d4661518b4c5b62532fb8f449ed9b[1]Il primo Esercizio di Ammirazione lo riservo ad un grande (e certo un po’ misconosciuto, almeno in Italia) pianista contemporaneo: John Tilbury.

La mia strada di ascoltatore dal vivo si è incrociata solo una volta col magistero di questo artista ma la lezione che ne ho tratto mi accompagna ancora oggi (nonostante molte volte io non le sia rimasto fedele).

Ero un ragazzo (da poco diciannovenne) ed usufruivo di un abbonamento a prezzi stracciatissimi alla più interessante stagione concertistica che io abbia conosciuto: la milanese MUSICA NEL NOSTRO TEMPO (quanti meravigliosi pomeriggi e serate mi ha regalato…).

In breve: il concerto è programmato per domenica 11 dicembre 1988 alle ore 17, un giorno che ricorderò per il resto della vita. Musiche di Cornelius Cardew e Morton Feldman: sono assolutamente ignaro di chi siano questi signori.

Incontro Matteo, un amico che frequenta il mio liceo, fuori dalla Sala Verdi del Conservatorio, con largo anticipo sull’orario di inizio dello spettacolo.

Aprono le porte, entriamo e ci posizioniamo al nostro posto abituale. Ingresso di destra, qualche fila sopra il passaggio, posizione esterna verso il centro.

Intorno a noi… il nulla.

Poco a poco gli spettatori (li conosco tutti, almeno d’aspetto, siamo una sorta di setta non ufficiale di appassionati della musica d’oggi… indimenticabile per me il signore con gli spessi occhiali dalla montatura scura sempre seduto nella parte anteriore del primo settore centrale) entrano in sala.

Sono abituato a concerti in cui il pubblico è, eufemisticamente, poco numeroso ma qui si rischia il record: otto.

Siamo in otto…

Sparsi, tra l’altro, nell’infinita vastità di una sala da più di millecinquecento posti (per la precisione 1580)… praticamente delle mosche sul dorso di un leopardo… pressoché invisibili.

E qui, inizia una delle più grandi lezioni di musica della mia vita.

Il Maestro Tilbury (conosco pochi che meritino questo titolo più di lui) entra in sala con passo agile e si accomoda al pianoforte.

Concentratissimo, inizia l’esecuzione del difficile programma.

Suona come se davanti a lui ci fosse un milione di persone o, meglio ancora, la sua amata, o, forse, Dio.

Rimaniamo letteralmente estasiati, tutti…

Il programma, molto vario, culmina con un brano che, da quel momento, diverrà uno dei miei favoriti in assoluto: Palais de Mari di Morton Feldman.

Quando finisce questo incanto in triplo pianissimo io e Matteo, risvegliandoci dal sogno ad occhi aperti, ci rivolgiamo solo una domanda: quanto è durato? Un’ora? Cinque minuti?

Davvero il tempo ha qui ceduto il posto all’eternità…

E corifeo di tutto questo, lui, l’umile, grandissimo John Tilbury che ha suonato davanti ad otto persone facendo sentire ognuno unico e degno del suo sacrificio. Una (forse) inconsapevole imitatio Christi che in me ha lasciato una traccia indelebile e che, spero e prego, sia ascritta tra i meriti eterni di quest’uomo che ha testimoniato a tutti, in una domenica d’autunno, cosa significhi amare e servire la Bellezza e, in essa, l’uomo.

Grazie, Maestro…

 

P.S. per chi volesse godere dell’arte di Tilbury, interprete sommo di Feldman, consiglio questo video. Si tratta dell’esecuzione della prima parte (di sei) del monumentale For Bunita Marcus:

Ovviamente consiglio caldamente anche l’ascolto delle successive cinque parti 🙂

 

P.S. 2 Per i curiosi qui c’è una bella interpretazione (di Aki Takahashi) del mio amatissimo Palais de Mari