060516 Colombo (43)Il Dipartimento di Scienze statistiche ricorda Bernardo Colombo, figura preminente nella storia della statistica a Padova, con la presentazione di un volume di scritti scelti e con alcuni interventi che delineano il suo contributo scientifico in alcuni dei settori di ricerca che hanno connotato la sua figura. All’annuncio del convegno, aggiungiamo anche l’introduzione da lui tenuta per la nostra Associazione il 16 maggio 2006 nell’aula magna del Bo a Padova a un incontro nel quadro dei convegni sull’attualità di sant’Agostino (vedi foto), e il commento di don Giacomo Tantardini, che lo ringrazia di cuore «per il modo umanissimo con cui ha accennato all’umanità del Signore, di Gesù» e «per gli accenni al rapporto tra carità e verità».

Bernardo Colombo (1919-2012) è una figura preminente nella storia della statistica a Padova. A lui si deve l’istituzione della Facoltà di Scienze statistiche nel 1968. Il percorso scientifico di Bernardo Colombo si è svolto in un lunghissimo periodo, spaziando in diversi ambiti, dalla statistica all’organizzazione del sistema scolastico, dalle statistiche ufficiali alla demografia – specie con gli studi su nuzialità, fecondità, abortività – dalle politiche di popolazione alla biometria del ciclo femminile. Al rigore scientifico e metodologico univa la capacità di alimentare rapporti intensi con giovani studenti, ricercatori, colleghi di lavoro nella conduzione di collaborazioni nazionali e internazionali.

 

Dove: Archivio Antico – Palazzo Bo – via VIII Febbraio, 2 – Padova
Quando: 21 febbraio 2014 – ore 16
Approfondimenti: sito web

Scarica la locandina e il pieghevole del convegno.

Convegni sull’attualità di sant’Agostino a.a. 2005-2006

LE PAGINE PIÙ BELLE DI SANT’AGOSTINO

martedì 16 maggio 2006, aula E – palazzo del Bo, Padova

(estratto)

 

 

Bernardo Colombo

 

Grazie. Grazie per l’invito, anche se, quando mi è stato rivolto, mi sono sentito totalmente inadeguato a fargli onore. Ho ammirato la competenza, le riflessioni di quelli che mi hanno preceduto in questo posto: il filosofo, il rettore, il giurista, il procuratore. Sant’Agostino è molto lontano dal mio campo di studio, perciò lì non l’ho incontrato. I miei contatti risalgono addirittura al liceo classico, non in filosofia, perché mi hanno avviato alla filosofia con due dialoghi di Platone, con l’Introduzione alla filosofia di Maritain, con la Secunda secundae di san Tommaso e con Giambattista Vico. Ho incontrato sant’Agostino nel terzo anno del liceo classico, nella prosa latina cristiana. Però c’era veramente poco, il docente aveva scelto pagine di vari autori: Tertulliano, san Cipriano e sant’Agostino, capitolo VIII, semplicemente l’incontro con Simpliciano. Dopo il liceo ho avuto anche le Confessioni, il libro, in italiano, me lo sono tenuto: era nella mia libreria, accanto a una storia della vita di san Bernardo. Quest’ultima l’ho letta, ma le Confessioni solo a spizzico, per cui ho pensato, nel mio intervento, di prendere una posizione del tutto diversa, cioè di dire che cosa ho ricevuto dalle lezioni sue e da sant’Agostino, come uno dell’uditorio. Naturalmente io non rappresento l’uditorio, con ogni probabilità sono la persona più anziana in sala, quindi sono un tipo anomalo; non rappresento l’uditorio eccetto forse semplicemente per dire “grazie”, a  nome di tutti.

Ognuno ha ricevuto qualcosa, l’ha conglobato con la sua esperienza, con le sue riflessioni. Anche io ho rimuginato su certi punti che ho colto, non cerco di fare un collegamento tra le varie lezioni e non so – non ricordo bene – neanche quando è stato toccato ciò di cui parlo. Ne prendo due, ha sottolineato due termini: la dilectio e la delectatio, il loro significato. Io mi sono ricordato, a questo proposito,  di una lezione che ho ricevuto più di sessant’anni fa. Ero ufficiale, in tempo di guerra, a Palermo. La caserma in villa Bonanno era vicina alla cattedrale, accanto c’erano dei locali dove si ritrovavano i giovani della Fuci. Io frequentavo l’ambiente durante i permessi serali, andavo a giocare a ping pong. Però c’erano anche discorsi impegnativi e ricordo una lezione dell’assistente ecclesiastico della Fuci che mi ha fatto capire che l’atto di fede richiede testa e insieme cuore. È un’operazione di intelletto e di volontà. Andiamo oltre le cinque vie di san Tommaso, è come una disposizione d’animo. Lei ha sottolineato anche l’osservazione “come è bello”. Ricordo un altro episodio. In una commissione in cui ho lavorato c’era un canonico, Pierre deLocque, della diocesi di Malines – o di Mechelen, come si voglia dire –, lavoravamo insieme credo al collegio latino-americano, a Roma. Un giorno, scendendo le scale insieme, gli faccio un’osservazione da demografo – tenendo conto di cose che constato in demografia -, cioè che l’uomo cerca di campare il più possibile. Io gli dico: «Ma come mai cerca di campare il più possibile, quando di là c’è il paradiso?» La sua risposta: «Ma il paradiso è già cominciato qua!». Questa risposta mi ha abituato a cercare di vedere il bello nel mondo. Giorni fa ho letto una invocazione di Tommaso da Kempis, che dice «O veritas, Deus fac me unum tecum in charitate perpetua». Dio, verità, uniscimi a te in perenne amore. Oltre dice anche, sempre Tommaso da Kempis, per chi si avvicina alla Scrittura, di non parlare a sapienze esegetiche, ma «amor purae veritatis te trahat». Ti attiri l’amore della pura verità. Accosto a queste osservazioni di Tommaso da Kempis un’affermazione di Tommaso d’Aquino che dice «colui che rende più certa la verità, accresce la carità». È bello menzionare questa endiadi verità-carità qui dentro, in un’aula intitolata a Galileo Galilei. È una bella fortuna di cui godo – se ne parlava fuori -, di essere membro della Pontificia Accademia delle Scienze, perché lì mi capita di sentire delle cose straordinarie: il fisico premio Nobel che dice di riuscire a vedere i movimenti di particelle sub-atomiche in un tempo pari a un secondo diviso mille miliardi. Queste cose si sentono, oppure il biologo che dice che in Islanda, in un laghetto glaciale – parlava della possibilità dei batteri di vivere in condizioni estreme –, è stata trovata una popolazione di batteri che vivono, e sopra il laghetto ci sono cento metri di ghiaccio. Sentendo queste cose, se guardo una foglia e dentro ci sono queste realtà, mi viene da adorare la grandezza del Signore. Poche settimane fa ho sentito a Venezia un premio Nobel biologo, anch’egli membro della Pontificia Accademia, specialista in biologia cellulare, che mostrava la limitatezza, secondo lui, della spiegazione che dà il darwinismo sull’evoluzione attraverso la selezione. Non lo ho seguito perché ho capito che ragionava in termini probabilistici. Ma non l’ho seguito perché si faceva mal seguire, pasticciava coi lucidi, usava caratteri troppo piccoli, da lontano non si capiva bene. Ha riconosciuto che, per quel che riguarda questa tecnologia, è rimasto all’età della pietra, però è venuto fuori con delle osservazioni che oggi hanno una certa diffusione in alcuni ambienti, cioè l’insufficienza della spiegazione fornita da Darwin e pensano invece ad una superiore intelligenza, una grande intelligenza che ordina tutto il creato. Dopo di che c’è padre Coi – che ha ricevuto qui la laurea ad honorem – che dice «attenzione, questa non è scienza, è un’altra cosa». Ecco come si lega alla discussione del giorno quello che ci ha detto.

Vengo a un altro punto. Ho letto – io non sono esperto – che nei secoli IV e V c’era una grande discussione con orientamenti vari circa la natura umana e divina del Cristo, e ho preso atto dell’affermazione di Agostino. In parte dice questo: si è fatto uomo per poter essere conosciuto. La grandezza di Dio direttamente non può essere percepita dal nostro intelletto, ci abbaglia, e invece il Verbo incarnato è un velo che, nello stesso tempo, educa e aiuta a capire.

Cito anche qui un episodio, spero di non scandalizzare nessuno qui dentro come ho scandalizzato due suore. Ero unito a un gruppo di Marzio, mio cugino: organizzava i pellegrinaggi in terra santa, andavamo in pullman nei vari luoghi. Quelli di Marzio i canti sacri proprio li cantavano bene, c’era un uomo che era una cannonata per guidare. Siamo a Nazareth, camminiamo in giro, su queste colline spoglie, e io butto là una battuta: «Chissà se Gesù da ragazzo andava qui intorno in cerca di funghi». Ho visto subito le occhiate delle due suore, come se avessi detto qualcosa di irriverente. Eppure il vangelo di Giovanni ce lo dice: «Il Verbo si è fatto carne, è venuto a stare in mezzo a noi». Da uomo a uomo. Per l’uomo della strada era il figlio di un falegname. In un momento chiave, per convincere i discepoli che è risorto in carne ed ossa, si mette a mangiare un pesce arrostito, abbiamo sentito poche settimane fa.

Ecco il significato dell’uomo-Dio. Però andiamo anche oltre e cerchiamo di vedere come lui reagisce di fronte alla debolezza degli uomini che vede, da uomo a uomo. È amareggiato dall’avidità di denaro di quello che l’ha tradito. È deluso dalla pusillanimità di quello che aveva cominciato a menar le mani nell’orto e che poi, vista la mal parata nella casa del sommo sacerdote, lo abbandona. Tace invece di fronte alla cattiveria di chi lo prende in giro, mettendogli un mantello addosso e una corona in testa, non solo, ma di spine, per fargli male, e lo schiaffeggia. Tace di fronte all’astuta falsità di chi insinua a Pilato che se non consegna quell’uomo si renderà inviso a Cesare. Tace di fronte all’insensibilità di quelli che, ai piedi di tre morenti, si mettono a dividersi le vesti e a giocarsele, anche la tunica. Ha conosciuto le nostre debolezze. Leggendo un libretto di mio fratello,[1] Psicologia dell’amore di Gesù Cristo, ho visto più da vicino l’umanità di Cristo, la sua interiorità come persona umana. Ci vede, mio fratello, amore filiale per il Padre, la confidenza del Padre, la fiducia di essere esaudito, la gioia per i suoi disegni di salvezza, l’ubbidienza, fino alla morte, amore fraterno verso il prossimo, amore che deriva dal Padre e che porta al Padre. Condivide il dolore di un padre e di una madre per la malattia o la morte di un figlio, piange per la morte di un amico, soffre, pensando alla prevista rovina della città e della nazione. Se andiamo sul Calvario, lo vediamo grato verso uno sconosciuto che riconosce la sua bontà, e lo vediamo, morente, pensare alla madre che lascia, al suo dolore, alla madre che lui affida al discepolo prediletto. Io trovo in questa attenzione alla madre un gesto umanissimo. Ho finito.

 

Don Giacomo Tantardini

 

Io la ringrazio di cuore, professore, per il modo umanissimo con cui ha accennato all’umanità del Signore, di Gesù. La ringrazio anche per gli accenni al rapporto tra carità e verità. Agostino dice che vince sempre la verità, ma la vittoria della verità è la carità. Mi permetto di dire una frase di suo fratello, sua eccellenza monsignor Carlo Colombo, che don Giussani ha ripetuto tante volte a noi, a me in particolare. Nel momento della contestazione, monsignor Colombo diceva a don Giussani: «Guarda che alla fine vincerà la tradizione della Chiesa». Alla fine la tradizione prevale. Alla fine, magari dopo anni e anni di contestazione, o magari dopo anni, forse più pericolosi della contestazione diretta, di snaturamento, per usare un’espressione della Humani Generis di Pio XII, di alcuni contenuti cristiani. Possiamo dire che alla fine prevale l’umanità di Gesù Cristo, il suo rivelarsi. Si è fatto uomo perché lo si potesse riconoscere. Anche il più piccolo, anche i più poveretti come siamo noi lo possiamo riconoscere.

Poi, se mi permette, vorrei ricordare ancora una cosa di sua eccellenza di monsignor Carlo Colombo, che più volte il cardinale Hamer mi ricordava. Quando durante il concilio c’era il dibattito sulla libertà religiosa, le posizioni all’inizio in assemblea e nelle varie commissioni erano lontane. La minoranza era contraria ad utilizzare questo termine, che poi il concilio utilizzerà in maniera molto precisa. Una forte minoranza era contraria all’uso stesso dell’espressione “libertà religiosa” come diritto fondamentale della persona. Questa opposizione si è sciolta quando monsignor Colombo, a nome del Santo Padre, ha fatto un discorso in assemblea sul fatto che la fede cristiana è grazia, sulla soprannaturalità della fede cristiana. Se nasce dalla grazia, non si può imporre. Se nasce dalla grazia, la fede cristiana può solo incontrare la libertà. Su questa insistenza di monsignor Colombo sulla soprannaturalità della fede, e quindi sul fatto che la fede è grazia, anche il decreto sulla libertà religiosa ha ottenuto all’ultima votazione il consenso quasi totale dei padri. Se non sbaglio solo quindici padri hanno votato contro il decreto. Questi sono due fatti relativi a monsignor Colombo, che è stato mio preside a Venegono, anche se io non ho mai avuto la fortuna di averlo come professore perché era impegnato a Roma e anche nelle vicende dell’Università cattolica. Grazie di cuore.

(…)



[1] Carlo Colombo (Olginate, 13 aprile 1909 – Milano, 11 febbraio 1991) è stato un vescovo cattolico e teologo italiano. Nel 1938 divenne professore di teologia dogmatica speciale nella Pontificia Facoltà teologica di Milano con sede a Venegono.