L’Osservatore Romano di sabato 18 gennaio propone un notevole articolo di Leonardo Lugaresi, docente di letteratura cristiana antica all’Università Alma Mater di Bologna, dal titolo “Il filo di Agostino tra Ratzinger e Bergoglio… Dalle Confessioni alla Lumen fidei”. Una continuità sotto l’egida della concezione agostiniana della grazia che proprio papa Bergoglio sottolineava nella prefazione a “Il tempo della Chiesa secondo Agostino”, il volume nel quale, come l’allora arcivescovo di Buenos Aires scriveva, «scorrono le appassionate lezioni sull’attualità di sant’Agostino svolte da don Giacomo Tantardini presso l’Università degli Studi di Padova, nel corso di tre anni accademici, dal 2005 al 2008». Lezioni promosse fin dal 1998 dall’Associazione Rosmini.
Nella foto: il battesimo di Agostino nell’affresco di Guariento nella chiesa padovana degli Eremitani.
Qui sotto vi proponiamo l’articolo di Lugaresi sull’Osservatore Romano
Aggiungiamo i link al commento sul sito internet piccolenote.it e alla prefazione di Jorge Maria Bergoglio alle lezioni che don Giacomo Tantardini.
L’Osservatore Romano, venerdì 18 gennaio, p. 5, Il filo di Agostino tra Ratzinger e Bergoglio… Dalle Confessioni alla Lumen fidei (L. Lugaresi)
All’inizio della terza parte dell’enciclica Lumen fidei, quella dedicata alla trasmissione della fede, il lettore si imbatte in questa suggestiva immagine: «È una luce che si rispecchia di volto in volto, come Mosé portava in sé il riflesso della gloria di Dio dopo aver parlato con lui (…). La luce di Gesù brilla, come in uno specchio, sul volto dei cristiani e così si diffonde, così arriva fino a noi, perché anche noi possiamo partecipare a questa visione e riflettere ad altri la sua luce» (n. 37).
Colpisce, in queste parole, che proprio il riverbero della luce di Cristo sia indicato dal Papa come la prima forma di trasmissione della fede. «La fede si trasmette, per così dire, nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un’altra fiamma», prosegue lo stesso paragrafo della lettera, lasciandoci capire che questa sorta di osmosi viene prima di ogni attività missionaria organizzata, di ogni presa di posizione pubblica, di ogni progetto culturale, di ogni programma catechetico. Purtroppo noi moderni abbiamo qualche problema con l’immagine della luce, abituati come siamo a declinarla metaforicamente secondo un’accezione sempre un po’ illuministica, e – nell’esistenza quotidiana – a dare per scontato il possesso e il controllo della luce materiale, tanto che anche il più breve blackout ci è insopportabile.
Ci manca l’esperienza della luce come dono e quella dell’ineluttabilità delle tenebre: così, per esempio, quando preghiamo l’antico inno della compieta, Te lucis ante terminum, che spessore di coscienza hanno quelle parole, quando per noi la luce non ha mai termine e nelle nostre città non viene mai propriamente il buio della notte?
«È urgente recuperare il carattere di luce della fede» dice il Papa nell’enciclica (n. 4), ma per farlo occorre dunque comprendere che tale luce non è quella di un’immediata nostra chiarezza di visione su ogni cosa (un po’ come la «formula che mondi possa aprirti» di montaliana memoria), non è la luce di un faro che da noi si proietta sulla realtà permettendoci di conoscerne e spiegarne ogni dettaglio; essa è piuttosto come un raggio che colpisce e illumina innanzitutto il nostro volto. In virtù della fede, dunque, possiamo sì dirci “illuminati”, ma nel senso proprio del participio passato del verbo, non in quello (sempre larvatamente gnostico) di un aggettivo sostantivato che designa i possessori di una luce che dissipa l’oscurità del mondo e rivela segreti inaccessibili a coloro che sono nell’ignoranza.
La portata decisiva di questa distinzione, nell’intendere l’immagine della luce della fede, si coglie maggiormente se ci si riferisce al suo retroterra agostiniano, del resto esplicitamente richiamato dall’enciclica al paragrafo 33: «Nella vita di sant’Agostino – scrive Papa Francesco – troviamo un esempio significativo di questo cammino in cui la ricerca della ragione, con il suo desiderio di verità e di chiarezza, è stata integrata nell’orizzonte della fede. (…) e così ha elaborato una filosofia della luce che accoglie in sé la reciprocità propria della parola e apre uno spazio alla libertà dello sguardo verso la luce. Come alla parola corrisponde una risposta libera, così la luce trova come risposta un’immagine che la riflette».
Le Confessioni di Agostino ci offrono alcuni esempi estremamente significativi di questi diversi modi di intendere l’illuminazione della fede. Ne vogliamo ricordare almeno due: nel quarto libro, ricordando le sue imprese di giovane intellettuale orgoglioso di aver compreso da solo i testi filosofici più ardui e convinto di trovare in essi la chiave per conoscere Dio, Agostino descrive così la sua posizione umana: «Volgevo le spalle alla luce e il viso alle cose da essa illuminate, per cui la mia faccia stessa, con la quale distinguevo le cose illuminate, non era luminosa (dorsum habebam ad lumen et ad ea, quae inluminantur faciem: unde ipsa facies mea, qua inluminata cernebam, non inluminabatur)» (4, 16, 30). Con questa folgorante osservazione egli descrive perfettamente una situazione in cui anche noi rischiamo facilmente di trovarci. Anche noi, infatti, benché convertiti e battezzati, siamo tentati di vivere e di comportarci da “illuminati”, nel senso che usiamo la fede per illuminare le cose e intendiamo la missione come lo sforzo di trasmettere agli altri la nostra visione del mondo, ma «non abbiamo la faccia rivolta al mistero» di Dio che ci illumina, e di conseguenza non ne riflettiamo la luce. Sono due posizioni diametralmente opposte, benché entrambe si dicano cristiane.
Come può avvenire la conversione dall’una all’altra, per cui letteralmente si capovolge l’orientamento della vita?
Agostino ce lo mostra esemplarmente nell’ottavo libro raccontando la vicenda di un altro intellettuale, Mario Vittorino. Questo doctissimus senex, che sa tutto e ha letto tutto, e da tutti è venerato (con tanto di statua nel foro romano. Più di un nostro senatore a vita o un premio Nobel), leggendo la Scrittura e studiando con grande scrupolo omnes christianas litteras si convince della verità del cristianesimo. Ne parla con un prete colto, Simpliciano (ma non in pubblico: sono confidenze che uno come lui può fare, secretius et familiarius, solo tra persone di qualità, che possono capirle) e gli dice: «Sai, io ormai sono cristiano». Ne riceve una risposta brusca, che oggi forse sarebbe da molti riprovata in quanto contraria allo spirito del dialogo: «Non ti credo, e non ti considero cristiano finché non ti vedo nella chiesa di Cristo». La replica, ironica e sferzante come si conviene a un grande retore, è rimasta famosa (e potrebbe essere il motto di tutti i “cristianisti” senza fede): «Sono dunque i muri che fanno i cristiani? (ergo parietes faciunt christianos?)» (8, 2, 4).
Se Vittorino fosse solo interessato al dialogo per il dialogo, la cosa finirebbe qui: il prete e il professore si ripeterebbero quello scambio di battute a ogni incontro (saepe parietum inrisio repetebatur), reciprocamente compiaciuti della propria arguzia.
Ma Vittorino è un uomo seriamente preoccupato del suo destino, che sa – come dice splendidamente Agostino – «arrossire di fronte alla verità», e un giorno si presenta all’amico dicendogli semplicemente: «Andiamo in chiesa, voglio diventare cristiano» (eamus in ecclesiam: christianus volo fieri).
Quel che succede dopo non possiamo qui riferirlo nei dettagli: basti dire che il grande intellettuale declina l’offerta che i preti gli fanno di celebrare il battesimo in forma riservata e la cerimonia si svolge davanti a tutti, come una grande performance della fede, in cui Vittorino semplicemente si mostra, fa vedere il suo volto illuminato dal battesimo. E tutti lo guardano, tutti ripetono il suo nome, e quando fa la sua professione di fede, dice Agostino, «avrebbero voluto rapirselo nel loro cuore» (volebant eum omnes rapere intro in cor suum) (8, 2, 5).
L’attrattiva suscitata da Vittorino, la bellezza che lo rende così desiderabile per quella folla che se lo mangia con gli occhi, è ben diversa dal fascino umano che un maestro dalla forte personalità può avere sul suo uditorio: per intenderci, non è quella che, stando a Porfirio, brillava sul volto di Plotino quando faceva lezione (Porfirio, Vita di Plotino, 13). È la luce divina che brilla, come su uno specchio, sul volto del battezzato, che ha appena ricevuto quel sacramento che l’antichità cristiana, non per nulla, ha tanto spesso preferito chiamare col nome bellissimo di “illuminazione” (fotismos).
Ha scritto il cardinale Bergoglio nella prefazione a un volume su Agostino (Giacomo Tantardini, Il tempo della Chiesa secondo Agostino, Roma, Città Nuova, 2009, pagine 388, euro 22): «Se Agostino è attuale, se ci è contemporaneo (…) lo è soprattutto perché descrive semplicemente come si diventa e si rimane cristiani nel tempo della Chiesa. (…) Qui sta il punto: alcuni credono che la fede e la salvezza vengano col nostro sforzo di guardare, di cercare il Signore. Invece è il contrario: tu sei salvo quando il Signore ti cerca, quando Lui ti guarda e tu ti lasci guardare e cercare. Il Signore ti cerca per primo. E quando tu Lo trovi, capisci che Lui stava là guardandoti, ti aspettava Lui, per primo. Ecco la salvezza: Lui ti ama prima. E tu ti lasci amare. La salvezza è proprio questo incontro dove Lui opera per primo. Se non si dà questo incontro, non siamo salvi. Possiamo fare discorsi sulla salvezza. Inventare sistemi teologici rassicuranti, che trasformano Dio in un notaio e il suo amore gratuito in un atto dovuto a cui Lui sarebbe costretto dalla sua natura. Ma non entriamo mai nel popolo di Dio». Forse è in questa radice agostiniana, come già altri hanno notato, che si trova una delle ragioni più profonde della consonanza di due personalità così diverse come il Papa emerito Benedetto XVI e Papa Francesco, e forse è qui anche la via per non farsi intrappolare in una falsa antitesi tra dottrina ed esperienza come quella che rischia di profilarsi in certi recenti dibattiti intraecclesiali.
incredibile. L’unico che in Italia si “accorse” de card.l Bergoglio, fu don Giacomo. Ma forse ancora più incredibile che Bergoglio valorizzo così don Giacomo
incredibile. L’unico che in Italia si “accorse” de card.l Bergoglio, fu don Giacomo. Ma forse ancora più incredibile che Bergoglio valorizzo così don Giacomo