto procede, in questa fornace potete incontrare il piccolo Nick, un ragazzino albanese ospitato nella parrocchia di Marghera che Benedetto si è preso come garzone di bottega, suo zio che invece è un trafficante, una sorta di falsario, la mamma che aveva abbandonato Nick fin da piccolo e ad un certo punto va in cerca del figlio e scopre che lui aveva trovato il suo destino nel rapporto con Benedetto, un destino buono. E poi c’è Sonia, la ragazza di cui Benedetto si innamora, c’è il parroco, don Giuseppe, il vice ispettore che svolge le sue inchieste e sua moglie Elena, una figura molto interessante da seguire, infatti il romanzo finisce con una lettera di Elena a Benedetto.
Quando nel corso del romanzo uno dei personaggi si trova di fronte a queste vetrate che Benedetto sta realizzando, il carattere della stampa cambia, si passa al corsivo, comincia la descrizione dei quadri della vetrata e si entra nella storia che vi è rappresentata.
Questi quadri raccontano storie tragiche o commoventi di miseria o di redenzione.
Quando le leggete vi accorgerete sempre di qualche dettaglio bellissimo. Ne cito una: una storia d’amore fra due persone che non vogliono perdonarsi, ma nella scena finale di questo quadro, lui, il padre, si butta in ginocchio davanti alla figlia.
In queste scene si incontra un cristianesimo semplice, che fiorisce e fa capire più di qualsiasi discorso.
In tutto il romanzo la suspense è altissima ed è una suspense che avvolge tutti i personaggi. Sembra che stia sempre per succedere qualcosa. Questo mi ha ricordato un po’ la mostra di Hopper che ho visitato a Bologna nei giorni scorsi. Hopper diceva che i suoi personaggi, queste donne che sono alla finestra, sono in attesa perché tutto può cambiare improvvisamente. I personaggi di Alberto hanno tutti questo accento di qualcosa che sta per accadere.
E in tutte le pagine del romanzo c’è questo riverbero: tutto può cambiare improvvisamente anche in mezzo al dolore, alla desolazione umana, alle intricate e contraddittorie vicende umane di cui trovate qui uno spaccato bellissimo.
Il pensiero più importante che volevo dire è che Alberto con questo romanzo ci porta dentro la durezza della realtà (perché la realtà è tosta, come ci dice sempre qualche amico) per scoprire cosa c’è di positivo. Questo libro all’inizio doveva avere un titolo che era legato al tema del Giudizio Universale. Il titolo poi è cambiato ma il tema del giudizio è rimasto. A pagina 200 si legge: “il giudizio è vedere le cose dal punto di vista di Dio”. Infatti il tema che prende la scena, e che ad un certo punto diventa il centro di tutto il romanzo, dentro i volti e i dettagli dei vari personaggi, è la possibilità di trattare le circostanze di dolore e di male in una prospettiva di bene.
Ma com’è che il male, che resta sempre male, può trasformarsi in una occasione di bene? Questo come può avvenire?
Questo è il grande messaggio che ho colto leggendo un paio di volte questo libro.
Nel romanzo, in tutti i personaggi, anche in quelli più scaltri e più negativi, c’è come un’attesa di bene, piccola o grande. C’è una attesa e un desiderio del bene che segna, in qualche modo, la vita di tutti, disgraziati, farabutti, delinquenti o altro.
Però il bene non arriva per una strada etica, non arriva su una strada in cui uno si mette a posto e fa il bravo. Ad un certo punto, ed è bellissimo questo aspetto che nel romanzo si ripete più volte, ad un certo punto succede una cosa nuova. Il perdono non è l’esito di un nostro percorso etico, di una nostra analisi psicologica. Quando arriva il perdono è un’altra cosa, è una cosa nuova. Sono bellissime le pagine dove si parla di due mendicanti e si trova esplicitata questa idea: è un’altra cosa, non c’è un percorso per cui tu entri in una pedagogia di bene e alla fine c’è il perdono. No, quello che accade ad un certo punto è un’altra cosa.
Cito una frase molto bella a riguardo di questo pensiero: è una frase di don Giussani che dice: “Questa cosa nuova non è fatta di discorsi suggeriti dalla saggezza umana o propositi di bene o progetti o impegni poggiati sulla nostra volontà di vita, oppure sulle nostre energie, sul nostro gusto di lavoro. È una cosa nuova, che ci viene incontro, che accade, che succede.” Continua ancora Giussani. “È una misura che si allarga, è come se la nostra coscienza e la nostra affettività, perciò il nostro io e le persone a cui ci leghiamo, venissero introdotte in un ignoto, in un orizzonte imprevisto, oltre la nostra misura dove tu non avresti mai immaginato”.
In questo romanzo c’è questo profumo, c’è il profumo di questa gioia, di questa scoperta, di questa sorpresa. Infatti nella lettera finale di Elena a Benedetto, nelle ultime righe del romanzo, troviamo questa espressione: “Inizia tutto di nuovo”.
La cosa più bella della vita è quella che arriva potente e gratuita e riempie anche il nostro dolore. Lo riempie di una prospettiva nuova, lo riempie con un pezzo di paradiso.
FRANCESCO JORI: Se noi leggiamo il libro di Alberto come se stessimo leggendo un giornale, arriveremmo quasi fino alla fine, pensando che viviamo in un mondo pessimo. Alberto usa la classica dicitura: “Ogni riferimento è puramente casuale”. Il libro invece è intriso di fatti di cronaca che leggiamo quotidianamente sui giornali e il degrado che ne emerge è un degrado reale, queste vicende riflettono purtroppo una consuetudine. Vi è nel romanzo un intreccio che coinvolge tantissime persone, politici, ma anche ufficiali delle forze dell’ordine, magistrati, ecclesiastici della Curia e ci viene dato di quella che dovrebbe essere la classe dirigente della società uno spaccato intriso di veleni.
Ma dicevo “quasi”, “quasi fino alla fine”, perché in realtà il libro mi porta ad una riflessione, come già nel precedente romanzo, “L’Osteria senza oste”, e la riflessione è questa: quanto siamo distanti noi giornalisti dal descrivere la realtà e quanto concorso di colpa abbiamo nella situazione di degrado che si è creata. Dico della situazione di degrado non pensando in primo luogo alle situazioni penali, mi riferisco al nostro vivere civile. Subiamo da tempo un bombardamento di rottura, di riduzione dell’individuo a un piccolo fortino, un piccolo ghetto in cui ognuno si barrica. C’è una chiusura progressiva in noi stessi, che viene da lontano, che viene da una mancata semina di valori che è nata da lontano nel tempo.
Infatti se la realtà è quella che ci raccontano i giornali, che ci racconta la televisione, beh allora siamo rovinati.
La verità è che la realtà non è questa. Non è solo questa. Esiste un’altra realtà, molto più ampia che però non esiste per chi non la sa guardare.
Il 2 giugno festeggiamo la festa della Repubblica. Mi viene in mente quello che dice Calvino ne “Le città invisibili” dove parla dell’inferno in cui viviamo e parla di una città silenziosa che è quella che manda avanti il Paese. La festa della Repubblica è la festa delle persone silenziose che mandano avanti il paese, che in qualsiasi ruolo ogni mattina si alzano, fronteggiano una serie di difficoltà, conoscono una serie di cadute e hanno il coraggio di rialzarsi ogni volta. Se noi pensiamo alla nostra esperienza personale, conosciamo sicuramente una serie di persone che ci stanno intorno che hanno affrontato questo calvario laico. Molti di noi forse hanno dovuto subire questo stesso calvario. Questa vicenda del calvario è paradigmatica perché nel momento in cui uno si trova sotto questo carico pesantissimo di difficoltà ha l’impressione di aver perso la partita, di essere sconfitto per sempre. A me viene in mente la terrificante vicenda di Gesù Cristo stesso, in persona, che nel momento di morire lancia quel grido che non è una domanda, è un’affermazione: “Padre, perché mi hai abbandonato”. Dà per scontato di essere stato abbandonato e si sente tradito nel momento decisivo. Però dopo il venerdì di Passione c’è il sabato di silenzio in cui la vita riparte, riparte dietro la pietra del sepolcro, fino a portare alla Resurrezione. Queste sono esperienze che moltissimi di noi hanno provato. E quando ci capita una disgrazia ci pare che tutto ci crolli addosso, ma ancora una volta ciascuno di noi trova la forza di ripartire.
Questo è il messaggio profondo che viene dal romanzo. Tutto sommato il protagonista, il vice ispettore Giovanni Zanca, che è lo stesso del precedente romanzo, “L’Osteria senza oste”, è tutt’altro che un eroe.
Già nel precedente libro viene cacciato via dalla stazione di Polizia di Valdobbiadene e mandato in castigo in una situazione marginale. E qui, proprio per questo suo stare sottotono e fare quello che ritiene il suo dovere, riesce a riscattare l’intera storia. La storia delle persone che girano attorno a lui è una storia di riscatto, compresa quella del vicesindaco corrotto che il racconto lascia dentro il carcere ma che trova dentro di sé un motivo di riscatto.
Infine una riflessione che chiama in causa tutti noi: noi non dobbiamo cedere alla dannazione quotidiana che raccontano i media.
Vi consiglio una cosa: non comprate i giornali e non accendete la tv. O, se lo fate, perché a volte non se può fare a meno, non credete a quello che dicono. Ragionate con la vostra testa, guardatevi intorno con i vostri occhi perché in mezzo alla città, alle periferie, ci sono queste persone raccontate dal romanzo, che sono tutte positive.
Per questo credo che oggi abbiamo bisogno di andare a scuola di una cosa fondamentale, a scuola di una parola che è di moda, ma che è una parola bellissima: dobbiamo andare a scuola di misericordia. Il papa Francesco ha avuto il grande merito di rilanciare questa parola, ma essa è nell’agenda stessa del messaggio religioso, del messaggio cristiano. Misericordia vuol dire guardare all’altro come a una persona. “Non ti giudico, ti accetto per quello che sei”. È una cosa difficile perché, se ci pensate, le relazioni tra le persone sono basate sulla pressione reciproca. L’insulto, l’attacco, la violenza sono tutte basate sulla paura. Io vivo con la paura: ho paura dell’altro.
Guardate, ne “Il mercante di Venezia” di Shakespeare c’è un’idea avvincente di misericordia, vi consiglio di andare a rileggere il punto in cui Porzia, in tribunale, fa un’arringa in cui c’è un passaggio sulla misericordia che è qualcosa di strepitoso. Ed è un punto di congiunzione per che crede e chi non crede. E dice proprio quanto importante sia guardare all’altro, al diverso, con misericordia.
In fin dei conti c’è tutto dentro la parabola del buon samaritano. Perché il samaritano, nella cultura dell’epoca, era quanto di più distante vi era da Israele. Però lui è l’unico che si ferma, si ferma e riconosce nel diverso il suo prossimo. Il prossimo è la persona più lontana come provenienza, ma che interseca la mia strada. È nell’incontro con lui che riparte una reciproca speranza. Ed è questo il punto che può unire chi crede e chi non crede. Oggi abbiamo bisogno di parlarci, abbiamo bisogno di metterci in confronto tra di noi facendo di questa diversità una ricchezza.
In fin dei conti nel romanzo di Alberto le persone sono straordinariamente diverse una dall’altra, eppure hanno un punto di convergenza.
Ci vuole assolutamente una pedagogia della misericordia che non troverete sicuramente, torno a dire, sui giornali ma che c’è. C’è!
Noi dobbiamo avere il coraggio di guardare alle tante Marghera del mondo come un luogo di riscatto.
Per concludere, il libro è scritto in modo molto avvincente e questi due piani di cui parlava Graziano, quello delle vetrate in corsivo e quello del giallo in tondo mi ricordano molto, per chi l’ha letto, “Il maestro e Margherita” di Bulgakov.
Quindi, in sintesi, invece che guardare la tv o leggere i giornali, leggete il libro di Alberto così non rischiate di essere tentati dal suicidio.
ALBERTO RAFFAELLI: Ringrazio Eugenio, Francesco e Graziano per la bontà che hanno avuto di leggere e commentare il mio romanzo.
Io volevo dire solo due brevi cose relativamente all’esperienza che è stata per me scrivere questo romanzo.
Innanzitutto lo spunto iniziale che mi ha mosso a scrivere il romanzo sta nella frase di papa Francesco che è stata riportata in fondo al volume. Il papa, riferendosi al Giudizio Universale, dice: “Quel giudizio finale è già in atto incomincia adesso, nel corso della nostra esistenza. Tale giudizio è pronunciato in ogni istante della vita.”
Mi ha colpito questa affermazione del papa secondo cui il Giudizio Universale accade ogni giorno. È un’esperienza che corrisponde a quello che mi succede spesso alla mattina. Io mi alzo abbastanza presto per andare a Valdobbiadene, e spesso mi ritrovo a chiedermi: “Ma oggi, che cosa è veramente reale? La realtà è la disperazione che si vede in giro e che vedo spesso sulla faccia dei miei studenti e sulla faccia dei loro genitori? C’è qualcos’altro? Che cos’è veramente reale?” Uno capisce che a rispondere al dolore diffuso che ci circonda da ogni parte non è una intenzione, non è un discorso, non è qualcosa di fumoso. In una pagina del romanzo uno dei due mendicanti chiede all’altro: “Chi può abbracciare tutto questo dolore? Chi lo può sostenere? Chi lo può portare sulle spalle tutto questo dolore?” Questo giudizio, su cosa sia reale siamo chiamati a darlo, come dice il papa, in ogni istante. Questa parola ‘istante’ è qualcosa a cui tengo moltissimo perché l’educazione non avviene secondo un percorso omogeneo e graduale di crescita, ma accade in un istante.
Nell’istante si attua il riconoscimento della realtà, si attua la lealtà, o meno, con cui la si riconosce, si attua la libertà. In ogni istante ognuno di noi decide in un verso o in un altro, oppure in uno dei tanti versi possibili perché c’è un’infinità di scelte che possiamo fare in ogni istante. Questa è una dimensione fondamentale della vita che ho voluto evidenziare nel romanzo.
La seconda cosa straordinaria che mi è successa scrivendo questo romanzo è che all’inizio ero partito con l’idea di rappresentare, nei sei quadri dell’Inferno, il male, il male dei nostri giorni, e, nei sei quadri del Paradiso, il bene, la possibilità di bene che abbiamo.
Ma mentre scrivevo i quadri dell’inferno, arrivato ad un certo punto, queste descrizioni mi erano diventate insopportabili. Era diventato insopportabile andare avanti. Io non capivo perché. Sono rimasto in questo impasse diverse settimane. Finché un giorno, in un contesto assolutamente casuale, mi è stata citata la frase di don Giussani in cui afferma che “la realtà non è mai veramente affermata, se non è affermata l’esistenza del suo significato». Allora ho capito che nemmeno il male può essere affermato, raccontato, senza che sia ‘guardato’ da qualcuno che lo abbraccia, che lo ama, che ne ha pietà. È impressionante questo, ma è così. E mi è venuto in mente che durante i miei studi di filosofia all’Università avevo incrociato la teoria di sant’Agostino sulla questione del male, che allora non avevo capito, in particolare là dove afferma che in qualche modo il male coincide con il non essere. È qualcosa che non ha ‘essere’. Per quanto possa apparire paradossale, è esattamente così. Ho capito allora perché il male non si può nemmeno raccontare. Di questo facciamo esperienza nelle nostre giornate, quando siamo inviluppati nell’astio verso qualcuno, magari con tutte le ragioni del mondo, ed è come se pian piano ci venisse a mancare il respiro, ci venisse a mancare il terreno sotto i piedi. Quando viviamo in una logica di male è come se la vita, fin nella radice delle cellule, si andasse affievolendo e venisse a mancare. È come se gli atomi cominciassero a rattrappirsi. Probabilmente succede qualcosa del genere alla radice dell’essere, qualcosa che vien meno.
Allora ho riscritto tutti i quadri raccontando le stesse scene attraverso lo sguardo di qualcuno che aveva pietà del male che veniva raccontato.
Dunque se il male è guardato attraverso lo sguardo di qualcuno che lo abbraccia, che ne ha pietà, non solo può essere raccontato, ma si rivela come una occasione di bene.
Nella figura di un personaggio del romanzo, il Barba, a cui tengo molto, si trova il tema del perdono e della misericordia. Perché è vero come dice Giussani che la parola ‘perdono’ o la parola ‘misericordia’ andrebbe strappata dal vocabolario umano perché all’uomo è impossibile perdonare veramente, e uno può non perdonare per tutta la vita, eppure può riconoscere che c’è Qualcuno che ci perdona. E a fronte di questo riconoscimento uno può anche tenersi dentro la sua incapacità a perdonare, non importa più il suo sforzo, importa questo riconoscimento, che c’è Qualcuno che ci perdona, che ha perdonato noi e ha perdonato il mondo.
Grazie.