Dino Quartana, la vicenda moderna chiede e pretende dell’“io”
Non conosciamo personalmente Dino Quartana, altrimenti ci piacerebbe parlare con lui. Della scultura, della sua identità e della sua attualità. Un’arte da sempre in grado di sedurre, di liberare energie nel momento in cui le richiede, di offrire il dono di un contatto reale, tanto è in lei il coinvolgimento richiesto con e alla materia. E la materia, soprattutto nel Novecento, è il centro d’ogni croce e d’ogni diletto. Per artisti e critici e non solo. Sulla materia e con la materia si gioca tutto. Si è pensato un quadro senza colore, non si avrà una scultura reale senza materia.
Quartana è da molti anni frate domenicano, scelta compiuta dopo aver conosciuto e frequentato il movimento fondato da don Luigi Giussani: il pensiero dell’ente e il pensiero del soggetto trovano quindi quasi un obbligo di dialogo.
E Quartana sulla materia ha certamente molto da dire. Non sappiamo se in forma polemica o in elaborata mediazione teorica con la modernità.
La materia è per lui appoggio, fondamento e testimonianza d’individuata personalità: con linguaggio moderno, potremmo dire, rappresentanza dell’io. Vorremmo osare un’equazione più radicale: materia, in arte, uguale “io”? San Tommaso e Burri sarebbero concordi.
Da queste premesse giungiamo alle recenti sculture che Dino ci offre allo Spazio Lumera. Non sorgono da un gesto unico, alla Bernini per intenderci, non eleggono una soda roccia o tranche del mondo e del corpo. Sono il frutto semmai di un organizzarsi intrinseco di strutture, ora ben solide e ben puntellate nello spazio, ora disinvolte e in atto di aprirsi. Materiali che si legano e si avvitano quali poetici scheletri e testimonial di corporee memorie; amabili vicende di arti in congiunzione o disgiunzione. È l’aspetto che ci attira di più: vi leggiamo una non sforzata capacità di confessione.
Grazie a un lavoro, a un intarsio dei pieni e dei vuoti, Quartana addiviene a uno slancio di membra, a volte troncate a volte ricondotte ad ulteriori costruzioni aeree: come se un secondo piano, una ritornante necessità s’instaurasse, quale ideale obbligato di tale spirituale “machine”.
Per quanto il lavoro di Quartana s’orienti a contenuti religiosi, a emblemi dell’invocazione e della grazia, è come se il moto di due correnti marine infranga una addosso all’altra. Nell’esito finale delle sue sculture - accompagnate in mostra da pregevoli opere su carta - Quartana è unitario e concluso. Mai però vien meno la percezione dei due pensieri tra loro in gara per il predominio.
È questo dualismo tra pulsione e ideale la vera scommessa dell’arte contemporanea e in particolare di quella religiosa. La vicenda moderna chiede e pretende dell’io. E Quartana, che nei suoi corpi scultorei vive la sua stessa libertà e un prezzo ancora inevaso per essi, è dentro alla questione.
Histoires saintes, titola Quartana la sua recente produzione. Rendiamo onore a Quartana per aver proposto con chiarezza questo ganglio irrisolto dell’estetica non solo cattolica: o appoggiare Moore a Chartres - e su Chartres impernia la propria opera anche Huysmans che di tale nodo è il termine insuperato - o schiacciare Moore su Chartres. Restando in questo caso Chartres un puro significante.
HISTOIRES SAINTES
Sculture e disegni di Dino Quartana
dal 10 ottobre all’1 novembre
Spazio Lumera, via Abbondio Sangiorgio, 6 Milano
Orari apertura
ma me gio ve 16-19
sabato 10.30-12.30 16-19
tel. 02 87280593 info@lumera.it www.lumera.it
Atto di visione, atto di nominazione. Congdon e Testori
Il primo, bellissimo e forse insuperato testo che Giovanni Testori dedicò a William Congdon, scritto in occasione della vasta mostra del 1981 al Palazzo dei Diamanti di Ferrara, dimostra una comprensione già piena dell’opera del nostro, a un punto tale che gli scritti che seguirono (sull’antologica di Como del 1983 e poi sulla mostra milanese di Palazzo Reale del 1992) raffinano quell’atto critico completo e fondativo, senza autorizzare o autorizzarsi a una discesa in campo più generale.
“Lei ha visto”, scrisse William Congdon. A Testori, a nostro avviso, non sfuggì nulla: i passi successivi si dimostrano però più prudenti, colmi di ammirazione, di affetto, di desiderio di approfondire il rapporto iniziato, giudicato terminus post quem di un nuovo inizio critico. Del “bandolo oggettivo” della vicenda pittorica dell’artista americano, italiano, lombardo, viene addirittura riconosciuta la legiferante e drammatica logica: si tratta di un bandolo o di un nodo per nulla gordiano, nel senso che si possa sciogliere una volta per tutte, ma di verità persa e ritrovata e da ritrovarsi. Nessuna sintesi può sostituire questo gioiello di scopia estetica sigillata in metafore critiche definitive: “muri” interiori che vengono finalmente aggrediti, traiettorie e scintille di luce nel baratro, petali serafici nella superficie del cratere. E, infine, le incisioni, la personalissima grafia di Congdon, che la materia incideva e s’incideva, grumo solenne e quotidiano, carico di dolore e speranza.
È evidente che tutto lo scritto ruoti attorno a un nome non pronunciato ma riconoscibilissimo, quello di Jackson Pollock. Su questo punto mancò quell’atto di imperium critico di cui Testori, in circostanze ben più gravide di contrasti, come si dice, senza peli sulla lingua, fu capace. Se non fu nominato il padre dell’Action painting, forse è perché né Testori né Congdon erano in grado di un vero, liberatorio, parricidio.
La prudenza e la saggezza impedirono a Testori di trasformare Congdon in chi ridava dinamica a una vicenda apparentemente chiusa in sé. E infatti egli si limita a rilevare e a consegnarci quella verità globale “che fa come da basso continuo, da ron ron continuo, a tutta la grande carriera”; per addivenire alla scoperta che la materia di Congdon, e per Testori (come un po’ per ognuno in quegli anni, tutto si giocava nella e solo nella materia), non era più quella di Pollock. Da qui l’orafo, il cesellatore, il Congdon un tempo rapinoso di luoghi e templi: e ora trionfante in un fazzoletto di terra, il Congdon “longobardico”: confine estremo su cui assestarsi e assestare una ricerca che era oramai prossima ad abbandonare quel simbolismo che, diciamolo, del muro di cui si è detto all’inizio, era oramai il più potente supporto. Materia, cioè canto.
***
Forse fu questo atto mancato di nominazione - osiamo supporre - a produrre inconsce resistenze, irritazioni. La scintilla fu non a caso l’articolo di Testori sulla grande antologica di Pollock al Centre Pompidou. Un’iniziale compiacenza di Congdon, poi la presa di distanze. Lo sconcerto alla Fondazione Congdon. Gli esiti di Pollock non erano all’altezza delle nuove regioni promesse e guadagnate all’arte? Ma erano proprio queste “nuove regioni” (riconosciute da Harold Rosenberg in l’“oggetto ansioso”) a legare ancora Congdon all’Action painting e,vorremmo aggiungere, l’Action painting a lui.
Negli anni universitari Pollock fu per noi un solo testo, la monografia a lui dedicata dal Robertson: un libro quasi scostante tanto si estende come formato, come uno di quei Numbers di cui fa la storia, dalla copertina bruno marron, ben poco seducente, con le immagini ancor ritagliate e incollate sulle pagine. Pollock per noi sarà sempre il Robertson (con il placet di Rosenberg). Esso inizia con una delle ultimissime opere di Pollock: “Blue Poles” e termina con “Blue Poles”. In mezzo tutta la produzione di Pollock e tutta la storia dell’arte, dal medioevo ai giorni nostri, comprese filosofia e sociologia. La tesi era che Pollock per primo aveva riunificato la superficie dopo l’era dell’oro bizantino.
Quando citai “Blue Poles” a Testori, egli ebbe - mi ricordo - come un trasalimento. Ma chi era in grado di dire di più? Oggi possiamo dire che quell’unificazione spaziale era il frutto di un’unificazione delle energie psichiche, di un lavoro di pensiero. Puntando sull’inconscio, Pollock lavorava per il recupero del proprio romanzo (familiare). Un lavoro di civiltà. Come intuì Rosenberg, l’astratto di Pollock era oramai grafia; così come grafia sono le incisioni di Congdon: rappresentanze dell’io. Il ron ron di cui si è detto è il ronzio del’io, come se una pulce nell’orecchio non permettesse vera pace, senza soddisfazione.
“Giallo con sole”, del 1989, è giallo su giallo, un monocromo spezzato solo da una tonalità più calda: la luce così gialla, quando il cielo di Buccinasco è così giallo oro, trasformata in un ronzio, implicato e implacabile. Non è il caso di ulteriori analisi. Però paradossalmente proprio l’ultimo Congdon denuncia quella caduta del paradigma mistico che Testori aveva percepito, senza poterla ultimamente nominare. Sarebbe stato necessario sottrarre la materia al concetto di natura.
Ritroviamo nelle opere di questi anni una libertà nuova anche dei grafismi (temuti da Congdon come forme del proprio narcisismo), se vogliamo, utilizzati con ben altro spessore. Comunque, non più un io negato nelle sue leggi o rimosso nei suoi atti, in nome di una totalità superiore.
È questa la strada che separa, prima Pollock, poi Congdon dalla soluzione spiritualista, quella di Rothko e di Barnett Newmann, che ambivano al recupero del mito come superamento dell’io. Dell’arte può dirsi quel che Flaubert afferma di Dio. Egli c’è, ma non si vede. Se nell’arte si vede troppo l’io, forse ciò avviene a causa di vizio formale; se prima o poi non dà segnali, allora la forma è divenuta quel che Testori chiamava “grande astrazione”. Il non rimuovere le istanze di cui si diceva fa di Congdon un pittore testoriano: e se tali istanze si trovano rappresentate in arcaici ma domestici mostri tellurici che emergono dal mare greco, in soli aranci sovrastanti fossi divenuti verticali, serotine, tenere eruzioni, di certo essi non gridano contro le ultime bellissime “Ali”, nelle quali il cielo si fa marcita potente, solco reiterato, e ritmato, verde di primavera. Congdon distrusse uno di questi “paesaggi pulsionali”, opera lodata da Testori durante la sua ultima visita alla Cascinazza: questo non contraddice quanto detto, che solo la liberazione dal rimosso significa la riconquista del gesto. È questo crediamo il modo nuovo di rinominare quel che si è detto “il bandolo”.
Parafrasando Eliot, se la critica muore con un lamento, rinasce grazie a un dispetto.
Mario Cancelli (3. fine)
William Congdon, Pianura
Casa Testori – L.go Angelo Testori 13, Novate Milanese
Fino al 14 febbraio 2016
Dal martedì al venerdì 10-18, il sabato e la domenica 14-20. Chiuso il lunedì
Biglietto d’ingresso: € 5
Informazioni: info@casatestori.it | www.casatestori.it
tel. + 39 02.36589697
Natura verticale. Congdon a Casa Testori
La mostra “Pianura” di Casa Testori accompagna gli anni seguenti di Congdon attraverso una innegabile lettura e scansione formale. In questo iter, che vide momenti eccelsi, quel che conta, a nostro avviso, è però la fedeltà di cui parlavamo all’inizio; l’appoggiarsi a fonti conosciute o ritrovate, senza abdicare mai alla verità del gesto. Anche se si moltiplicano le citazioni, De Stael, Braque, Rothko, Barnett Newman (che splendore le sfrangiate barre verticali da lui mutuate e vive nei campi) e perché no anche Malevitch, un quadrato in Congdon non è mai un quadrato e basta. Si veda “Janua coeli-verso primavera” (1983), roseo e grigio e verde canto liturgico, spaziale impronta della realtà esperita.
La sala dei glicini, alcuni di loro inediti, tripudia di delicatezze, di accordi misurati e innervazioni che irrompono indocili, la superficie torna ad essere vera e pulsante mappa pollockiana. Glicini: sulla porta del monastero, dove Congdon accoglieva i visitatori. Ma il tutto non procederà nella vicenda di Congdon in modo così intimo o intimista.
Un testo famoso ci introduce emblematicamente a quella che a noi sembra essere la vera partita in gioco: “Neve 10” (1985). Consueti campi e spazi, riassunti in spoglia geometria. Un cielo sul bruno, la terra sul bianco luminoso. Un’idea di pace sembra gravare e al contempo minacciare il tutto. Un fosso nero-blu, geometrico e ribelle, s’incurva e s’insinua come spina nella carne. Siamo davanti a una confessione? Alla testimonianza di una resistenza, in questo ruvido ingresso, o di un principio irrinunciabile? Un vero e impoverito svuotamento sarebbe intervenuto se Congdon avesse rinunciato alla sua lotta con l’angelo, a quanto di sé diceva, pur tra i salmi, della propria legge pulsionale. In questo senso è la sua lotta modernissima e la sua eredità. Nessuna misericordia nel suo concludere, misericordia fu elaborare il conflitto, non rimuoverlo. Questo fa della pittura di Congdon, fiorita nell’hortus conclusus presso Buccinasco, una pittura laica.
E infine mediazione tra cielo e terra, se così si può dire, furono proprio quei straordinari e stilisticamente compendiari monasteri, che Congdon dipinse con francescana semplicità e acutissimo e filiale trasporto e che avremmo desiderato più rappresentati in mostra. Le finestre di Congdon non si aprono sull’azzurro ma sulla terra. E da esse irrompe, come scrisse Testori, luce di Paradiso, non uno stile di vita, uggioso come tutti gli stili di vita (perché privi di atti), anche se a contatto con la Luce. Natura verticale.
Mario Cancelli (2. continua)
William Congdon, Pianura
Casa Testori – L.go Angelo Testori 13, Novate Milanese
Fino al 14 febbraio 2016
Dal martedì al venerdì 10-18, il sabato e la domenica 14-20. Chiuso il lunedì
Biglietto d’ingresso: € 5
Informazioni: info@casatestori.it | www.casatestori.it
tel. + 39 02.36589697
Nicolò Rezzara cent’anni dopo, convegno a Chiuppano (VI)
A cent’anni dalla morte, il pensiero di Nicolò Rezzara, in sintonia con quello di Papa Francesco, risulta portatore di idee incredibilmente attuali. Per questo motivo l’amministrazione comunale di Chiuppano (VI), paese di nascita del sociologo cattolico, ritiene doveroso ricordarne la figura e lo straordinario impegno profuso in campo politico, sociale, economico, perseguendo e realizzando l’ideale di una maggiore giustizia in campo sociale, a favore dei più poveri e dei più deboli.
Per ricordare questa straordinaria figura di cattolico impegnato nel sociale e nella politica sabato 24 ottobre alle 15.30 nell’Auditorium di Chiuppano si terrà il convegno “Nicolò Rezzara a cent’anni dalla scomparsa” (info@comune.chiuppano.vi.it)
Il programma prevede alle 15.30 i saluti di Giuseppe Panozzo, Sindaco di Chiuppano, e Achille Variati, presidente della Provincia di Vicenza. Seguiranno gli interventi dell’on. Ernesto Preziosi (“Rezzara e il suo tempo”), di Francesco Gasparini dell’Istituto Rezzara di Vicenza su “Rezzara e l’impegno in Veneto”, dell’on. Giovanni Sanga su “L’impegno di Rezzara in terra bergamasca” e del vicedirettore dell’Eco di Bergamo Franco Cattaneo sul tema “Rezzara: giornalista e organizzatore”. Le conclusioni, intorno alle 17.45 saranno tenute dall’on. Federico Ginato sul tema”Attualità del pensiero e dell’opera del Rezzara”:
Nato nel 1848 a Chiuppano, in provincia di Vicenza, in una famiglia contadina di modesta estrazione, rimase orfano del padre all’età di sette anni. Per questo venne accolto da uno zio materno nel capoluogo berico che gli permise di proseguire le scuole dell’obbligo e di successivamente di completare gli studi tecnici. Al termine del proprio percorso formativo ottenne l’abilitazione all’insegnamento superiore ed intraprese la professione esercitando sia presso il collegio cittadino Cordellina Bissari che nel locale Seminario vescovile. Fervente credente, si impegnò in molteplici iniziative di stampo cattolico: si segnalò come prefetto di camerata nell’Orfanotrofio, partecipò alla fondazione di settimanali come Il Berico nel 1876 ed il Dono di Pasqua, e si adoperò attivamente per la nascita e l’espansione sia dell’Associazione Cattolica di Vicenza che del Circolo San Giuseppe. Ottiene quindi l’abilitazione all’insegnamento presso l’Università di Padova ma, a causa del clima laicista del Collegio Comunale, fu costretto a lasciare l’incarico.
Nell’ottobre del 1877 si recò a Bergamo per partecipare al Congresso Cattolico. Nonostante la giovane età e la poca esperienza, venne nominato membro del Comitato Diocesano dell’Opera dei Congressi e gli venne offerta la cattedra di Storia e Letteratura presso il locale collegio Bartolomeo Colleoni.
In breve tempo cominciò a farsi conoscere anche nella realtà bergamasca, aiutato dal clima fortemente cattolico presente nella città (definita da Papa Pio X la prima diocesi d’Italia). Conobbe e collaborò con Giambattista Caironi (1848-1903), collega d’insegnamento, con cui fondò nel 1879 il periodico Libertà d’Insegnamento e nel 1880 il quotidiano L’Eco di Bergamo, mentre nel 1885 diede vita al settimanale politico Il Campanone. Inoltre nel 1891 costituì, in collaborazione con il conte Stanislao Medolago Albani, il Piccolo Credito Bergamasco (poi diventato Credito Bergamasco).
Si impegnò nell’Opera dei Congressi collaborando con Giuseppe Tovini, in sostituzione del quale assunse la direzione della terza sezione, dedicata ad istruzione ed educazione. Nell’ambito di tale associazione venne nominato nel 1882 membro del comitato centrale, mentre nel 1887 assunse l’incarico di segretario generale, ruolo che ricoprì consecutivamente per 14 anni. Si rese quindi protagonista di numerose iniziative sia in ambito religioso che in quello sociale, rivolgendo le proprie attenzioni ai ceti meno abbienti: nel 1881 istituì L’Opera delle Cucine Economiche, iniziativa volta a combattere la malattia della pellagra, mediante la quale attivò cucine nella città che permettessero di migliorare l’alimentazione dei ceti poveri, causa del diffondersi di tale malattia, venendo anche nominato membro della Commissione Provinciale per la cura della Pellagra’. Inoltre creò la Società cattolica femminile di mutuo soccorso ed il Panificio cooperativo bergamasco, costruì la Casa del popolo e diede vita alla Scuola popolare, strumento volto a combattere l’analfabetismo.
In ambito politico nel 1887 venne eletto prima nel consiglio provinciale bergamasco e poi in quello cittadino. Si interessò anche alle numerose questioni legate alla questione operaia, venendo indicato dalla Santa Sede quale proprio rappresentante presso l’Associazione internazionale per la protezione legale dei lavoratori, che si svolse nel 1908.
L’anno successivo, in qualità di Presidente della Direzione Diocesana, venne invitato dall’Ufficio del Lavoro di Bergamo a mediare nella vertenza in atto presso gli stabilimenti Zopfi di Ranica, nei quali più di 800 operai ricorsero allo sciopero contro la proprietà. Il Rezzara riuscì a conciliare le due posizioni, ottenendo il riconoscimento della Lega Operaia da parte dell’azienda ed altri piccoli miglioramenti della condizione lavorativa. Questa mediazione viene indicata come fondamentale per la creazione in terra bergamasca del sindacato cattolico conosciuto come Confederazione italiana dei lavoratori, progenitrice della CISL.
La gestione e la risoluzione di questa vertenza, così come altre situazioni in ambito sociale e politico, portarono a contrasti tra le differenti anime del mondo cattolico. Numerosi furono i dissidi tra il Rezzara, supportato nella sua opera dal vescovo bergamasco Giacomo Radini-Tedeschi e dal segretario vescovile Angelo Roncalli (futuro Papa Giovanni XXIII), e Stanislao Medolago Albani che, con una condotta più conservatrice volta alla tutela dei poteri forti, vedeva dalla sua parte il Cardinale segretario di Stato Vaticano Rafael Merry del Val ed il Pontefice Pio X. Negli ultimi anni della propria vita lasciò progressivamente gli incarichi assunti, ammalandosi gravemente nel 1914 di un male che lo vinse il 6 febbraio 1915.
Clicca per scaricare il depliant del convegno di Chiuppano con il programma
Congdon, la realtà si fa prossima
Il termine “Pianura” comporta molteplici significati. A sentire le celebri voci che narrarono di Lombardia, sembrerebbe che in terre ricche come queste, per il possesso delle quali si combatterono guerre di trenta, quaranta, cento anni, la monotonia come al suo opposto l’idealizzazione non siano molto apprezzate. Terre nelle quali ci si ritrova e ci si perde; attraversate da fiumi nei quali le fronde si specchiano confondendo gli abituali riferimenti di alto e basso, ben prima che a tali effetti provvedesse Cezanne; dimensione longitudinale e verticale in mutuo scambio; luoghi autosufficienti e mai autoreferenziali, mai carezzevoli un seducente e ingannevole sublime, con il cielo che si fa azzurro a tratti, come una grazia, nuovo e non immutato e statico attributo dell’universo. Queste costituirono l’approdo ultimo di Congdon, che di terre ne aveva già saggiate parecchie, e che di suo non avrebbe certo ceduto a seduzioni di lecci e marcite fangose, per lunghi mesi prima di premiarle con sodi verdi e gialli oro incastonati nel grigio di stagioni operose.
Fu quello di Congdon un atto di obbedienza: prima presso una casa di persone consacrate, poi nelle adiacenze di un monastero benedettino detto la “Cascinazza”. Ci volle tempo - testimoniato da una lunga serie di Crocefissi - per accorgersi che la “pianura” tornava a donargli quelle onde che solo il mare gli aveva offerto gratuitamente.
Se la rinascita alla pittura era avvenuta ad Assisi, ora, in Lombardia, si trattava di verificare una stabilità, favorita più da rapporti che da quelle emozioni, che fino ad allora, avevano sostanziato i resoconti del suo inquieto viaggiare, capace di estrarre dai “luoghi” occasioni d’intenso piacere pittorico, non disgiunto da eventi sentiti gravidi di futuro. Cos’era rimasto, nel “non luogo” cui si era consegnato, di quel dono che aveva passato al suo attento se non implacabile filtro mezzo mondo?
D’altronde Bill Congdon, il quale cercava nella creazione artistica quella libertà che i severi principi morali non gli consentivano, mai mentì a se stesso, assestandosi su una produzione di maniera, spiritualmente atteggiata. Non ne era capace; i quadri o “nascevano” o morivano. Di lui può dirsi veramente quel che si sostiene di quasi tutti i protagonisti dell’Action painting, che la pittura fosse il vero test del suo pensiero.
Con il titolo “Pianura”, Casa Testori - partendo dal rapporto che legò per un certo periodo l’artista al critico Giovanni Testori - offre il resoconto di quest’ultima fase della produzione di Congdon. Sul complesso dialogo insorto tra queste due personalità, promettiamo d’intervenire in un’ulteriore occasione, così da non perdere la copiosa possibilità di conseguenze che se ne possono ricavare. Qui cerchiamo di cogliere la logica di questa ricca selezione di opere che Davide Dall’Ombra e Francesco Gesti, hanno selezionato. Un taglio netto, il loro, il cui preludio è il bellissimo Colosseo (Rome - Colosseum 2, post 1951), con i suoi petali di case dorate sospese sugli archi dell’abisso.
Proprio nelle prime sale, si rimane colpiti dal vigore con il quale William Congdon ha onorato e celebrato tali pianure. Si è quasi invasi da un vento di materia e di colore, ben allogati e solidi negli spazi, una “longobardica” irruenza e libertà che il gesto ritrova dopo anni, e in maniera quasi ineguagliata, anche al confronto di celebri cantori di queste terre. Quasi un immenso polmone a pieno regime riabilitasse l’ossigeno di terreni coltivati, fossi, cieli, albe, lune. Ed assieme a loro le memorie delle città del passato, un tempo colate di neri tralicci ora terra rossa lavorata, trame di vita che si compie. Materia è memoria, direbbe Bergson, ma stiamo attenti a queste analogie: perché qualcosa di nuovo e di decisivo sembra compiersi. In questi episodi, che è inutile descrivere, sembra venire meno la storica “distanza” cui la pittura, di tradizione contemplativa, ha confinato il paesaggio.
Nel ritmo di queste lunghe giornate - Congdon si alzava prestissimo - sembra consumarsi il Romanticismo. Congdon non ci convoca ad immersioni annichilenti nella natura, né erige siepi a fare ostacolo a vaghi spazi infiniti o meglio “indefiniti”, consolatori e sempre sostitutivi di occultate istanze.
La natura o meglio la realtà è in queste tele a noi prossima. L’io è tornato in grado di riceverla e di restituirla. Un rapporto, quello che Congdon istituisce per lunghi anni con le cose, che vorremmo chiamare “giuridico” e non causato, il cui modello è proprio il bambino, capace di lasciarsi soll-eccitare da ciò da cui riceve beneficio, e cui risponde.
Questo differenzia la pittura di Congdon da quella di Morlotti, forse anche più attento nell’esaltare le possibilità offerte dalla natura, ri-costituita nel suo inesauribile patrimonio di sostanza e di colore. In Congdon non agisce l’identificazione o annullamento estatico con le cose. Non Spinoza: l’“io parla”, perché in rapporto o perché di questo sente l’urgenza. Nessun pascolismo, per quanto alcune sue lune sembrino evocarlo.
Mario Cancelli (1. continua)
William Congdon, Pianura
Casa Testori - L.go Angelo Testori 13, Novate Milanese
Fino al 14 febbraio 2016
Dal martedì al venerdì 10-18, il sabato e la domenica 14-20. Chiuso il lunedì
Biglietto d'ingresso: € 5
Informazioni: info@casatestori.it | www.casatestori.it
tel. + 39 02.36589697
Il gesto: vocazione-pulsione-legge dell’individuo
I rapporti tra pittura e cinematografia sono stati oggetto di attente e valide analisi. Quel che a prima vista sembrerebbe più difficile da rinvenire - ad esempio connessioni con l’arte astratta, ha dato luogo a vere e proprie sorprese critiche, come l’analogia tra alcune scene di un film come Deserto rosso di Antonioni, con l’opera astratta di Mark Rothko. Sembrerebbe impossibile, eppure l’intimismo mitico-cabalistico di Rothko ben si apparenta e commenta l’esistenzialismo malinconico del regista italiano. Anzi, si potrebbe affermare addirittura il contrario, che l’ambiente e le atmosfere di Deserto rosso facciano proprio lo spiritualismo di Rothko, riportando l’oggettività espressionista inseguita con l’astratto a una condizione più quotidiana, on the road: dal tempio delle “strisce di colore” in dinamico equilibrio, all’angoscia dell’individuo che quell’equilibrio vede in se stesso vacillante.
Forse esiste un rapporto ancor più stretto tra le due arti, se consideriamo l’immagine in quanto rappresentante il pensiero dell’individuo.
La situazione storica può aiutarci a chiarire alcune caratteristiche di quel che, commentando l’arte di Pollock, si è chiamato “gesto”. Se questo fu un approdo personale, originale, decisivo, non per questo non è possibile trovarne anticipi e verificarne l’urgenza, anche nel periodo che precedette.
Sugli anticipi, più che le strette parentele, con alcune “colate” di Moreau, che conferiscono dimensione di “atto” all’informale di Turner, è la letteratura a definire con precisione la circostanza estetica e spirituale. Ci riferiamo a quelle Segrete del Vaticano di Gide che orientano narrazione e riflessione proprio sul tema del “gesto”, un gesto di cui Gide insegue la non motivazione, l’assenza di causalità. Nonostante i temi di forte polemica culturale e sociale, il gesto di Lafcadio di gettare giù dal treno il fervente cattolico Amédée è del tutto privo di motivazione, impulsivo se non reattivo. Non si era mai dato qualcosa del genere in precedenza. Facile vedere come Gide colga alla perfezione una problematica culturale propria dell’inizio del Novecento, che dà corpo alla domanda sulla possibilità del soggetto nel contesto storico.
Su queste premesse sorgerà l’Ulisse di Joyce, monumento dell’individuo che si muove in forza di una coscienza alla quale passato e presente convergono attimalmente e del quale il linguaggio sarà la resa “in atto”. Di qui al noir, il passo è molto breve. Cosa di più esplicito di un colpo di pistola per cogliere o svelare il vero pensiero del “soggetto”? E non a caso proprio la cinematografia di Hitchcock è stata spesso chiamata in causa - oltre alla fotografia “dinamica” di quegli anni - come preludio e ispirazione per l’action di Jackson Pollock.
L’Action Painting per riflettere la realtà sociale? Il “gesto” era in qualche modo sul mercato in quegli anni. Già Gertrude Stein in un suo racconto, “Innamorarsi ai grandi magazzini” , rivendicava un pensiero che si liberasse dei cosiddetti “stili di vita”: uggiosi e coercitivi. Che Jackson Pollock abbia “ricevuto” l’idea del gesto dalla pratica magica degli indiani osservata, come conferma il documentatissimo libro illustrato di Catherine Ingram(1), non va disgiunto dal guadagno ottenuto riportando tale pratica al proprio pensiero, facendo del gesto qualcosa di laico, di sinonimo del pensiero.
Negli anni Settanta gli elementi in gioco saranno ancora i medesimi. Il Robert De Niro di Taxi driver (1970), dopo una delusione sentimentale entra in contrasto con tutta la società, “riscattandosi” grazie a una carneficina. Alcuni fotogrammi del sangue delle vittime che cola sui muri richiamano le “colate” introdotte dall’Action Painting. Come avviene per molti remake, però, l’emblematico atto di Pollock, viene coperto da una motivazione “etica”: liberare una ragazzina dalla prostituzione.
Alla soddisfazione si sostituisce l’esigenza di riconoscimento. La pratica dell’Enviroment permise di superare i limiti fisici dell’opera, trasferendo il gesto pittorico in una vera azione drammaturgica: siamo in pittura, teatro, cinema?
Il “rosso primordiale” di Anish Kapoor, sparato contro una superficie, più che un Leviatano sanguinante e morente fuori di noi, sembra alludere a qualcosa che è dentro di noi: traccia ingigantita di un ostacolo, non giudicato e quindi rinforzato. Così facendo non viene a ripetersi quell’assolutizzare il mondo del sogno in opposizione al principio del reale, che fece il successo del surrealismo?
Se tutto è mercato, è ancora rinvenibile in esso, oltre ai pomodori Campbell di Warhol, qualcosa che riconduca al gesto di Pollock? Un gesto che, ricondotto fedelmente all’inconscio e alle verità di questo, tale opposizione cercava di superare.
(Mario Cancelli)
Note:
1) Catherine Ingram, This is Pollock. Illustrazioni di Peter Arkle, 2014.
#Pollock365 a Venezia - 5. Un’eredità che rende possibile ripartire
Cominciare dalla fine ha reso possibile accedere al “tesoro” delle prime sale. Ad esempio, uno splendido esercizio giovanile di J. Pollock su carta ci offre due vagoni immobili e inamovibili sui binari. Tutta la vita e l’opera di Pollock (lui che percorse da costa a costa l’America e incontrò uomini e luoghi e riti, dei quali compose ineguagliate mappe) non furono altro che il tentativo di riconoscere ciò che impediva il moto e quindi l’atto del dipingere stesso.
Unico fra tutti, aveva trovato quel legame tra pensiero e atto e moto sulla cui scissione la cultura europea si era arenata.
Non ci si poteva più sottrarre a una logica che coniugasse pulsione e linguaggio, se non fissandosi in arcaismi tanto patologici quanto patetici.
L’imperdibile occasione espositiva veneziana ci mostra il guadagno conseguito da parte di chi era più vicino a Pollock: nella sala centrale un dignitosissimo risultato di Lee; e, fino a poche settimane fa, un Charles che trova alfine la propria autonomia. Un’eredità che, anche se fraintesa, fu di una generazione intera - e che è ancora lì, per un nuovo ripartire.
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Segnaliamo alcuni video postati dal museo Guggenheim.
ALCHIMIA DI JACKSON POLLOCK. Viaggio all'interno della materia, video che testimonianza l’eccellente lavoro di restauro dell’opera
JACKSON POLLOCK'S 'MURAL': Energy Made Visible, didattica intervista al curatore
Richiamiamo solo il titolo del pur proficuo catalogo di David Alfam, J. Pollock, Murale, energy made visibile, su cui non è possibile concordare. Non si tratta certo di rendere visibile l’energia (il tema del Pollock “primitivo”, sfiorato da Rosenberg, è tutto ancora da trattare): avremmo solo una forma di culturismo. L’energia è da intendersi come istanza pulsionale. Quale in fondo errore più comune?
(Mario Cancelli - 5. fine)
#Pollock365 a Venezia - 4. Il confronto con i Surrealisti
Emoziona ritrovare una piazza del primo De Chirico, collocata in una sala diversa da quella abituale ed esaltata proprio dalla vicinanza con l’alieno Pollock nella minacciosa possanza del suo anonimo maniero.
Quella piazza diviene qualcosa di analogo a tutto il gran lavoro di Pollock, ben lontano dalle opposizioni in cui posero l’atto creativo i seguaci di Breton, i quali si rifacevano paradossalmente alla disturbata metafisica del pittore ferrarese.
Per entrambi il fine sarà l’inconscio: ma per i surrealisti si tratterà di “un altro” a cui affidare tutto il potere (contro la ragione); per Pollock di un “gesto” che assecondi il pensiero così come esso si dà.
Abbandonare cavalletto e pennello fu quindi il mezzo per restar fedele al proprio pensiero che “dittava dentro”.
Le foto lo rappresentano per nulla agitato quando dipinge, contento, rapido, sicuro di quel che ha trovato e che prima non aveva. Nel dripping ritroviamo qualcosa della libertà e della gioia del bambino quando disegna per terra. Una libertà forse minacciata ancora da un eccesso di immediatezza, anche se l’automatismo è superato nell’economia della sua danza attorno alla tela. Questa fedeltà al pensiero permise a Pollock una strenua difesa dalla propria autodistruttivitã.
Quando alla fine degli anni Cinquanta le “figure” si ripresenteranno incontenibili – quelle “black paintings” che purtroppo in mostra non sono rappresentate - Pollock potrà non far loro resistenza. Le nuove forme sorgono dal nero e il nero le rappresenta.
Cosa doveva ancora dirsi Pollock? Il finale è un’onirica elegia alla memoria che va ritrovandosi, un pensiero che fa i conti con il proprio rimosso: l’astratto trasformato in personale metafora o romanzo. Ben oltre Picasso.
(Mario Cancelli 4. continua)
Sironi-Burri. Un dialogo italiano (1940-1958)
C’è chi ci arriva in taxi. Chi, in occasione di oramai notissime fiere, su sovraccariche navette che mettono in comunicazione la stazione con piazza Aldo Moro, con i suoi bianchi grattacieli. Del Kenzo Tange: forme che si arrampicano con disinvolta sobrietà modernista. Giunti in via della Conciliazione, personalmente dopo peripezie tra viottoli fra nebbie serali, per essere sceso a fermata sbagliata, si percorre questo rettilineo raccordo, sorta di Via Sacra dell’“istanza Periferia” in progress, decisa a replicare al Kenzo con pervicace volontà architettonica. Opulente facciate di alberghi, nere più del più cinereo Burri, banche in sintonia con l’idea urbanistica percorsa ed altro ancora: fino a pervenire all’incrocio di via Stalingrado, che introduce chi viaggia all’universo.
Invero Filippo Tommasi Marinetti non avrebbe potuto desiderare di più.
“Sironi-Burri: un dialogo italiano (1940-58)” è una mostra che si organizza attorno a due sole opere: un testo non centrale ma significativo della vicenda artistica di Mario Sironi “Composizione murale” (1948); “Nero con punti”, tecnica mista del ’58, fondamento del Burri materico, gestuale, esistenziale, poetico che conosciamo.
Da rimanere lì un pomeriggio, salutando di tanto in tanto con lo sguardo il traffico che lascia o entra in città.
La sorpresa è però anche l’operazione culturale creata attorno alle due opere (di proprietà dell’Unipol). Il contesto storico in cui agirono i due autori, ricostruito anche attraverso preziosi documentari dell’istituto Luce, si apre infatti a una ricca ma meditata scelta di interventi critici dell’epoca, di riflessioni successive, di testimonianze dirette degli artisti. Un lavoro che sintetizza con semplicità e sensibilità quegli anni segnati da una complessa ricerca. Un’indagine infine consapevole dei nodi critici attraverso i quali la nostra storia uscì dallo scacco della guerra e ricercò se stessa. Indagine di raffinata consapevolezza, in grado anche di ampliare le proprie fonti, oltre i noti e scontati contrasti che quella storia segnarono.
L’olio di Sironi infatti trascina in un’irreversibile e precipite caduta il proprio - ma non solo il proprio - ideale “monumentale”, ideale nel quale trova temporanea soluzione la ricerca di una liberazione dal limite (?) della soggettività. Sironi ci attende con una shakespeariana scenografia in cui coppie di figure sembrano darsi il cambio: della storia non c’è più traccia.
Una metafisica alla rovescia riconduce emblemi e figure a un copione senza più nulla di prestabilito. La critica parlò di relitti, ceneri, reliquie: noi diremmo “materiali” infine sottratti a un “presupposto” che liberava, senza risolverli, dall’angoscia. Ora sono ricondotti a un pensiero individuale garantito solo dalla propria logica. Una spoliazione che produrrà il canto terminale e splendido di “composizioni” senza più ordine fittizio, confessioni estreme.
Un’Italia che crolla e un’Italia che rinasce? Troppo facile accostamento.
Economia dello scacco semmai, potremmo dire. La via di Burri infatti onora le stesse ceneri e il medesimo addio ai canoni rassicuranti anche se più attuali: i suoi francescani sacchi, le sue polveri, gli orli, le crepe, crepe-ferite, cooperano a costituire una veste da reinventare senza cedere a polemiche e istanze estranee a quelle del canto del poeta, canto-confessione, né sacro ne blasfemo, che renda ora conto in primis della propria personale “città”. Saranno in seguito bruciature, desertificazioni, ricapitolazioni in oro e di nero: sudari di un corpo cui la bellezza non è garantita ma sempre imputata.
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Tale indagine - la mostra è a cura di Christian Caliandro - pre-sente e riconduce i presupposti storici al ganglio critico di quegli anni; vero nodo irrisolto di pensiero, nel quale confluirono divergenti posizioni, soprattutto quelle di Pasolini o di Testori e di Arcangeli. Questo fu il vero dialogo di quegli anni, fatto di scontri e di vicendevoli riconoscimenti. La categoria di “ultimo naturalismo” del critico bolognese indirizzava infatti verso un ineludibile bivio storico.
Delineato dal rapporto in cui vengano a trovarsi tra loro io e natura. L’approdo di Arcangeli all’informale di Pollock, interprete di un’ultima responsabilità dell’arte, non sembra oggi conflittuale con la scelta espressionista del Testori critico, e scrittore. Posizioni entrambe non risolte.
Questo perché quella “responsabilità” non fu ultimamente giudicata nelle sue istanze pulsionali e relazionali (e che potremmo chiamare giuridiche). Il fraintendimento di “pulsione” con “istinto” e di “giuridico” con “sociale” riallargava quella frattura che il dialogo “tutto italiano” cercava di ricomporre.
Sironi-Burri. Un dialogo italiano (1940-1958)
28 luglio- 18 ottobre. Spazio Arte Cubo.
Bologna.
#Pollock365 a Venezia - 3. “Alchemy”, il parricidio del visibile
Sul lato destro della sala, troviamo “Alchemy”(1947): testimonianza di un pensiero che oramai procede. Un sacrificio o un parricidio del visibile si sono compiuti a favore di nuove modalità.
È la spoglia opima della realtà quella che giace tra la rete di gesti e di traccianti, pittura gettata sul fondo scuro e immediatamente rilanciata da nuovi gesti che si sovrappongono, attori di un’azione che consegue all’annullamento di ogni precedente spazialità.
Non è questo “lasciar cadere” ogni traccia simbolica a rendere l’action di Pollock una pittura realmente laica, rispetto anche ai suoi prestigiosi sodali (vedi Rothko) ancora legati al mondo del mito?
Sull’altro lato della sala, “Elegy” di R. Motherwell, che supera in lunghezza il testo di Pollock: i due teleri si guardano, senza confronto, atti di un pensiero che trova le sue opzioni.
(Mario Cancelli 3. continua)